Come noto, ai sensi dell’art. 473-bis. 2 c.p.c., introdotto a seguito della c.d. Riforma Cartabia, i coniugi hanno l’obbligo di “…presentare all’udienza di comparizione avanti al Presidente del Tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune, con la precisazione che, in caso di contestazioni il Tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi se del caso, anche della polizia tributaria”.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con ordinanza n°30537 del 27 novembre 2024, ritorna sui limiti al potere discrezionale concesso al giudice di disporre e/o integrare (o meno) indagini contabili sui redditi dei coniugi, ricordando che la scelta sia censurabile in punto di motivazione:

  • “…ove non venga attivato a fronte di richiesta fondata su fatti concreti e circostanziati, di cui non sia spiegata l’irrilevanza ai fini della decisione (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21603 del 20/09/2013)”;
  • “…nel caso in cui le indagini siano state effettuate, ma a fronte di contestazioni circostanziate sull’esito e la completezza delle stesse venga richiesto al giudice di discostarsi dall’elaborato peritale o di effettuare delle integrazioni”.

In particolare, quanto all’eventuale richiesta di rinnovazione della CTU:

  • la stessa è ammissibile anche in appello “…ove si contestino le valutazioni tecniche del consulente fatte proprie dal giudice di primo grado, poiché non viene chiesta l’ammissione di un nuovo mezzo di prova”;
  • qualora il Giudice neghi la richiesta di rinnovazione, lo stesso, pur non essendo tenuto a darne motivazione, che ben può essere implicita, “…è tenuto a rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall’appellante avverso le valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata, sicché l’omesso espresso rigetto dell’istanza di rinnovazione non integra un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., ma, eventualmente, un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure tecniche alla sentenza impugnata (Cass, Sez. 2, Ordinanza n. 26709 del 24/11/2020; Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 5339 del 18/03/2015)”.

Medesimo discorso valgasi in merito al potere discrezionale del giudice di accogliere o meno istanze di riconvocazione del consulente d’ufficio per chiarimenti o per un supplemento di consulenza “senza che l’eventuale provvedimento negativo possa essere censurato in sede di legittimità deducendo la carenza di motivazione espressa al riguardo, quando dal complesso delle ragioni svolte in sentenza, in base ad elementi di convincimento tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e valutate con un giudizio immune da vizi logici e giuridici, risulti l’irrilevanza o la superfluità dell’indagine richiesta, non sussistendo la necessità, ai fini della completezza della motivazione, che il giudice dia conto delle contrarie motivazioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, si hanno per disattese perché incompatibili con le argomentazioni poste a base della motivazione (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 21525 del 20/08/2019; Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 2103 del 24/01/2019).

Ritornando sull’obbligo di motivazione, gli Ermellini chiariscono da ultimo che “…il principio per cui il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento – non dovendo necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili – non trova applicazione allorquando le censure all’elaborato peritale si rivelino non solo puntuali e specifiche, ma evidenziano anche la totale assenza di giustificazioni delle conclusioni dell’elaborato (nella specie, oggetto di una prima stesura e di un postumo immotivato ripensamento a opera del consulente d’ufficio, oggetto di critiche anche nel merito), ipotesi nella quale la sentenza di appello, che ometta di motivare l’adesione acritica alle predette conclusioni, si rivela a sua volta nulla (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 15804 del 06/06/2024). In altri termini, qualora siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate alle risultanze della CTU “…il giudice del merito, per non incorrere nel vizio di motivazione è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 15147 del 11/06/2018)”.

A ciò consegue pertanto che “…l’omessa valutazione da parte del giudice di merito dei rilievi tecnici mossi alla CTU è deducibile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., se la motivazione, pur aderendo alle conclusioni rassegnate dal consulente d’ufficio, omette qualsivoglia menzione delle osservazioni a quelle svolte, non consentendo di comprendere il percorso logico-giuridico che ha portato alla decisione (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 9925 del 12/04/2024)”.

