La Cassazione, con la l’ordinanza 13345/2023 pubblicata il 16 maggio 2023, fornisce un prezioso contributo sulla questione, definendo le condizioni al verificarsi delle quali sorge a carico dei nonni l’obbligo di farsi carico del mantenimento dei nipoti.

I Giudici del Supremo Collegio partono dal presupposto che l’obbligo di mantenimento dei figli minori ex art. 148 c.c. spetta primariamente e integralmente ai loro genitori.

Tuttavia, se uno dei due genitori non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, “l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui”.

L’obbligo dei nonni di contribuire al mantenimento dei nipoti, quindi, è un obbligo sussidiario rispetto a quello primario dei genitori, per attivare il quale non è tuttavia sufficiente che l’altro genitore non contribuisca al mantenimento dei figli, “se l’altro genitore è in grado di mantenerli” (Cass. n. 10419 del 02/05/2018).

Pertanto gli elementi necessari perché il genitore chieda ed ottenga in giudizio l’ordine agli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori di contribuire al mantenimento dei nipoti sono: – il rifiuto o l’omissione dell’altro genitore agli obblighi di mantenimento dei figli: – l’impossibilità per il richiedente di contribuire da solo a tutte le esigenze economiche dei figli.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di legittimità, la madre ha agito in giudizio per richiedere il contributo dei nonni al mantenimento della figlia, precisando:

  • che il padre si era sottratto ad ogni obbligo nei confronti della minore, non solo economico, ma anche di cura ed educativo, avendo cambiato molteplici volte residenza e datore di lavoro, rendendosi irreperibile e impedendo in tal modo alla madre di esperire le azioni a tutela del credito;
  • che la madre era titolare di un reddito bassissimo, insufficiente a far fronte alle molteplici esigenze della minore;
  • che, per di più, dovendosi occupare da sola della figlia, non poteva dedicare maggior tempo per accrescere i propri redditi;
  • che i nonni erano titolari di pensioni e proprietari di diversi immobili.

I nonni si sono opposti all’accoglimento della domanda, ma sia in primo che in secondo grado i Giudici hanno dato ragione alla madre, ponendo a carico degli ascendenti l’obbligo di contribuire al mantenimento dei nipoti nella misura di € 200,00 mensili.

I nonni ricorrono allora in Cassazione, evidenziando che la madre non aveva comprovato di aver esperito tutti i rimedi necessari nei confronti del padre dei figli per recuperare il proprio credito.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso degli ascendenti, sulla base dei principi sopra richiamanti, evidenziato che nel caso di specie, era stata bene esaminata e valutata la situazione economica dei genitori e dei loro comportamenti, segnatamente stigmatizzando il comportamento del padre, del tutto elusivo, di ogni compito di cura, istruzione, educazione ed economico della figlia, che gravano sulla sola madre, capace di una produzione reddituale inadeguata al mantenimento dei minori.

Da ciò consegue” – statuiscono i Giudici di legittimità – “che, in questa situazione, le esigenze di vita della minore non possono essere soddisfatte solo dalla madre, e pertanto i nonni sono tenuti al loro contributo”.

Avv. Marzia Capomagi

Negli ultimi anni si sono registrate molteplici pronunce dei Tribunali di tutta Italia, originate dai ricorsi di genitori contrari alla presenza di immagini e video dei minori sui social, pubblicate dall’ex partner.

Ne è un chiaro esempio l’ordinanza del 30 agosto 2021 con cui il Tribunale di Trani – pronunciandosi in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato da un padre al fine di veder inibita la pubblicazione di immagini della figlia sul noto social network “Tik Tok” per mano (o meglio click) dell’ex moglie – ha giudicato ammissibile il reclamo e illegittima la condotta materna, alla luce della mancata contestazione della condotta addebitatale nonché della mancata prova del consenso paterno (non desumibile, ad avviso della Corte, dalla possibilità per il ricorrente di controllare e/o accedere al profilo dell’ex moglie):

  • condannando la madre della minore “…alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore … , inseriti su social networks, comunque denominati”;
  • inibendo “…dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso del padre”;
  • determinando “ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima”.

Ad avviso del Tribunale pugliese, infatti, la pubblicazione di video ed immagini di minori senza il consenso dell’altro genitore integra la “….violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali” ed in particolare:

  • dell’art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), che recita: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”;
  • del combinato disposto dell’art. 1 e dell’art. 16 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 1991 che prevedono rispettivamente:
    • l’art. 1 l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto;
    • l’art. 16 che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti“);
  • l’art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018)che considera l’immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.lgs. n. 196 del 2009 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633 del 1941)”;
  • l’art. 2 quinquies del D.lgs. n°101/2018 che recita: “il minore che ha compiuto i quattordici anni può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione. Con riguardo a tali servizi, il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a quattordici anni, fondato sull’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), del Regolamento, è lecito a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale”.

