Con decreto n°2022/2922 del 21 dicembre 2022, depositato in cancelleria in pari data, la VI^ sezione del Tribunale civile di Roma, ha rigettato la richiesta di emissione dell’ordinanza di rilascio avanzata da una locatrice, disponendo la prosecuzione del giudizio nelle forme del rito locatizio, alla luce della dedotta invivibilità dell’immobile oggetto di locazione “…a causa delle immissioni sonore provenienti dall’impianto di aereazione forzata posta a servizio di un sottostante esercizio pubblico di ristorazione”, comprovata unicamente mediante la produzione di “rilievi fotografici rappresentanti motori di condizionatori posti all’interno di una chiostrina condominiale”.

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[:it]Nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario è oggetto di una presunzione correlata alla normale fruttuosità del bene, presunzione che, tuttavia, essendo basata sull’id quod plerumque accidit, ha carattere relativo iuris tantum e, quindi, ammette la prova contraria.

A confermarlo è la Cassazione con ordinanza 7 gennaio 2021, n. 39.

 

 

Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 20-11-2020) 07-01-2021, n. 39

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

 

E.G. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Ascoli Piceno, L.O. ed F.A.K.E. chiedendo, in via principale, che il contratto di compravendita immobiliare stipulato tra i due convenuti venisse dichiarato nullo per illiceità del motivo, ovvero per simulazione assoluta, o in quanto contrario alle norme di buona fede, o in subordine inefficace nei confronti dell’attrice, con il risarcimento del danno; in via residuale chiedeva la risoluzione del contratto di compravendita immobiliare da lei stipulato col F., adducendo il grave inadempimento di quest’ultimo, e, di conseguenza il diritto al risarcimento del danno.

L’attrice affermava, infatti, di aver acquistato dal F., con scrittura privata datata (OMISSIS), un immobile al prezzo di novantacinque milioni di Lire, ed effettuato il pagamento dell’acconto dei primi venticinque milioni, veniva immessa nel godimento dell’appartamento.

A luglio del 1994, l’attrice aveva versato ulteriori cinquantacinque milioni al venditore che, trasferitosi all’estero, non rispondeva ai diversi solleciti con i quali gli si chiedeva, in vista del completamento del pagamento, di addivenire al rogito notarile.

Il (OMISSIS) il F. faceva pervenire alla E. una diffida ad adempiere al pagamento dei mancanti quindici milioni di Lire entro il successivo (OMISSIS), ma l’attrice rispondeva con una controdiffida nella quale lo invitava a presentarsi in data 10 ottobre 1994 davanti ad un notaio di Roma, con la documentazione necessaria per il perfezionamento dell’atto pubblico, ribadendo la disponibilità a pagare in detta sede quanto residuato.

A causa dell’assenza in detta data del venditore, E.G. contattava nuovamente il venditore il quale, tramite il proprio procuratore, la informava di aver venduto l’immobile ad L.O. il (OMISSIS), e che l’atto di vendita era stato trascritto il giorno successivo e registrato in data (OMISSIS). Pertanto, la E. agiva in giudizio proponendo nei loro confronti le domande di cui sopra.

Con comparsa di risposta si costituiva in giudizio solo L.O., il quale chiedeva il rigetto delle domande attoree nonchè, in via riconvenzionale, il rilascio dell’immobile ed un indennizzo per la sua occupazione sine titulo.

Al termine dell’istruttoria, il Tribunale di Ascoli Piceno, con sentenza n. 680 del 2011, perveniva al rigetto di tutte le domande proposte da parte attrice, alla quale era subentrato E.G.M., quale erede della originaria attrice; il giudice di primo grado rigettava altresì la domanda riconvenzionale spiegata dal L., compensava le spese e non statuiva nulla nei confronti di F.A.K.E., rimasto contumace.

E.E.M. – quale avente causa per atto inter vivos da D.A., erede di E.G.M., a sua volta subentrato in primo grado alla sorella G., quale erede della stessa – appellava la sentenza del Tribunale, riproponendo tutte le domande che dinanzi ad esso erano state avanzate.

L.O. si costituiva affinchè la Corte pervenisse al rigetto del gravame e riproponeva, con appello incidentale, quanto domandato in via riconvenzionale in primo grado, chiedendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di D.A. e degli eventuali eredi.

La Corte di Appello di Ancona con sentenza n. 230/2018, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, dichiarando risolto il contratto di compravendita stipulato da E.G. con il F. per inutile decorso del termine intimato con la diffida ad adempiere, e condannando F.K.K.W.G. a restituire all’appellante la somma di Euro 41.316,55, oltre interessi, ed E.E.M. all’immediato rilascio dell’immobile illegittimamente occupato.