Cliccare qui per il testo del provvedimento

La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza 21969/2024 del 24 aprile 2024, depositata in data 5 agosto 2024, ha fornito essenziali chiarimenti sulla portata della volontà del minore, qualora espressa con consapevolezza e maturità, capace di fondare essa sola l’interruzione dei rapporti con i suoi genitori, e ciò indipendentemente da una valutazione di un’eventuale responsabilità dei genitori e degli stessi motivi addotti dal figlio.

 

Il caso.

La vicenda in esame trae origine dall’impugnazione di una sentenza con cui la Corte d’Appello di Torino, in un giudizio di separazione vertente altresì sull’affidamento e mantenimento di una figlia adolescente, aveva prorogato l’affidamento temporaneo della minore agli zii paterni, attribuendo agli affidatari l’esercizio della responsabilità genitoriale sulla stessa, confermando altresì l’interruzione degli incontri della figlia con il padre e con la madre.

La decisione di interrompere le frequentazioni tra la figlia e i genitori veniva fondata dai giudici d’appello non solo sulle risultanze delle relazioni dei servizi sociali e sul rappresentato fallimento dei percorsi intrapresi dai genitori per il recupero della capacità genitoriale, ma soprattutto sulla volontà esternata dalla stessa minore di non aver più alcun rapporto con i genitori.

Avverso la predetta sentenza ricorreva per cassazione il padre, dolendosi inter alia:

  • dell’illegittima ingerenza dell’autorità statale su diritti consacrati agli articoli 29 e 30 Cost. nonché art. 8 CEDU e art. 24, par.3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE;
  • dell’omessa audizione dei nonni paterni della minore, a cui lo stesso non avrebbe mai rinunciato.

 

La decisione della Suprema Corte.

Ad avviso degli Ermellini tutti i motivi di ricorso sono da ritenersi inammissibili, dando continuità ad un risalente orientamento, fondato sui principi consacrati nella Convenzione ONU del 1989 sui diritti del fanciullo, secondo cui “…la circostanza che un figlio minore, divenuto oramai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione, o, addirittura, di ripulsa, – tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche – costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso e il coniuge non affidatario (cfr. cass. 317/1998)”.

 

In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto:

  • correttamente e ampiamente motivato dal giudice del gravame la totale inidoneità paterna “…immaturo ed affetto da ossessioni patologiche, ad intrattenere rapporti sereni ed equilibrati con la figlia, nonostante i tentativi fatti per consentirgli un recupero della capacità genitoriale, falliti per il suo comportamento, a tratti perfino aggressivo”;
  • dirimente l’accertamento operato dalla Corte d’Appello “…sulla base della relazione della curatrice – che l’interruzione di ogni contatto con il padre corrisponde alle ‘accorate richieste (della minore)’, rimaste fino ad allora inascoltate”;
  • il grado di maturità e consapevolezza della minore, giudicata “…intellettivamente molto dotata, con una maturità superiore all’età, che ha sempre mostrato una piena autonomia di giudizio e una non comune lucidità di lettura degli avvenimenti in cui è stata coinvolta”.

 

La Corte di Cassazione spingendosi oltre il caso concreto, chiarisce altresì come la sospensione degli incontri genitore figlio possa essere disposta indipendentemente sia “dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio” che “dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti”.

Ad avviso della Suprema Corte infatti, la valutazione demandata al giudicante verte sulla “profondità e intensità” dei predetti  sentimenti e su un giudizio prognostico sugli effetti che “…il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare” ovvero se “ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa”.

La Cassazione, con la l’ordinanza 13345/2023 pubblicata il 16 maggio 2023, fornisce un prezioso contributo sulla questione, definendo le condizioni al verificarsi delle quali sorge a carico dei nonni l’obbligo di farsi carico del mantenimento dei nipoti.

I Giudici del Supremo Collegio partono dal presupposto che l’obbligo di mantenimento dei figli minori ex art. 148 c.c. spetta primariamente e integralmente ai loro genitori.