In merito da ultimo al requisito del periculum, il collegio, richiamando la nota pronuncia del 19 settembre 2017 del Tribunale civile di Mantova, ha condivisibilmente rilevato come “…il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network” e ciò in quanto “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati.

Quanto sopra è stato del resto ribadito in modo pressoché unanime nel corso degli anni da diverse autorità giudiziarie, tra cui il Tribunale civile di Rieti e di Mantova.

In particolare, il Tribunale laziale, con ordinanza del 7 marzo 2019, è giunto alle medesime conclusioni del Tribunale pugliese, affermando:

  • la sussistenza del requisito del fumus boni iuris, alla luce dell’illiceità del trattamento dei dati personali del minore di anni 14 in mancanza del consenso di chi esercita sullo stesso la responsabilità genitoriale, così come disposto dal già citato art. 2 quinques del Codice Privacy;
  • la sussistenza del requisito del periculum in mora, “…atteso che l’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet” e ciò in quanto “Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”;
  • la possibilità di richiedere altresì l’applicazione dell’astreinte ex art. 624 bis c.p.c., ritenuta “…pienamente giustificata dall’esigenza di tutelare l’integrità dei minori e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonchè, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti”.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. III^, con sentenza n°5353 del 21 febbraio 2023, ha offerto preziosi chiarimenti circa la validità e i limiti, anche ratione temporis, delle c.d. “side letters”, ovvero le scritture private sottoscritte dai coniugi (o da genitori non sposati) integranti le condizioni dei provvedimenti in materia familiare.

Gli Ermellini, in particolare:

  • riconoscono, in virtù del principio di autonomia consacrato nell’art. 1322 c.c., l’astratta possibilità per le parti di sottoscrivere le c.d. “side letters”, “…con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare” (Cass. civ., Sez. I^, sent. 20 agosto 2014, n. 18066, Rv. 632256-01);
  • le predette scritture possono anche integrare il contenuto dei provvedimenti separatizi e/o divorzili, ad esempio mediante la modifica della “…disciplina della modalità di corresponsione dell’assegno di mantenimento, che preveda il versamento da parte del genitore obbligato direttamente al figlio di una quota del contributo complessivo di cui risulta beneficiario l’altro genitore” (Cass. Sez. 1, ord. 24 febbraio 2021, n. 5065, Rv. 660758-01).;
  • il contenuto delle predette può anche consistere nell’interpretazione extra-testuale di un titolo esecutivo purchè: a) “…che non sovrapponga la propria valutazione in diritto a quella del giudice del merito” (Cass. Sez. 3, sent. 5 giugno 2020, n. 10806, Rv. 658033-02)”; B), “…l’esito non sia tale da attribuire al titolo una portata contrastante con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione“;
  • la validità temporale delle statuizioni ivi contenute, qualora concluse “a latere” del ricorso per separazione, può permanere anche successivamente al divorzio tra le parti.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civ., con ordinanza del 24 febbraio 2023 n°5738, ha cassato la decisione con cui la Corte d’Appello di Venezia, confermando le statuizioni del giudice di primo grado, aveva disposto:

  • l’affidamento condiviso di una figlia minore nata fuori dal matrimonio con diritto di visita paritetico (c.d. collocamento alternato);
  • la revoca dell’assegno di mantenimento per la prole, alla luce dell’equa ripartizione dei periodi di frequentazione e dell’analoga condizione reddituale dei genitori;
  • la revoca dell’assegnazione della casa familiare, in precedenza disposto in favore della madre – la conservazione a soli fini anagrafici della residenza della figlia presso la casa familiare.