Con riferimento all’azione proposta nei confronti del solo F., la Corte, riprendendo alcuni passaggi della sentenza impugnata, evidenziava che la diffida ad adempiere notificata dal F. il (OMISSIS) era pienamente giustificata dal fatto che il preliminare, il quale si era risolto per effetto dell’inutile decorso del termine, e ciò in quanto il contratto prevedeva che il pagamento totale del prezzo sarebbe dovuto avvenire già il 28 settembre 1993, ossia un anno prima della diffida.

Dunque sosteneva la Corte che il F. aveva potuto disporre legittimamente dell’appartamento, dovendosi intendere risolto il preliminare ex artt. 1454 e 1455 c.c., a nulla valendo la controdiffida notificata da E.G. che, secondo i giudici di merito, mascherava unicamente un comportamento dilatorio della stessa, volto a procrastinare ulteriormente il termine per il pagamento del residuo del prezzo, ma dalla quale non si evincevano “motivi seri nè tanto meno precisi per giustificare la mancata ottemperanza”.

Diversamente, le domande proposte nei confronti del F. e del L., volte a ottenere la dichiarazione di nullità del secondo contratto, venivano rigettate, anche alla luce dei principi dettati da Cass. 23158/2014, in base ai quali non può in alcun modo dichiararsi la nullità di tale accordo per illiceità dei motivi o per violazione degli obblighi di correttezza e buona fede.

Relativamente all’azione volta ad ottenere la dichiarazione di simulazione assoluta del medesimo contratto, la Corte condivideva le affermazioni del giudice di primo grado in quanto tutte le deduzioni attoree non erano sufficienti a provare la nullità o l’inefficacia dell’atto pubblico di vendita; a detta dei giudici dell’appello, gli assunti del Tribunale apparivano logici e coerenti relativamente alla dimostrazione di un difetto di prova della simulazione, nonchè non suscettibili di condurre a conclusioni univoche, anche alla luce della considerazione complessiva dei fatti di causa.

Con riferimento all’azione revocatoria, la Corte territoriale richiamava il costante orientamento della giurisprudenza per rigettare la domanda, perchè l’attore non aveva fornito la prova del consilium fraudis; inoltre, mancando qualsiasi credito risarcitorio da parte dell’ E., veniva escluso in radice anche l’eventus damni.

Così deciso l’appello principale, la Corte passava ad analizzare l’appello incidentale proposto da L.O., relativo alla restituzione dell’immobile, ritenendolo parzialmente fondato, essendo venuto meno il titolo dell’ E. che lo legittimava ad occupare l’immobile; tuttavia non accoglieva la pretesa risarcitoria derivante dall’illegittima occupazione, risultando carente sotto il profilo probatorio, dal momento che, pur consapevole contrasto giurisprudenziale delineatosi in materia, non condivideva l’orientamento che considerava in re ipsa il danno subito dal proprietario a seguito dell’occupazione sine titulo, ma preferiva quello secondo cui, anche in suddetta ipotesi, il danneggiato debba provare l’effettiva entità del danno.

Poichè il L. si era limitato a riportare indicativamente il valore del canone di locazione, senza dimostrare di aver perso occasioni favorevoli per la locazione, nè di aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli a causa dell’occupazione dell’appartamento, la pretesa non poteva trovare accoglimento.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Ancona, E.E.M. propone ricorso per cassazione, articolato in sette motivi.

L.O. ha resistito con controricorso e ha altresì proposto ricorso incidentale sulla base di due motivi.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

F.K.K.W.G. e D.A. non hanno svolto difese in questa fase.

Il primo motivo di ricorso è relativo “agli artt. 1453, 1454 e 1455 c.c., rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 3), sia ex n. 5)”.

Parte ricorrente ritiene che la sentenza d’appello sia da censurare nella parte in cui ha affermato che allo spirare del termine ultimo indicato nella diffida, il contratto stipulato il (OMISSIS) doveva intendersi risolto in assenza del pagamento del saldo da parte della E., e che il F. potesse disporre nuovamente dell’appartamento.

Infatti, i giudici dell’appello non avrebbero considerato l’insegnamento dettato dalla Cassazione secondo cui “l’eccezione inadempienti contractus consente di paralizzare la domanda di adempimento della controparte e di escludere il diritto della stessa di fare accertare o domandare la risoluzione”, nonchè quello relativo “al giudizio di comparazione in ordine al comportamento delle parti contrattuali, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all’oggettiva entità degli inadempimenti si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti, perchè l’inadempimento dev’essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa la giustificato inadempimento dell’altra parte”.