Tuttavia, se uno dei due genitori non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, “l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui”.

L’obbligo dei nonni di contribuire al mantenimento dei nipoti, quindi, è un obbligo sussidiario rispetto a quello primario dei genitori, per attivare il quale non è tuttavia sufficiente che l’altro genitore non contribuisca al mantenimento dei figli, “se l’altro genitore è in grado di mantenerli” (Cass. n. 10419 del 02/05/2018).

Pertanto gli elementi necessari perché il genitore chieda ed ottenga in giudizio l’ordine agli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori di contribuire al mantenimento dei nipoti sono: – il rifiuto o l’omissione dell’altro genitore agli obblighi di mantenimento dei figli: – l’impossibilità per il richiedente di contribuire da solo a tutte le esigenze economiche dei figli.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di legittimità, la madre ha agito in giudizio per richiedere il contributo dei nonni al mantenimento della figlia, precisando:

  • che il padre si era sottratto ad ogni obbligo nei confronti della minore, non solo economico, ma anche di cura ed educativo, avendo cambiato molteplici volte residenza e datore di lavoro, rendendosi irreperibile e impedendo in tal modo alla madre di esperire le azioni a tutela del credito;
  • che la madre era titolare di un reddito bassissimo, insufficiente a far fronte alle molteplici esigenze della minore;
  • che, per di più, dovendosi occupare da sola della figlia, non poteva dedicare maggior tempo per accrescere i propri redditi;
  • che i nonni erano titolari di pensioni e proprietari di diversi immobili.

I nonni si sono opposti all’accoglimento della domanda, ma sia in primo che in secondo grado i Giudici hanno dato ragione alla madre, ponendo a carico degli ascendenti l’obbligo di contribuire al mantenimento dei nipoti nella misura di € 200,00 mensili.

I nonni ricorrono allora in Cassazione, evidenziando che la madre non aveva comprovato di aver esperito tutti i rimedi necessari nei confronti del padre dei figli per recuperare il proprio credito.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso degli ascendenti, sulla base dei principi sopra richiamanti, evidenziato che nel caso di specie, era stata bene esaminata e valutata la situazione economica dei genitori e dei loro comportamenti, segnatamente stigmatizzando il comportamento del padre, del tutto elusivo, di ogni compito di cura, istruzione, educazione ed economico della figlia, che gravano sulla sola madre, capace di una produzione reddituale inadeguata al mantenimento dei minori.

Da ciò consegue” – statuiscono i Giudici di legittimità – “che, in questa situazione, le esigenze di vita della minore non possono essere soddisfatte solo dalla madre, e pertanto i nonni sono tenuti al loro contributo”.

Avv. Marzia Capomagi

Negli ultimi anni si sono registrate molteplici pronunce dei Tribunali di tutta Italia, originate dai ricorsi di genitori contrari alla presenza di immagini e video dei minori sui social, pubblicate dall’ex partner.

Ne è un chiaro esempio l’ordinanza del 30 agosto 2021 con cui il Tribunale di Trani – pronunciandosi in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato da un padre al fine di veder inibita la pubblicazione di immagini della figlia sul noto social network “Tik Tok” per mano (o meglio click) dell’ex moglie – ha giudicato ammissibile il reclamo e illegittima la condotta materna, alla luce della mancata contestazione della condotta addebitatale nonché della mancata prova del consenso paterno (non desumibile, ad avviso della Corte, dalla possibilità per il ricorrente di controllare e/o accedere al profilo dell’ex moglie):

  • condannando la madre della minore “…alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore … , inseriti su social networks, comunque denominati”;
  • inibendo “…dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso del padre”;
  • determinando “ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima”.

