[:it]Una signora, sotto narcosi e non conoscendo l’italiano, presta il consenso verbale ad un intervento al ginocchio destro, lesionato in conseguenza di caduta su pista da sci, ma, invece, viene operata al ginocchio sinistro, non lesionato e per il quale non aveva prestato consenso.

Propone quindi una  domanda di risarcimento danni conseguenti a detto intervento.

La domanda viene respinta sia in primo che in secondo grado, sicché la donna si rivolge alla Corte di Cassazione.

La III^ Sezione della Cassazione, con la sentenza 29 settembre 2015, n. 19212 accoglie il ricorso con rinvio, per le seguenti ragioni:

l’acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di relativa mancata prestazione da parte del paziente.

Si tratta di due diritti ben distinti:

– il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (anche quest’ultima non potendo peraltro in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: art. 32, 2 co., cost.). Si tratta di un obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, e in particolare in ordine alla possibilità che ne consegua un aggravamento delle condizioni di salute del medesimo, al fine di porlo in condizione di consapevolmente consentirvi;

– il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del diverso diritto fondamentale alla salute (art. 32, 1 co., cost.). Pertanto l’autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone l’autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell’acquisizione del consenso informato.

quanto all’onere della prova, previsa la Corte, che, a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente, è onere del medico provare l’adempimento dell’obbligazione di fornirgli un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze.

Non è dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell’informazione, la quale deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.

Ne consegue che, in mancanza di consenso informato l’intervento del medico è pertanto sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente, il consenso libero e informato, che è volto a garantire la libertà dell’individuo e costituisce un mezzo per il migliore perseguimento dei suoi interessi, consentendogli di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico o anche di rifiutare (in ogni fase della vita, anche quella terminale) la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, salvo che ricorra un caso di trattamento sanitario per legge obbligatorio o uno stato di necessità, che non può mai essere presunto o tacito, ma deve essere fornito espressamente, dopo avere ricevuto un’adeguata informazione, anch’essa esplicita.

Presuntiva può essere invece la prova che un consenso informato sia stato effettivamente ed in modo esplicito prestato, ed il relativo onere ricade sempre sul medico.[:]

[:it]Una signora si rivolge “esperto in sistemi dimagranti”.
Questi, presentandosi in camice bianco e facendosi chiamare “dottore”, genera nella “paziente” il convincimento di trovarsi di fronte ad un medico.
Il trattamento provoca seri danni alla salute della consumatrice, cardiopatica.
La signora si rivolge al Giudice di Pace di Varese, che – con decisione 18 ottobre 2010 a firma del giudice Anna Sfardini –  ritiene annullabile per dolo (art. 1439 c.c.) il contratto concluso con il professionista che, pur non essendolo, si è qualificato come esercente una professione sanitaria; è ciò in quanto quest’ultimo, mediante una falsa rappresentazione della realtà sorretta da raggiri e malizie, ha ingenerato nel consumatore la falsa rappresentazione dell’esistenza di un elemento essenziale del contratto: la qualità di medico, imprescindibile per ritenere “valide” sul piano clinico le dichiarazioni del venditore circa la cura somministrata.

Nota bene:
– a produrre l’annullamento del contratto non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima;
– la condotta del “medico” può anche essere ritenuta “ingannevole” ai sensi del d.lgs. 2 agosto 2007 n. 146 (è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso);

Giudice di Pace di Varese, che – con decisione 18 ottobre 2010 a firma del giudice Anna Sfardini
… omissis …

