Tra il giudizio di nullità del matrimonio e quello di divorzio non sussiste un rapporto di pregiudizialità

Il matrimonio religioso cattolico, teoricamente, dovrebbe durare per sempre.

A dirlo sono non solo i principi della Chiesa ma anche il Canone 105 del vigente Codex Juris Canonici, ove si legge che “Il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunione di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi ed alla procreazione ed educazione della prole, è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento tra i battezzati“.

Nonostante ciò far dichiarare nullo il matrimonio religioso celebrato secondo il rito cattolico è possibile, al ricorrere di specifici motivi. In particolare, le cause che possono giustificare un tale procedimento possono essere ricondotte a tre categorie: vizi del consenso, impedimenti e difetto di forma canonica.

Per poter far sì che il matrimonio sia dichiarato giuridicamente nullo dalla Chiesa, i coniugi devono rivolgersi alla Sacra Rota competente per territorio.

La sentenza di nullità matrimoniale emessa dai Tribunali della Chiesa non viene riconosciuta automaticamente dallo Stato Italiano ma, ottenuto il decreto di esecutività del Superiore organo ecclesiastico di controllo, su domanda di una o entrambe le parti se ne può richiedere il riconoscimento con un procedimento di delibazione presso la competente Corte d’Appello.

E’ pertanto possibile che, come nel caso in esame, che il procedimento volto alla dichiarazione di nullità del matrimonio da parte dei Tribunali della Chiesa e il procedimento civile di divorzio coesistano.

Rispetto a questa possibilità, le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a dirimere un contrasto sorto in giurisprudenza, stabilendo se la sentenza di divorzio possa considerarsi idonea a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte d’appello.

Con la sentenza 9004 del 31 marzo 2021 le Sezioni Unite, nel risolvere la questione, hanno evidenziato che tra il giudizio di nullità del matrimonio e quello di cessazione degli effetti civili non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, tale da imporre la sospensione del secondo a causa della pendenza del primo, trattandosi di procedimenti autonomi, non solo destinati a sfociare in decisioni di diversa natura ma aventi anche finalità e presupposti differenti.

Ne consegue, hanno proseguito le sezioni unite, che è proprio questa riscontrata diversità tra la sentenza di nullità e quella di divorzio, a giustificare, oltre al riconoscimento della possibilità di una coesistenza tra le due pronunce, nel caso in cui la delibazione della sentenza ecclesiastica intervenga dopo il passaggio in giudicato di quella di divorzio, l’affermazione dell’inidoneità della prima a impedire, nel caso in cui lo scioglimento del vincolo abbia luogo disgiuntamente dalla determinazione delle conseguenze economiche, la prosecuzione del giudizio civile ai fini dell’accertamento della liquidazione dell’assegno divorzile.

Il fondamento dell’obbligo di corrispondere l’assegno, infatti, deve essere individuato nella constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonché della necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, da realizzarsi attraverso il riconoscimento di un contributo economico. E la pronuncia, una volta divenuta definitiva, non resta travolta dal successivo riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio, la quale ha un oggetto diverso.

Pertanto, ha concluso la Cassazione, la questione deve essere risolta mediante l’enunciazione del principio di diritto secondo cui “in tema di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente a oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile”.

Avv. Claudia Romano

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