Ad avviso del Tribunale pugliese, infatti, la pubblicazione di video ed immagini di minori senza il consenso dell’altro genitore integra la “….violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali” ed in particolare:

  • dell’art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), che recita: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”;
  • del combinato disposto dell’art. 1 e dell’art. 16 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 1991 che prevedono rispettivamente:
    • l’art. 1 l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto;
    • l’art. 16 che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti“);
  • l’art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018)che considera l’immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.lgs. n. 196 del 2009 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633 del 1941)”;
  • l’art. 2 quinquies del D.lgs. n°101/2018 che recita: “il minore che ha compiuto i quattordici anni può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione. Con riguardo a tali servizi, il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a quattordici anni, fondato sull’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), del Regolamento, è lecito a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale”.

In merito da ultimo al requisito del periculum, il collegio, richiamando la nota pronuncia del 19 settembre 2017 del Tribunale civile di Mantova, ha condivisibilmente rilevato come “…il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network” e ciò in quanto “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati.

Quanto sopra è stato del resto ribadito in modo pressoché unanime nel corso degli anni da diverse autorità giudiziarie, tra cui il Tribunale civile di Rieti e di Mantova.

In particolare, il Tribunale laziale, con ordinanza del 7 marzo 2019, è giunto alle medesime conclusioni del Tribunale pugliese, affermando:

  • la sussistenza del requisito del fumus boni iuris, alla luce dell’illiceità del trattamento dei dati personali del minore di anni 14 in mancanza del consenso di chi esercita sullo stesso la responsabilità genitoriale, così come disposto dal già citato art. 2 quinques del Codice Privacy;
  • la sussistenza del requisito del periculum in mora, “…atteso che l’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet” e ciò in quanto “Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”;
  • la possibilità di richiedere altresì l’applicazione dell’astreinte ex art. 624 bis c.p.c., ritenuta “…pienamente giustificata dall’esigenza di tutelare l’integrità dei minori e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonchè, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti”.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. III^, con sentenza n°5353 del 21 febbraio 2023, ha offerto preziosi chiarimenti circa la validità e i limiti, anche ratione temporis, delle c.d. “side letters”, ovvero le scritture private sottoscritte dai coniugi (o da genitori non sposati) integranti le condizioni dei provvedimenti in materia familiare.

Gli Ermellini, in particolare:

  • riconoscono, in virtù del principio di autonomia consacrato nell’art. 1322 c.c., l’astratta possibilità per le parti di sottoscrivere le c.d. “side letters”, “…con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare” (Cass. civ., Sez. I^, sent. 20 agosto 2014, n. 18066, Rv. 632256-01);
  • le predette scritture possono anche integrare il contenuto dei provvedimenti separatizi e/o divorzili, ad esempio mediante la modifica della “…disciplina della modalità di corresponsione dell’assegno di mantenimento, che preveda il versamento da parte del genitore obbligato direttamente al figlio di una quota del contributo complessivo di cui risulta beneficiario l’altro genitore” (Cass. Sez. 1, ord. 24 febbraio 2021, n. 5065, Rv. 660758-01).;
  • il contenuto delle predette può anche consistere nell’interpretazione extra-testuale di un titolo esecutivo purchè: a) “…che non sovrapponga la propria valutazione in diritto a quella del giudice del merito” (Cass. Sez. 3, sent. 5 giugno 2020, n. 10806, Rv. 658033-02)”; B), “…l’esito non sia tale da attribuire al titolo una portata contrastante con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione“;
  • la validità temporale delle statuizioni ivi contenute, qualora concluse “a latere” del ricorso per separazione, può permanere anche successivamente al divorzio tra le parti.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civ., con ordinanza del 24 febbraio 2023 n°5738, ha cassato la decisione con cui la Corte d’Appello di Venezia, confermando le statuizioni del giudice di primo grado, aveva disposto:

  • l’affidamento condiviso di una figlia minore nata fuori dal matrimonio con diritto di visita paritetico (c.d. collocamento alternato);
  • la revoca dell’assegno di mantenimento per la prole, alla luce dell’equa ripartizione dei periodi di frequentazione e dell’analoga condizione reddituale dei genitori;
  • la revoca dell’assegnazione della casa familiare, in precedenza disposto in favore della madre – la conservazione a soli fini anagrafici della residenza della figlia presso la casa familiare.