In particolare, gli Ermellini censurano l’operato dei giudici d’appello che, nel confermare la revoca dell’ex casa familiare, non hanno tenuto in debito conto il preminente interesse del minore alla conservazione dell’habitat domestico, affermando quanto segue:

  • Il provvedimento di revoca della casa familiare non può costituire, come nella specie, un effetto automatico dell’esercizio paritetico del diritto di visita o del cd. “collocamento paritetico”;
  • La valutazione che il giudice del merito deve svolgere non può limitarsi alla buona relazione del minore con entrambi i genitori ma deve avere ad oggetto una giustificazione puntuale, eziologicamente riconducibile esclusivamente alla realizzazione di un maggiore benessere del minore da ricondursi al mutamento del regime giuridico dell’assegnazione della casa “
  • Deve essere evidenziato come questo rilevante mutamento nella esperienza quotidiana di vita del minore, possa produrre, con giudizio prognostico da svolgersi con particolare rigore ove riferito ad un minore, che per la sua tenera età, non può essere ascoltato, un miglioramento concreto per lo stesso o sia finalizzato a scongiurare un pregiudizio per il suo sviluppo prodotto dal diverso regime di assegnazione ante atto. In questo quadro l’assegnazione della casa familiare ha, come affermato costantemente ed univocamente dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 33610 del 2021) l’esclusiva funzione di non modificare l’habitat domestico e il contesto relazionale e sociale all’interno del quale il minore ha vissuto prima dell’inasprirsi del conflitto familiare”;
  • non deve confondersi, al riguardo, il piano del rilievo economico per il genitore assegnatario, dell’assegnazione della casa familiare, dalla finalità del provvedimento, esclusivamente destinata a non compromettere lo sviluppo equilibrato del minore”.

Come noto, il nuova comma 2 bis dell’art. 6 del d.l. n.132 del 2014[1] ha introdotto l’obbligo di invio con modalità telematiche degli accordi di negoziazione assistita in materia di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, e loro modifica, e di alimenti.

In particolare, la predetta disposizione, recentemente introdotta dall’art. 9, comma 1, lett. i), n°3 del d.lgs. n°149 del 10 ottobre 2022, dispone che:

– l’accordo raggiunto debba essere sottoscritto digitalmente e trasmesso dagli avvocati al procuratore della Repubblica con modalità telematiche;

– il procuratore, a sua volta, qualora apponga il nulla osta / l’autorizzazione, dovrà anch’egli trasmettere l’accordo autorizzato digitalmente.

A fronte tuttavia dei ritardi nella strutturazione del “flusso telematico” che consentirà le predette comunicazioni, il Direttore Generale del Dipartimento per gli Affari di Giustizia, con nota del 28 febbraio 2023 ha chiarito che “In attesa che venga strutturato il flusso telematico che consentirà tali comunicazioni, sentito il Capo Dipartimento per gli affari di giustizia, gli uffici competenti sono autorizzati ad accettare il deposito in forma cartacea da parte degli avvocati che assistono le parti degli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita, ai sensi dell’art. 6 del d.l. n. 132 del 2014

[1]Art. 2-bis (Negoziazione assistita in modalità telematica): 1. Quando la negoziazione si svolge in modalità telematica, ciascun atto del procedimento, ivi compreso l’accordo conclusivo, è formato e sottoscritto nel rispetto delle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ed è trasmesso a mezzo posta elettronica certificata o con altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, secondo quanto previsto dalla normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. 2. Gli incontri si possono svolgere con collegamento audiovisivo da remoto. I sistemi di collegamento audiovisivo utilizzati per gli incontri del procedimento di negoziazione assicurano la contestuale, effettiva e reciproca udibilità e visibilità delle persone collegate. Ciascuna parte può chiedere di partecipare da remoto o in presenza.   3. Non può essere svolta con modalità telematiche ne’ con collegamenti audiovisivi da remoto l’acquisizione delle dichiarazioni del terzo di cui all’articolo 4-bis.  4. Quando l’accordo di negoziazione è contenuto in un documento sottoscritto dalle parti con modalità analogica, tale sottoscrizione è certificata dagli avvocati con firma digitale, o altro tipo di firma elettronica qualificata o avanzata, nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 20, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 82 del 2005.

 

Assegno Unico per la prole – maggiorazione anche per i nuclei vedovili

L’INPS, con messaggio n°724 del 17 febbraio 2023, chiarisce che la maggiorazione dell’Assegno Unico – prevista dall’art. 4, comma 8 del d.lgs. n°230/2021 nel caso in cui entrambi i genitori siano titolari di reddito – debba ritenersi estesa anche ai nuclei vedovili.

In particolare, su conforme parere del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, l’INPS ha confermato l’erogazione d’ufficio del predetto bonus “…per il secondo percettore di reddito ai nuclei vedovili per i decessi del genitore lavoratore che si sono verificati nell’anno di competenza in cui è riconosciuto l’Assegno. Al riguardo, si precisa altresì che, al fine di beneficiare della maggiorazione in argomento, non è previsto alcun adempimento ulteriore in capo agli utenti interessati”.