Il giudice a quo avrebbe altresì omesso di esaminare il fatto decisivo prospettato nella comparsa conclusionale, secondo cui a fronte dei numerosi solleciti della E. volti a rendere in forma pubblica l’atto di vendita, il F. restava inerte e ciò impedirebbe di qualificare come doloso o colposo, il ritardo della E. nell’adempimento della propria prestazione.

Con il secondo motivo si censura “l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 4), sia ex n. 5”.

La Corte avrebbe addebitato l’inadempimento in capo a E.G., attraverso una motivazione apparente laddove ha affermato che, avendo il F. e il L. stipulato davanti al notaio il loro contratto a poca distanza dalla scadenza del termine ultimo previsto nella diffida, anche la E. avrebbe potuto addivenire al rogito notarile, se solo avesse soddisfatto la richiesta del F. di pagare la parte restante del prezzo entro la data fissata nella diffida.

Inoltre, la Corte avrebbe omesso di valutare i fatti decisivi relativi alla mancata dimostrazione della disponibilità dell’intero immobile, “l’inverosimile tempistica e l’incredibile semplificazione dell’atto pubblico del secondo contratto”, malgrado vi fossero “oggettive difficoltà” relative all’esatta individuazione delle parti, dei beni e dei documenti relativi.

I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente e, in quanto infondati, devono essere rigettati. Costituisce orientamento consolidato di questa Corte (recentemente ribadito da Cass. n. 13627/2017), quello secondo il quale nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, il giudice del merito è chiamato a comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonchè della conseguente alterazione del sinallagma. Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.

La Corte d’appello ha reso un’ampia e logica motivazione, nel ritenere che, nel caso di specie, la condotta da ritenersi decisiva ai fini della risoluzione per inadempimento fosse quella della E., e non quella del F., al quale per converso nessun addebito poteva essere imputato, essendosi egli attenuto ai termini dell’accordo stipulato nel 1991.

Sono stati ritenuti determinanti, infatti, ai fini dell’accertamento dell’inadempimento della E., la circostanza che la diffida era stata notificata dal F., dopo che era decorso un anno dalla data che le parti avevano concordato quale termine ultimo per il pagamento, e che l’ammontare del prezzo residuo di quindici milioni di lire impedisse di qualificare l’adempimento come di scarsa importanza.

La ratio della norma di cui all’art. 1454 c.c., è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all’esecuzione del negozio, mediante un formale avvertimento alla parte diffidata che l’intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell’adempimento, pena la risoluzione ope legis del contratto (Cass. n. 27530/2016; Cass. n. 3477/2012).

Dunque, a nulla vale, nel caso di specie, l’aver opposto alla diffida una controdiffida, dal momento che è principio già statuito da questa Corte, che oggi si vuole ribadire, quello secondo il quale la controdiffida diretta a contestare la sussistenza di una qualsiasi delle condizioni cui è subordinata la risoluzione di diritto conseguente alla diffida ad adempiere, non sospende nè evita tale effetto (Cass. n. 974/1971).

Ciò, a maggior ragione nel momento in cui i giudici di merito hanno negato qualsiasi rilevanza nei termini di cui sopra alla controdiffida notificata dalla E., in quanto non solo non conteneva motivi apprezzabili tali da legittimare il mancato rispetto della diffida, ma lasciava trasparire unicamente un “comportamento dilatorio” dell’attrice, che ha acquistato ulteriore decisività anche “alla luce del pregresso contegno moroso”.

Queste dunque le motivazioni che hanno condotto all’addebito dell’inadempimento alla E., e non, come parte ricorrente adduce col presente ricorso, i vari impedimenti e inadempimenti legati alla stipula dell’atto pubblico, dedotti dalla stessa nella controdiffida, che, una volta ritenuti insussistenti dai giudici del merito, possono dirsi esaminati all’interno di una valutazione globale delle condotte delle parti e, pertanto, non risultano essere oggetto di un omesso esame, come prospettato dal ricorrente.

Il terzo motivo denunzia la violazione dell’art. 2644 c.c., comma 2, rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, ex n. 3)”.

Il giudice a quo, citando il precedente costituito da Cass. n. 23518/2014, avrebbe frainteso la questione che si poneva, spostando l’attenzione sul problema della distinzione tra frode alla legge e frode ai creditori, ma senza esaminare la più pertinente questione della responsabilità del venditore e del secondo acquirente all’interno di una vicenda di doppia alienazione immobiliare, che il ricorrente, in grado di appello, aveva prospettato mediante numerosi richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, mostrando come oggi sia pacifico che è sufficiente la mera conoscenza della precedente alienazione per determinare una responsabilità del secondo acquirente che abbia trascritto per primo.