In particolare, gli Ermellini censurano l’operato dei giudici d’appello che, nel confermare la revoca dell’ex casa familiare, non hanno tenuto in debito conto il preminente interesse del minore alla conservazione dell’habitat domestico, affermando quanto segue:

  • Il provvedimento di revoca della casa familiare non può costituire, come nella specie, un effetto automatico dell’esercizio paritetico del diritto di visita o del cd. “collocamento paritetico”;
  • La valutazione che il giudice del merito deve svolgere non può limitarsi alla buona relazione del minore con entrambi i genitori ma deve avere ad oggetto una giustificazione puntuale, eziologicamente riconducibile esclusivamente alla realizzazione di un maggiore benessere del minore da ricondursi al mutamento del regime giuridico dell’assegnazione della casa “
  • Deve essere evidenziato come questo rilevante mutamento nella esperienza quotidiana di vita del minore, possa produrre, con giudizio prognostico da svolgersi con particolare rigore ove riferito ad un minore, che per la sua tenera età, non può essere ascoltato, un miglioramento concreto per lo stesso o sia finalizzato a scongiurare un pregiudizio per il suo sviluppo prodotto dal diverso regime di assegnazione ante atto. In questo quadro l’assegnazione della casa familiare ha, come affermato costantemente ed univocamente dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 33610 del 2021) l’esclusiva funzione di non modificare l’habitat domestico e il contesto relazionale e sociale all’interno del quale il minore ha vissuto prima dell’inasprirsi del conflitto familiare”;
  • non deve confondersi, al riguardo, il piano del rilievo economico per il genitore assegnatario, dell’assegnazione della casa familiare, dalla finalità del provvedimento, esclusivamente destinata a non compromettere lo sviluppo equilibrato del minore”.

Come noto, il nuova comma 2 bis dell’art. 6 del d.l. n.132 del 2014[1] ha introdotto l’obbligo di invio con modalità telematiche degli accordi di negoziazione assistita in materia di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, e loro modifica, e di alimenti.

In particolare, la predetta disposizione, recentemente introdotta dall’art. 9, comma 1, lett. i), n°3 del d.lgs. n°149 del 10 ottobre 2022, dispone che:

– l’accordo raggiunto debba essere sottoscritto digitalmente e trasmesso dagli avvocati al procuratore della Repubblica con modalità telematiche;

– il procuratore, a sua volta, qualora apponga il nulla osta / l’autorizzazione, dovrà anch’egli trasmettere l’accordo autorizzato digitalmente.

A fronte tuttavia dei ritardi nella strutturazione del “flusso telematico” che consentirà le predette comunicazioni, il Direttore Generale del Dipartimento per gli Affari di Giustizia, con nota del 28 febbraio 2023 ha chiarito che “In attesa che venga strutturato il flusso telematico che consentirà tali comunicazioni, sentito il Capo Dipartimento per gli affari di giustizia, gli uffici competenti sono autorizzati ad accettare il deposito in forma cartacea da parte degli avvocati che assistono le parti degli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita, ai sensi dell’art. 6 del d.l. n. 132 del 2014