L’INPS, nel predetto messaggio chiarisce altresì che:

  • per le domande di Assegno presentate a decorrere dal 1° gennaio 2022, la maggiorazione in esame sarà applicata fino al mese di febbraio 2023 e cesserà di essere erogata a decorrere dalla rata di Assegno – qualora spettante – per la mensilità di marzo 2023”;
  • il decesso del genitore lavoratore nel corso dell’annualità di fruizione dell’Assegno non comporta la perdita del bonus sino alla conclusione dell’annualità della prestazione stessa”.

Il Consiglio di Stato è stato recentemente chiamato ad interpretare la portata dell’art. 40, comma 1, lett. c) del d.lgs. n°151 del 26 marzo 2001, chiarendo se il riconoscimento di periodi di riposo al padre lavoratore dipendente di un figlio di minore di anni uno, di cui al precedente art. 39, debba intendersi limitato al solo caso espressamente previsto “in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, ovvero estendersi a “qualsiasi categoria di lavoratrice non dipendente, e quindi anche alla ‘casalinga’, ovvero solo alla lavoratrice autonoma o libero professionista, posizione che comporta diritto a trattamenti economici di maternità a carico dell’Inps o di altro ente previdenziale” e se “in caso di risposta affermativa, se il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri previsti dall’articolo 40 del d.lgs. n. 151 del 2011 abbia portata generale, ovvero sia subordinata alla prova che la madre ‘casalinga’, considerata alla stregua della lavoratrice non dipendente, sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero affetta da “infermità”, seppure temporanee e/o non gravi”.

La Corte, in sessione plenaria, con sentenza n°17/2022, depositata il 28 dicembre 2022, ripercorre i previgenti e contrastanti orientamenti giurisprudenziali e, operando un condivisibile “bilanciamento tra diritti’, connessi alla genitorialità ed al economico sacrificio imposto al datore di lavoro” enuncia il seguente condivisibile principio di diritto: “L’articolo 40, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente articolo 39, sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti, e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgono dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità”.

Il caso arrivato sino alle Sezioni Unite è quello di due padri gay, entrambi italiani, che avevano avuto un figlio facendo ricorso alla maternità surrogata in Canada, dove è consentita anche alle coppie dello stesso sesso la surrogazione a titolo gratuito. Quando il bambino era venuto alla luce, le autorità canadesi avevano formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, senza menzionare né il padre intenzionale né la madre surrogata, né la donatrice.

Accogliendo il ricorso della coppia, la Corte Suprema della British Columbia aveva dichiarato che entrambi i ricorrenti dovevano figurare come genitori, e aveva disposto la rettifica dell’atto di nascita in Canada. Sulla base del provvedimento, i due padri italiani avevano quindi chiesto all’Ufficiale di Stato Civile italiano di modificare anche l’atto di nascita nel nostro Paese, ma si erano visti rifiutare la richiesta.

Con ricorso ex art. 702-bis Cod. Proc. Civ., i due uomini chiedevano alla Corte d’Appello di Venezia, a norma dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995, il riconoscimento del provvedimento canadese, sottolineandone la non contrarietà all’ordine pubblico italiano e la liceità del ricorso alla maternità surrogata secondo le leggi del Paese in cui erano state poste in essere.

La Corte d’Appello di Venezia, rilevato che “la tutela del superiore interesse del minore rientra tra i diritti fondamentali, … lordine pubblico internazionale impone di assicurare al minore la conservazione dei legami familiari ed il mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto un ruolo genitoriale… non può ricondursi allordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è prevista la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell’attribuzione del sesso”, riconosceva i requisiti per la trascrizione del provvedimento canadese.

Avverso tale decisone, però, ricorrevano il Ministero dell’Interno e il Sindaco di Verona, in qualità di ufficiale del Governo, e la prima Sezione della Cassazione, investita dell’importante questione, chiedeva l’intervento delle Sezioni Unite.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n°38162/2022, pubblicata il 30 dicembre 2022, ha stabilito che i bambini nati all’estero con la maternità surrogata potranno e dovranno essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori tramite l’adozione in casi particolari che richiede l’approvazione da parte di un giudice; e ciò in quanto non è automaticamente trascrivibile il loro atto di nascita estero.