Dunque, a prescindere dall’accoglimento o meno della domanda di nullità del secondo contratto di alienazione, parte ricorrente ritiene che il L. debba essere obbligato in solido al risarcimento dei danni nei confronti del ricorrente, e ciò sulla base di una giurisprudenza evolutasi a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, che ha sancito la responsabilità aquiliana del secondo acquirente per la semplice conoscenza della precedente vendita, senza richiedere l’ulteriore requisito della frode concertata con l’alienante.

Anche questo motivo di ricorso non è meritevole di accoglimento.

Va evidenziato che la censura, così come articolata, non appare in grado di dimostrare che vi siano gli estremi per rinvenire un’effettiva violazione della norma richiamata in rubrica.

Infatti, deve essere disattesa ogni affermazione volta a far ravvisare una responsabilità extracontrattuale in capo ad L.O. per il fatto di aver trascritto il secondo contratto di compravendita dell’immobile, dal momento che l’acquisto dell’appartamento, e la conseguente trascrizione dell’atto, sono avvenuti quando il termine indicato nella diffida era già spirato, e quindi in un momento successivo alla risoluzione di diritto della prima compravendita.

Invero, una volta confermata l’intervenuta risoluzione del contratto per inadempimento della stessa parte acquirente, con il venir meno dell’efficacia del contratto con effetti ex tunc tra le parti, la seconda alienazione è comunque intervenuta allorquando la prima era ormai priva di effetti, essendo quindi esclusa la stessa astratta configurabilità di una pretesa risarcitoria quale conseguenza della seconda vendita.

Non si versa, in effetti, in una situazione di doppia vendita immobiliare, dal momento che la conclusione del secondo accordo avvenne quando ormai il primo contratto si era risolto di diritto, per effetto del mancato adempimento entro il termine fissato nella diffida dal F.. Quest’ultimo, consapevole della funzione della diffida ad adempiere aveva ormai correttamente inteso come risolto il rapporto con la E. e, dunque, nuovamente suscettibile di alienazione l’immobile. La quarta censura “è relativa all’art. 2901 e ss. c.c., rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 3), sia ex n. 5)”. Con riferimento al n. 3, il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha statuito in modo contraddittorio, che l’unico rimedio che l’ordinamento appresta ai creditori in queste circostanze sia quello che conduce alla sanzione dell’inefficacia, salvo poi ritenere che l’azione revocatoria proposta nei confronti dell’atto F.- L. fosse infondata in quanto non si verteva in tema di revocatoria, non essendo dedotti e provati nè il consilium fraudis, nè l’eventus damni.

Infatti, nell’atto di appello l’ E. aveva ripetutamente indicato il pericolo di un’incapienza generica del patrimonio del debitore nella condotta consapevole del doppio-venditore-debitore F., tale da recare pregiudizio alle garanzie patrimoniali di E.G., nonchè prospettato la possibilità di avvalersi di tale istituto per una funzione restitutoria di un bene specifico.

Con riferimento al n. 5, invece, la Corte avrebbe omesso di esaminare i fatti decisivi relativi al consilium fraudis, sia con riferimento al fatto che l’avv. Moriconi fosse inizialmente avvocato del F. e successivamente procuratore del L., sia relativamente alla circostanza per cui la seconda alienazione si era perfezionata in tempi eccezionalmente rapidi rispetto allo spirare del termine previsto nella diffida, e senza alcuna traccia di modalità di pagamento del prezzo, con ciò dimostrando che in realtà vi fosse già da tempo un accordo tra le parti.

Tale motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Va premesso che la vendita a terzi con atto trascritto di un bene immobile che abbia già formato oggetto, da parte del venditore, di una precedente alienazione si risolve nella violazione di un obbligo contrattualmente assunto nei confronti del precedente acquirente, determinando la responsabilità contrattuale dell’alienante con connessa presunzione di colpa ex art. 1218 c.c.; per converso la responsabilità del successivo acquirente, rimasto estraneo al primo rapporto contrattuale, può configurarsi soltanto sul piano extracontrattuale, ove trovi fondamento in una dolosa preordinazione volta a frodare il precedente acquirente o almeno nella consapevolezza dell’esistenza di una precedente vendita e nella previsione della sua mancata trascrizione e quindi nella compartecipazione all’inadempimento dell’alienante in virtù dell’apporto dato nel privare di effetti il primo acquisto, al cui titolare incombe di conseguenza la relativa prova a norma dell’art. 2697 c.c. (cfr. Cass. n. 8403/1990 e 4090/1988).