[1]Art. 2-bis (Negoziazione assistita in modalità telematica): 1. Quando la negoziazione si svolge in modalità telematica, ciascun atto del procedimento, ivi compreso l’accordo conclusivo, è formato e sottoscritto nel rispetto delle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ed è trasmesso a mezzo posta elettronica certificata o con altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, secondo quanto previsto dalla normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. 2. Gli incontri si possono svolgere con collegamento audiovisivo da remoto. I sistemi di collegamento audiovisivo utilizzati per gli incontri del procedimento di negoziazione assicurano la contestuale, effettiva e reciproca udibilità e visibilità delle persone collegate. Ciascuna parte può chiedere di partecipare da remoto o in presenza.   3. Non può essere svolta con modalità telematiche ne’ con collegamenti audiovisivi da remoto l’acquisizione delle dichiarazioni del terzo di cui all’articolo 4-bis.  4. Quando l’accordo di negoziazione è contenuto in un documento sottoscritto dalle parti con modalità analogica, tale sottoscrizione è certificata dagli avvocati con firma digitale, o altro tipo di firma elettronica qualificata o avanzata, nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 20, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 82 del 2005.

 

Assegno Unico per la prole – maggiorazione anche per i nuclei vedovili

L’INPS, con messaggio n°724 del 17 febbraio 2023, chiarisce che la maggiorazione dell’Assegno Unico – prevista dall’art. 4, comma 8 del d.lgs. n°230/2021 nel caso in cui entrambi i genitori siano titolari di reddito – debba ritenersi estesa anche ai nuclei vedovili.

In particolare, su conforme parere del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, l’INPS ha confermato l’erogazione d’ufficio del predetto bonus “…per il secondo percettore di reddito ai nuclei vedovili per i decessi del genitore lavoratore che si sono verificati nell’anno di competenza in cui è riconosciuto l’Assegno. Al riguardo, si precisa altresì che, al fine di beneficiare della maggiorazione in argomento, non è previsto alcun adempimento ulteriore in capo agli utenti interessati”.

L’INPS, nel predetto messaggio chiarisce altresì che:

  • per le domande di Assegno presentate a decorrere dal 1° gennaio 2022, la maggiorazione in esame sarà applicata fino al mese di febbraio 2023 e cesserà di essere erogata a decorrere dalla rata di Assegno – qualora spettante – per la mensilità di marzo 2023”;
  • il decesso del genitore lavoratore nel corso dell’annualità di fruizione dell’Assegno non comporta la perdita del bonus sino alla conclusione dell’annualità della prestazione stessa”.

Il Consiglio di Stato è stato recentemente chiamato ad interpretare la portata dell’art. 40, comma 1, lett. c) del d.lgs. n°151 del 26 marzo 2001, chiarendo se il riconoscimento di periodi di riposo al padre lavoratore dipendente di un figlio di minore di anni uno, di cui al precedente art. 39, debba intendersi limitato al solo caso espressamente previsto “in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, ovvero estendersi a “qualsiasi categoria di lavoratrice non dipendente, e quindi anche alla ‘casalinga’, ovvero solo alla lavoratrice autonoma o libero professionista, posizione che comporta diritto a trattamenti economici di maternità a carico dell’Inps o di altro ente previdenziale” e se “in caso di risposta affermativa, se il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri previsti dall’articolo 40 del d.lgs. n. 151 del 2011 abbia portata generale, ovvero sia subordinata alla prova che la madre ‘casalinga’, considerata alla stregua della lavoratrice non dipendente, sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero affetta da “infermità”, seppure temporanee e/o non gravi”.

La Corte, in sessione plenaria, con sentenza n°17/2022, depositata il 28 dicembre 2022, ripercorre i previgenti e contrastanti orientamenti giurisprudenziali e, operando un condivisibile “bilanciamento tra diritti’, connessi alla genitorialità ed al economico sacrificio imposto al datore di lavoro” enuncia il seguente condivisibile principio di diritto: “L’articolo 40, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente articolo 39, sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti, e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgono dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità”.

Il caso arrivato sino alle Sezioni Unite è quello di due padri gay, entrambi italiani, che avevano avuto un figlio facendo ricorso alla maternità surrogata in Canada, dove è consentita anche alle coppie dello stesso sesso la surrogazione a titolo gratuito. Quando il bambino era venuto alla luce, le autorità canadesi avevano formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, senza menzionare né il padre intenzionale né la madre surrogata, né la donatrice.