MOTIVI

Ai fini dell’accoglimento della domanda attorea di annullamento del contratto ex art 1439 CC, è necessario accertare se il comportamento del signor M integri gli estremi del dolo e se sia stato altresì determinante del consenso.
Non v’è dubbio sulla circostanza che il dolo di cui all’art 1439 CC, possa concretarsi anche in comportamenti omissivi e reticenze, quando siano comunque idonei a creare una falsa rappresentazione della realtà, tale da indurre la controparte a contrarre, tali che senza di essi, la parte non avrebbe contrattato.
Non v’è dubbio, vista la concordanza delle dichiarazioni rese, che la signora B abbia creduto e confidato nel fatto che il signor M fosse un dottore. Né vi è dubbio sul fatto che il M non solo non abbia provveduto a chiarire l’equivoco, ma al contrario, maliziosamente, ne abbia approfittato.
La signora B è stata ingannata innanzi tutto dal camice bianco, dall’aver chiamato “dottore” il M senza il suo diniego, ma anche e soprattutto dalla sicurezza con cui il M esprimeva pareri di specifica competenza medica rassicurando la signora in merito alla compatibilità tra il suo stato di salute ed i trattamenti. Egli avrebbe dovuto, secondo la correttezza richiesta dalla circostanze, innanzi tutto dichiararsi un “non dottore”, e conseguentemente astenersi, senza gli idonei strumenti di scienza, a dare pareri medici e soprattutto invitare la signora a consultare il proprio cardiologo. Si ravvisa pertanto nel comportamento del M non semplicemente una mera inerzia nell’accettare la qualifica di medico, ma un’ulteriore attività di raggiro tale da determinare la formazione della volontà della sig. B, tratta deliberatamente in errore sull’innocuità della cura su di un soggetto cardiopatico. L’agire del M è stato fondamentale nel processo di formazione del consenso della signora B, la quale se avesse saputo di non trovarsi di fronte ad un medico avrebbe certamente rimandato, all’esito di un consulto con il proprio curante, la conclusione del contratto, vista anche l’onerosità dello stesso, tale da costringerla a chiedere un finanziamento, circostanza questa che dimostra senza ombra di dubbio la seria intenzione della sig. B di voler intraprendere e portare a termine la cura, qualora non glielo avessero impedito i malori riscontrati.
Il comportamento del M è ancora più grave se si considera che non solo egli ha, mediante omissioni sulla propria effettiva qualifica e mendaci assicurazioni sulla innocuità della cura, determinato al consenso la signora B, ma l’ha altresì esposta a pericolo per la salute, nella consapevolezza di farlo. Non a caso, come riferito dalla teste P, veniva spesso verificato che la signora B stesse bene, ciò significa che si prendeva in considerazione l’ipotesi che potesse sentirsi male, visto che anche sulla scheda compilata volta per volta da tale addetta era evidenziata la cardiopatia della signora B, con una croce all’altezza del torace.
Risulta anche sospetto il fatto che sia stato richiesto, ed ottenuto, anticipatamente il pagamento dell’intera cura, mentre una valutazione quanto meno corretta e professionale della situazione avrebbe suggerito l’effettuazione di alcune sedute di prova.
La circostanza, addotta dalla convenuta, che altri clienti cardiopatici si siano sottoposti alle medesime cure dimagranti è assolutamente ininfluente, innanzi tutto per la varietà delle storie cliniche nonché perché nulla si sa delle loro vicende contrattuali con F.
E’ invece determinante quanto si evince dal certificato (doc.4 fasc. attrice) dell’Ospedale di Circolo, unità di cardiologia, a firma della cardiologa dott.ssa C, intestato alla sig. B: “in relazione al quadro clinico ed alle terapie in corso risultano controindicate tutte le procedure che possano provocare ipotensione acuta per l’elevato rischio di eventi ischemici acuti. Sono pertanto assolutamente sconsigliati sauna, bagno turco, trattamenti che prevedono riscaldamento e/o bruschi cambi di temperatura.” Dall’esame delle schede compilate nel corso e ad esito dei trattamenti, (doc. 5 fasc. convenuta) nonché dalle dichiarazioni della teste P, che praticava i trattamenti, si evince che essi consistevano, tra l’altro, nell’uso di una sauna e di una coperta termica, risulta altresì che  la B aveva una perdita ponderale di tra 0,8 e 1 chilogrammo per seduta.
Non ritiene il giudice la necessità di una CTU per concordare con il surriferito parere medico, stante la sua indiscussa qualità di peritus peritorum, che gli consente una valutazione anche sulla base delle proprie conoscenze e della propria esperienza. Il tal senso si è espresso il Tribunale di Varese oltre che, più volte, la Corte di Cassazione.
E’ del resto facilmente intuibile che una perdita ponderale di circa un chilogrammo, nel tempo di circa un’ora, per merito prevalentemente di sollecitazioni termiche, non può avvenire senza uno stress a carico dell’apparato cardiocircolatorio, motivo per cui saune e quant’altro sono normalmente sconsigliati ai soggetti cardiopatici.
Per tutto quanto sopra, il giudice, accertati i raggiri, ed il comportamento contrario ai più elementari principi di correttezza e buona fede nella conduzione della fase precontrattuale, dichiara l’annullamento del contratto intercorso tra le parti, ai sensi dell’art.1439 CC.
Ordina conseguentemente la restituzione di tutte le somme ricevute dalla convenuta, pari ad € 3.850,00 oltre interessi dalla data dell’esborso al saldo.
Le spese di lite seguono la soccombenza ai sensi dell’art. 91 Cpc. Le spese dell’attrice sono integralmente poste a carico di parte convenuta e si liquidano come segue: – € 1.200,00 per diritti, € 1200,00 per onorari, € 110,00 per anticipazioni, oltre 12,5% rimborso forfetario, 4% Cpa ed IVA se dovuta.

P.Q.M.

Il Giudice di Pace di Varese così provvede:
– Accertato che il contratto concluso tra le parti è viziato da dolo, visto l’art. 1439 CC, annulla il contratto, e conseguentemente condanna la convenuta alla restituzione in favore dell’attrice, della somma di € 3.850,00 oltre interessi dalla data dell’esborso al saldo;
– Pone le spese di lite dell’attrice a carico di parte convenuta soccombente nella misura che segue: € 1.200,00 per diritti, € 1200,00 per onorari, € 110,00 per anticipazioni, oltre rimborso forfetario 12,5%, 4% Cpa, IVA se dovuta.
Dichiara la sentenza provvisoriamente esecutiva.
Varese 18 ottobre 2010[:]

© Copyright - Martignetti e Romano - P.Iva 13187681005 - Design Manà Comunicazione Privacy Policy Cookie Policy