Per conservare la garanzia patrimoniale relativa a questo suo credito, il primo acquirente può esercitare l’azione revocatoria in merito alla seconda alienazione dell’immobile. Poichè, però, la revocanda alienazione è anteriore al credito da tutelare (che nasce solo con la trascrizione), la revocatoria può trovare accoglimento non per la mera consapevolezza della precedente vendita, bensì solo se sia provata la partecipazione del secondo acquirente alla dolosa preordinazione, in base a quanto previsto dall’art. 2901 c.c., n. 2, ossia alla specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito, che può essere desunta da obiettive circostanze (Cass. n. 759/1982).

Nel caso di specie, contrariamente a quanto deduce il ricorrente, non solo i giudici del merito hanno ritenuto che difettasse di prova la circostanza della partecipazione del L. alla dolosa preordinazione dell’alienante, ma avendo dichiarato la risoluzione del primo accordo e ordinato la restituzione del prezzo da parte del F., sono pervenuti alla corretta conclusione per cui manchi un credito risarcitorio che l’ E. possa vantare, escludendo così a monte l’esistenza di un eventus damni, che rappresenta uno dei due indefettibili presupposti per la proposizione dell’azione.

Inoltre le medesime considerazioni svolte in ordine alla conferma della statuizione dei giudici di merito quanto alla risoluzione per inadempimento della dante causa dell’odierno ricorrente, fa sì che fosse venuto meno il contratto che rappresenta la prima vendita, il che, oltre a confortare la legittimità della seconda alienazione, avvenuta come detto allorquando la risoluzione di diritto si era già perfezionata, conferma quanto asserito dalla sentenza di appello circa l’assenza di una qualsivoglia pretesa risarcitoria nei confronti sia del venditore che del secondo acquirente, mancando quindi l’esistenza del diritto di credito a garanzia del quale sarebbe dato il ricorso all’azione revocatoria.

La quinta censura “è relativa all’art. 2729 c.c., rilevante art. art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 3), sia ex n. 5)”.

La sentenza sarebbe da censurare nella parte in cui ha statuito, conformemente alla decisione di primo grado, che la simulazione assoluta dell’atto notarile sia rimasta indimostrata e comunque urterebbe contro le risultanze processuali circa la condotta del L., volta a conseguire il possesso dell’immobile. In particolare, la Corte affermando che il pagamento del prezzo della vendita non era contestato, che il L. avesse manifestato una condotta costantemente volta a recuperare l’immobile e che non fossero stati dedotti comportamenti successivi alla stipula della compravendita, volti a far trasparire una volontà collusiva per recuperare indirettamente il bene, avrebbe omesso la valutazione sul contenuto della eccezione di simulazione, che viceversa non poteva che essere dimostrata se non mediante un insieme di presunzioni.

Quanto affermato non consente di comprendere come la Corte abbia potuto condividere le conclusioni del Tribunale, in quanto non si potrebbe sostenere validamente che difetti in assoluto la prova di una simulazione se tale fatto sia dimostrabile mediante altri fatti a carattere presuntivo dedotti dall’attrice.

Anche tale motivo di ricorso non risulta essere fondato e deve essere rigettato.

Ancorchè prima facie la conferma della risoluzione per fatto imputabile al ricorrente potrebbe far propendere per una carenza di interesse all’accertamento della simulazione, posto che anche ove dimostrata la parte non ne trarrebbe alcun vantaggio, essendo venuto meno il suo titolo negoziale, l’interesse deve però ravvisarsi in relazione all’accoglimento della domanda riconvenzionale di rilascio del bene formulata dal L., che evidentemente presuppone il riconoscimento dell’avvenuto acquisto della proprietà da parte di questi, sicchè ove l’acquisto fosse accertato come privo di effetti, verrebbe meno anche la giustificazione della condanna al rilascio.

Ai fini del rigetto del motivo, va condiviso l’orientamento di questa Corte (Cass. n. 28224/2008; Cass. n. 22801/2014), secondo cui, in tema di simulazione assoluta del contratto, nel caso in cui la relativa domanda sia proposta da terzi estranei al negozio, spetta al giudice del merito valutare l’opportunità se fondare la decisione su elementi presuntivi, da considerare, non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, così che l’apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, presupposti che ricorrono nell’accertamento svolto, prima dal Tribunale, e poi dalla Corte d’Appello.

In particolare, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che nessuno degli elementi forniti dall’appellante presentasse un grado di decisività tale da consentire di giungere a conclusioni univoche, anche alla luce di una considerazione complessiva degli stessi fatti, i quali al contrario contrastavano con una serie di condotte idonee a escludere l’esistenza di una simulazione assoluta.

Con il sesto motivo si censurano gli “artt. 1175, 1176, 1366 e 1375, c.c., rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, ex n. 3).