Accogliendo il ricorso della coppia, la Corte Suprema della British Columbia aveva dichiarato che entrambi i ricorrenti dovevano figurare come genitori, e aveva disposto la rettifica dell’atto di nascita in Canada. Sulla base del provvedimento, i due padri italiani avevano quindi chiesto all’Ufficiale di Stato Civile italiano di modificare anche l’atto di nascita nel nostro Paese, ma si erano visti rifiutare la richiesta.

Con ricorso ex art. 702-bis Cod. Proc. Civ., i due uomini chiedevano alla Corte d’Appello di Venezia, a norma dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995, il riconoscimento del provvedimento canadese, sottolineandone la non contrarietà all’ordine pubblico italiano e la liceità del ricorso alla maternità surrogata secondo le leggi del Paese in cui erano state poste in essere.

La Corte d’Appello di Venezia, rilevato che “la tutela del superiore interesse del minore rientra tra i diritti fondamentali, … lordine pubblico internazionale impone di assicurare al minore la conservazione dei legami familiari ed il mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto un ruolo genitoriale… non può ricondursi allordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è prevista la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell’attribuzione del sesso”, riconosceva i requisiti per la trascrizione del provvedimento canadese.

Avverso tale decisone, però, ricorrevano il Ministero dell’Interno e il Sindaco di Verona, in qualità di ufficiale del Governo, e la prima Sezione della Cassazione, investita dell’importante questione, chiedeva l’intervento delle Sezioni Unite.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n°38162/2022, pubblicata il 30 dicembre 2022, ha stabilito che i bambini nati all’estero con la maternità surrogata potranno e dovranno essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori tramite l’adozione in casi particolari che richiede l’approvazione da parte di un giudice; e ciò in quanto non è automaticamente trascrivibile il loro atto di nascita estero.

Ad avviso della Suprema Corte, infatti:Cass.-SS.UU-n.-38162-2022

  • Il provvedimento giudiziario straniero non è trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni. In primo luogo, perché nella non trascrivibilità si esprime la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale. ….omissis….In secondo luogo, perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo (Corte cost., sentenza n. 79 del 2022)….omissis….In terzo luogo, perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale”.
  • L’esclusione della automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero non cancella, né affievolisce l’interesse superiore del minore. Il nostro ordinamento conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base dell’accoglienza o dell’impegno in un condiviso disegno di genitorialità sociale. Appartiene all’istituto dell’adozione particolare la valutazione in concreto dell’interesse alla identità filiale del minore che vive di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico. L’adozione in casi particolari non dà rilevanza al solo consenso e non asseconda attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità; dimostra, piuttosto, una precisa vocazione a tutelare l’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto anche con colui che, insieme al padre biologico, ha condiviso e attuato il progetto del suo concepimento e, assumendosi la responsabilità della cura e dell’educazione, ha altresì concorso in fatto a instaurare quella organizzazione di vita comune diretta alla crescita e allo sviluppo della personalità che è la famiglia. L’adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del bambino e un accertamento sulla idoneità dell’adottante. Il riconoscimento della pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato postula che ne sia accertata la corrispondenza all’interesse del minore. Il riconoscimento della genitorialità è quindi ancorato a una verifica in concreto dell’attualità del disegno genitoriale e della costante cura in via di fatto del bambino. La filiazione riguarda un profilo basilare dell’identità stessa del minore. Proprio in ragione di ciò è essenziale la ricerca, anche nel caso della maternità surrogata, della soluzione ottimale del superiore interesse del minore.
  • Va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner. L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte cost., sentenza n. 230 del 2020).
  • Attraverso l’adozione in casi particolari, l’ordinamento italiano assicura tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico, ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, del suo rapporto con il genitore d’intenzione. Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinché l’accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosità tipica della responsabilità genitoriale.

In conclusione “l’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983, che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita”.

Avv. Marzia Capomagi

 

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