Ad avviso della Suprema Corte, infatti:Cass.-SS.UU-n.-38162-2022

  • Il provvedimento giudiziario straniero non è trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni. In primo luogo, perché nella non trascrivibilità si esprime la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale. ….omissis….In secondo luogo, perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo (Corte cost., sentenza n. 79 del 2022)….omissis….In terzo luogo, perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale”.
  • L’esclusione della automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero non cancella, né affievolisce l’interesse superiore del minore. Il nostro ordinamento conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base dell’accoglienza o dell’impegno in un condiviso disegno di genitorialità sociale. Appartiene all’istituto dell’adozione particolare la valutazione in concreto dell’interesse alla identità filiale del minore che vive di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico. L’adozione in casi particolari non dà rilevanza al solo consenso e non asseconda attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità; dimostra, piuttosto, una precisa vocazione a tutelare l’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto anche con colui che, insieme al padre biologico, ha condiviso e attuato il progetto del suo concepimento e, assumendosi la responsabilità della cura e dell’educazione, ha altresì concorso in fatto a instaurare quella organizzazione di vita comune diretta alla crescita e allo sviluppo della personalità che è la famiglia. L’adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del bambino e un accertamento sulla idoneità dell’adottante. Il riconoscimento della pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato postula che ne sia accertata la corrispondenza all’interesse del minore. Il riconoscimento della genitorialità è quindi ancorato a una verifica in concreto dell’attualità del disegno genitoriale e della costante cura in via di fatto del bambino. La filiazione riguarda un profilo basilare dell’identità stessa del minore. Proprio in ragione di ciò è essenziale la ricerca, anche nel caso della maternità surrogata, della soluzione ottimale del superiore interesse del minore.
  • Va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner. L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte cost., sentenza n. 230 del 2020).
  • Attraverso l’adozione in casi particolari, l’ordinamento italiano assicura tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico, ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, del suo rapporto con il genitore d’intenzione. Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinché l’accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosità tipica della responsabilità genitoriale.

In conclusione “l’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983, che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita”.

Avv. Marzia Capomagi

 

É illegittimo e va disapplicato per eccesso di potere il decreto del Ministero dell’interno che, nel disciplinare le modalità di produzione, emissione e rilascio della carta di identità elettronica, non consente di indicare con la qualifica neutra di “genitore” la madre naturale e la madre adottiva di una minore, figlia di una coppia omosessuale. Lo stabilisce il Tribunale di Roma, con l’allegata ordinanza del 9 settembre 2022.
Il caso oggetto di questa interessante pronuncia del Tribunale capitolino – del quale hanno dato ampio conto le cronache nazionali delle ultima settimane – riguarda una minore figlia adottata in forza di sentenza resa ai sensi dell’art. 44, c. I , lett. d), L. n. 184/1983.
In data 28 maggio 2019, a seguito della trascrizione della sentenza di adozione, le due madri avevano congiuntamente richiesto agli uffici di Roma Capitale l’emissione di una carta d ‘identità elettronica, valida per l’espatrio, a nome della figlia minore, con l’indicazione dei propri nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di «genitore» per entrambe.
Con comunicazione in pari data, tuttavia, gli uffici aditi avevano evidenziato l’impossibilità di accogliere la richiesta, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro dell’interno del 31 gennaio 2019, il quale prevedeva esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Le ricorrenti hanno quindi impugnato il citato decreto ministeriale prima dinanzi al Tar del Lazio, dichiaratosi incompetenti, e poi innanzi al Tribunale Civile di Roma, il quale invece in accoglimento del ricorso, ha disapplicato il decreto e ordinato al Ministro dell’Interno, e per esso al Sindaco di Roma Capitale, quale ufficiale del Governo, di indicare sulla carta d’identità elettronica della minore la qualifica neutra di «genitore».
Ciò che rileva – osserva il Tribunale capitolino – «è che, nella fattispecie in oggetto, esiste una situazione giuridica e di fatto incontrovertibile, perché coperta dal giudicato e risultante dagli atti dello stato civile – consistente nel rapporto di filiazione (naturale e adottiva) della minore con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile e costitutiva di una famiglia».
Questo è, per il Tribunale di Roma, il punto di partenza per discutere dell’esistenza o meno di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina a vedersi identificate nella carta d’identità della figlia in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere o, comunque, in termini neutri e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della situazione familiare come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due madri o comunque di due genitori.
Sull’esistenza di tali diritti – afferma il Tribunale – non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Per quanto riguarda la madre adottiva, l’indicazione, nel documento d’identità della figlia, con una qualifica «padre», difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU, priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla.
Identica violazione si riscontra anche nei confronti della minore, la quale ha un analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri.
Con riguardo alla minore, peraltro, il diritto alla corretta rappresentazione delle sue origini familiari trova conferma anche in altri strumenti internazionali ai quali l’Italia ha aderito, primo fra tutti la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva con L. n. 176/ 1991, il cui art. 8, in particolare, impegna le Alte Parti Contraenti a «rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», comprendente «le sue relazioni famigliari», ed il cui art. 3 prescrive che «tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Quanto alla scelta alternativa proposta dalle ricorrenti tra l’indicazione della doppia dicitura ” madre” e ‘madre” ovvero della dicitura neutra “genitore”, il Tribunale ha opinato che questa seconda opzione sia la più idonea a soddisfare il legittimo interesse delle ricorrenti bilanciandolo con l’esigenza di rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali.
La pronuncia in esame si segnala perché si pone nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale favorevole a valorizzare le nuove forme di genitorialità – diverse da quella tradizionale basata sul fatto procreativo – che vanno emergendo nel nostro ordinamento.
Si tratta di un orientamento che ha trovato conferma anche in seno alla giurisprudenza di legittimità, ad esempio, nella sentenza Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, secondo cui «è riconoscibile in Italia un atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due donne atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali».
Avv. Claudia Romano