La Corte avrebbe errato nel negare la violazione degli obblighi di buona fede sulla base del fatto che le norme richiamate abbiano a oggetto un regolamento contrattuale, mentre la E. e il L. non sono legati da alcun vincolo negoziale, in quanto sarebbe orientamento ampiamente condiviso dalla giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il rispetto del principio di buona fede si pone a presidio di valori fondamentali dell’ordinamento da cui non si potrebbe prescindere anche nei casi in cui si versi al di fuori dei rapporti obbligatori diversi da quelli indicati dal legislatore.

Con il settimo motivo di ricorso si censura “l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 4), sia ex n. 5”.

La motivazione della Corte di Ancona risulterebbe apparente nella parte in cui qualifica come corretta la condotta del L. per il solo fatto che si fosse affidato a un pubblico ufficiale il quale, procedendo alla stipula, ha escluso l’esistenza di qualsiasi ostacolo all’acquisto dell’immobile.

Inoltre, la Corte avrebbe omesso di esaminare il fatto decisivo attinente alla condotta del notaio che, nel momento in cui ha dovuto accertare che il bene immobile fosse libero da qualsiasi peso e impedimento, si è limitato ad affermare che “l’appartamento appartiene al venditore per metà…per l’altra metà in forza di successione della defunta moglie, asfaltando così ogni e qualsiasi difficoltà”, relativa alla persona della moglie, nazionalità e figli della stessa.

Il rigetto dei due motivi in esame, da trattare congiuntamente per la loro connessione, discende evidentemente dalle considerazioni svolte in occasione della disamina del terzo motivo di ricorso, in quanto, una volta ribadito che l’acquisto da parte del controricorrente è avvenuto allorquando il contratto in base al quale il ricorrente agisce in giudizio aveva ormai perso efficacia per l’avvenuta risoluzione di diritto, risulta preclusa in radice la possibilità di individuare nella condotta del L. la violazione di principio di buona fede tale da legittimare una pretesa di carattere risarcitorio ovvero conseguenze in ordine alla sorte del contratto di acquisto del bene.

Il ricorso principale è quindi rigettato.

Con il primo motivo del ricorso incidentale si denunzia “violazione ed errata o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132 c.p.c., comma 2, nn. 2, 4 e 5, e ex art. 360 c.p.c., n. 4. Omessa pronuncia nei confronti di una delle parti chiamate in giudizio: litisconsorte processuale necessario D.A.”.

La sentenza di primo grado venne pronunciata nei confronti di E.G. quale erede dell’originaria attrice E.G.. Tuttavia, l’atto di appello fu promosso da E.E.M. quale avente causa per atto inter vivos di D.A., moglie ed erede di E.G.; la D. aveva ceduto all’appellante i diritti litigiosi ad essa spettanti, ma il L., tanto in comparsa di costituzione in appello, quanto in sede di precisazioni delle conclusioni, dichiarava di non voler liberare la D., chiedendo e ottenendo che il contraddittorio fosse integrato anche nei suoi confronti. In base a ciò, L.O. ritiene che D.A. sia tuttora parte all’interno del presente giudizio; pertanto, avendo il giudice dell’appello omesso il suo nome tra i soggetti condannati in solido, si ritiene che ciò integri una violazione dell’art. 112 c.p.c..

Tale doglianza risulta essere fondata.

In base a quanto stabilisce il codice di rito, art. 111, il successore a titolo particolare per atto tra vivi di una delle parti del processo può intervenire volontariamente nel processo o esservi chiamato, ma ciò non comporta automaticamente l’estromissione dell’alienante o del dante causa, potendo questa essere disposta dal giudice solo se le altre parti vi consentano. Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione contro la sentenza, il successore intervenuto in causa e l’alienante non estromesso sono litisconsorti necessari e che, se la sentenza è appellata da uno solo soltanto o contro uno soltanto dei medesimi, deve essere ordinata, anche d’ufficio, l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro, a norma dell’art. 331 c.p.c., dovendosi, in difetto, rilevare, anche d’ufficio, in sede di legittimità, il difetto di integrità del contraddittorio con rimessione della causa al giudice di merito per la eliminazione del vizio (cfr. Cass. n. 15905/2018).

Dal momento, dunque, che il L. ha espressamente dichiarato in tutti i suoi scritti difensivi di appello di non voler liberare la D. all’interno del processo oggi pendente davanti a questa Corte, non vi è spazio per ritenere che la stessa sia stata estromessa, ma al contrario deve tuttora considerarsi litisconsorte necessaria.

Effettivamente la sentenza impugnata ha omesso ogni riferimento alla sua presenza in giudizio, nonostante fosse stata disposta l’integrazione del contraddittorio, e tale omissione si è ripercossa anche sulla corretta regolamentazione delle spese di lite.

Infatti, atteso che la medesima, ancorchè contumace in appello, risulta essere soccombente rispetto alle sorti del giudizio, in accoglimento del motivo la sentenza impugnata deve essere cassata in parte qua, ma non palesandosi la necessità di ulteriori accertamenti in fatto, ritiene la Corte che la causa possa essere decisa nel merito, con la condanna della D., in solido con l’odierno ricorrente principale al rimborso delle spese del giudizio di appello per la misura di quattro quinti (e con compensazione del residuo quinto), come liquidate dalla Corte distrettuale).

Con il secondo motivo di ricorso incidentale si deduce “violazione ed errata o falsa applicazione dell’art. 820 c.c., comma 3, dell’art. 821 c.c., comma 3, degli artt. 832 e 1499 c.c., e ex art. 360, comma 1, n. 3”.

La Corte, sebbene abbia ordinato il rilascio dell’appartamento in favore del L., costatando altresì l’illegittimità dell’occupazione dello stesso, ha respinto per mancanza di prova la domanda di risarcimento del danno patito dall’odierno controricorrente a seguito dell’illegittima occupazione, dal momento che lo stesso si sarebbe unicamente limitato a riportare in termini indicativi il valore del canone di locazione senza dimostrare la perdita di occasioni favorevoli per locarlo. Tale interpretazione sarebbe non condivisibile atteso il contrasto a cui perverrebbe con i principi, anche costituzionali, in materia di proprietà privata.

Il motivo dev’essere rigettato.

Come correttamente affermato dalla Corte territoriale, in tema di occupazione abusiva di immobili sussiste un contrasto giurisprudenziale che vede contrapporsi un orientamento che considera il danno in re ipsa (cfr. ex multis Cass. 9137/2018), ad un altro per cui il danno da occupazione abusiva debba comunque essere oggetto di dimostrazione da parte del danneggiato, richiedendo a tal fine che egli provi l’effettiva lesione derivante dall’abusiva occupazione (cfr. da ultimo, Cass. n. 13071/2018).

Ritiene il Collegio di dover dare continuità alla più recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. N. 32108/2019; Cass. N. 1657/2019), che, ha rilevato che nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario è in realtà oggetto di una presunzione correlata alla normale fruttuosità del bene, presunzione che, tuttavia, essendo basata sull’id quod plerumque accidit, ha carattere relativo, iuris tantum, e quindi ammette la prova contraria (Cass. 7 agosto 2012, n. 14222; Cass. 15 ottobre 2015, n. 20823; Cass. 9 agosto 2016, n. 16670), non potendosi quindi correttamente sostenere che si tratti di un danno la cui sussistenza sia irrefutabile, posto che la locuzione “danno in re ipsa” va tradotta in altre (“danno normale” o “danno presunto”), più adatte ad evidenziare la base illativa del danno, collegata all’indisponibilità del bene fruttifero secondo criteri di normalità, i quali onerano l’occupante alla prova dell’anomala infruttuosità di uno specifico immobile.

Avuto riguardo a tali principi, la sentenza impugnata appare incensurabile avendo evidenziato che il convenuto in realtà non solo non aveva provato ma ancor prima nemmeno allegato le circostanze dalle quali far discendere in via presuntiva l’esistenza del danno richiesto.

Il motivo, lungi dal contrastare la correttezza di tale affermazione, si riduce ad una riproposizione della nozione di danno in re ipsa, ma in un’accezione, per quanto sopra esposto, che non può trovare riconoscimento nel nostro ordinamento, atteso che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (Sez. 3, n. 13071, 25/5/2018, Rv. 648709).

Nel caso di specie, il L. non ha mai provato – nè adeguatamente allegato le circostanze idonee a fondarlo alcun danno derivante dall’occupazione sine titulo dell’immobile da parte delle sue controparti, ma ha semplicemente “riportato in maniera del tutto indicativa il valore del canone di locazione”, senza mai dimostrare di aver perso occasioni favorevoli per locare l’immobile, ovvero di aver sofferto altri pregiudizi patrimoniali, lasciando così la sua pretesa sfornita di allegazione e prova, che correttamente i giudici di merito hanno provveduto a respingere.

Le spese del presente giudizio seguono la prevalente soccombenza del ricorrente principale e dell’intimata D. e si liquidano come da dispositivo, nulla dovendosi disporre quanto all’altro intimato che non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Poichè il ricorso principale è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso incidentale e rigetta il ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dispone che le spese del giudizio di appello, previa compensazione di un quinto, siano poste per la residua quota, come liquidate dal giudice di appello, in solido a carico di D.A. e E.E.M.;

Condanna, in solido tra loro, D.A. e E.E.M. al rimborso delle spese del presente giudizio in favore di L.O., liquidandole nel complessivo importo di Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% suì compensi, ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2021

 

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Tra i coniugi, già in regime di comunione legale dei beni, non diviene di proprietà comune l’immobile acquistato da uno solo di essi dopo la loro separazione personale, quest’ultima costituendo causa di scioglimento della comunione medesima con la decorrenza prevista dall’art. 191 c.c., comma 2.