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32914 del 8 novembre 2022 hanno risolto una delle questioni più controverse in materia di separazione e divorzio, ovvero se l’assegno di mantenimento  per il coniuge, originariamente ritenuto dovuto, sia recuperabile nel caso in cui l’originario provvedimento venga modificato, disconoscendosene l’obbligo.

In particolare è stato statuito il seguente principio di diritto: «In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la «condictio indebiti» ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione «del richiedente o avente diritto», ove si accerti l’insussistenza «ab origine» dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la «condictio indebiti» e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, «delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)», sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità».

Le Sezioni Unite della Cassazione, dunque, non offrono una soluzione unitaria al problema e distinguono due diverse ipotesi:

  • vanno restituite le somme versate a titolo di mantenimento quando il giudice escluda la sussistenza, sin dall’origine, del diritto a percepirle;
  • non possono invece essere restituite le somme versate a titolo di mantenimento quando il giudice sottopone a un diverso giudizio le condizioni economiche del soggetto obbligato o dei bisogni del beneficiario e, a seguito di ciò, rimodula al ribasso gli importi dovuti.

Il primo caso si verifica quando viene a mancare del tutto lo stato di bisogno del coniuge beneficiario (si pensi a due coniugi che abbiano la medesima retribuzione, che magari viene accertata a seguito delle indagini tributarie svolte nel corso del processo); oppure quando il giudice accerta la sussistenza dei presupposti per l’addebito (ossia l’imputazione di responsabilità per la fine del matrimonio), cosa che accade, ad esempio, quando viene accertato un tradimento o l’abbandono del tetto coniugale. Anche in questo secondo caso, infatti, difetta all’origine il diritto a percepire l’assegno di mantenimento; difatti chi subisce l’addebito perde il diritto a chiedere qualsiasi sostegno economico, anche in caso di difficoltà economiche.

Al contrario, il diritto a ripetere le somme versate a titolo di assegno di mantenimento (o di assegno divorzile) non sorge quando la rivalutazione riguarda le possibilità economiche del coniuge obbligato al mantenimento (si pensi al caso del marito che, nel corso della causa, riesca a dimostrare di dover sostenere numerose spese, come quelle per il mutuo, che non gli consentono di pagare un importo elevato a titolo di mantenimento) o quando tale importo viene rimodulato dal giudice in relazione ai più contenuti bisogni economici del coniuge beneficiario.

Per la Cassazione non esiste, nel nostro ordinamento, una norma che sancisca l’irripetibilità dell’assegno alimentare provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando. Tuttavia occorre «operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza – di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole nel rapporto». Nella peculiare comunità sociale rappresentata dalla famiglia – prosegue la Corte – è necessario dare il giusto rilievo alle esigenze equitative-solidaristiche, in un’ottica di temperamento della generale operatività della regola civilistica della ripetizione di indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della stessa. Si deve infatti presumere, che le maggiori somme versate «siano state comunque (in atto o in potenza) consumate, proprio per fini di sostentamento, dal coniuge debole».

La Corte non arriva però fino a definire l’entità di questa somma, che è «necessariamente modesta», ma che non essendo stata fissata «in maniera rigida» dal Legislatore richiede «una valutazione personalizzata» da parte del giudice di merito, considerate tutte le variabili del caso concreto: «la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica».

Avv. Claudia Romano

 

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