Invece, per l’opponibilità ai terzi dei descritti effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale dei coniugi, relativamente all’acquisto di beni immobili o mobili registrati, avvenuto con dichiarazione del coniuge acquirente dello stato di separazione, deve considerarsi necessaria e sufficiente la sola trascrizione nei registri immobiliari recante la corrispondente indicazione (cioè l’esistenza di un regime patrimoniale di separazione dei beni), indipendentemente dall’annotazione del provvedimento di separazione a margine dell’atto di matrimonio.

 

Corte di Cassazione, sez. I Civile, 13 gennaio 2021, n. 376.

Presidente Cristiano -Relatore Campese.

Fatti di causa

  1. A.B. ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi, avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo del 3/20 ottobre 2014, notificatale il successivo 17 novembre 2014, reiettiva del gravame da lei promosso contro la sentenza del 27 ottobre del 2007, resa dal tribunale di quella stessa città, che ne aveva respinto la domanda volta ad ottenere, nei confronti della curatela del fallimento di T.P. , marito da cui era legalmente separata, la declaratoria di sua esclusiva proprietà dell’immobile sito in (*) . Resiste, con controricorso, la curatela predetta.

1.1. Opinò quella corte che, “*come ritenuto dalla Corte di cassazione con la sentenza richiamata dal tribunale (il riferimento è a Cass. n. 12098 del 1998.), per stabilire se ed in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo, che insieme con la nota, viene depositato presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari (*). Ne discende che, premesso che, in costanza di matrimonio, la A. era in regime di comunione legale dei beni con il marito e che il bene acquistato da parte di un coniuge, in tale regime, entra automaticamente nel patrimonio di entrambi, ai fini dell’opponibilità ai terzi degli effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale, con riferimento all’atto di acquisto successivo alla separazione stessa, era necessaria la trascrizione della relativa nota nei registri immobiliari. Cosicché, in assenza dell’indicazione, nella nota di trascrizione, del regime patrimoniale della A. , coniugata con il T. , imposta dall’art. 2659 c.c., come modificato dalla L. n. 52 del 1985, art. 1, l’acquisto effettuato dalla stessa, successivamente alla separazione legale, non può essere opposto al terzo, nei confronti del quale, quindi, il bene deve considerarsi caduto in comunione tra i coniugi”.
Ragioni della decisione

  1. Le formulate censure prospettano, rispettivamente:
  2. I) “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2659 e 2665 c.c. e della L. n. 52 del 1985, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5; insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”. Si ascrive alla corte distrettuale di aver “*trattato la nota di trascrizione, su cui verte la materia del contendere, come una nota correttamente trascritta nei confronti del signor T.P. , equiparando l’assenza (ivi) dell’indicazione del regime patrimoniale della A. , di per sé foriero di un acquisto personale, ad acquisto effettuato in comunione dei beni”;
  3. II) “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.; omessa motivazione su fatti decisivi e controversi per il giudizio”. Si assume che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto del gravame in ordine alla condanna alle spese, deducendosi, esclusivamente, che “pur essendo rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito il decidere quale delle parti debba essere condannata e se ed in quale misura debba farsi luogo a compensazioni, il Giudice di merito, pur sollecitato sul punto dall’appellante, si è sottratto a questo obbligo, senza alcuna motivazione”.
  4. Il primo motivo si rivela immeritevole di accoglimento nel suo complesso.

2.1. La decisione impugnata reca (cfr. pag. 4) l’accertamento, chiaramente di natura fattuale, che nella nota di trascrizione rep. n. 57405 del 18 ottobre 1995, depositata dalla stessa odierna ricorrente (e riprodotta in ricorso) – concernente l’acquisto dell’immobile sito in (*) , dalla medesima effettuato – non risultava indicato il regime patrimoniale della A. , quale coniuge separata da T.P. , “*essendo la relativa casella del “Quadro C” ingiustificatamente vuota, e ciò nonostante che, nell’atto di vendita, fosse indicata chiaramente la qualità di coniuge legalmente separato dell’attrice e nonostante che, proprio nella Circolare del Ministero delle Finanze n. 128 del 1995, richiamata dalla A. , sia prescritta l’obbligatoria indicazione del regime patrimoniale delle parti contraenti, quando risulti che le stesse siano coniugate, ed in particolare l’inserimento, nell’apposita casella della lettera “S”, se trattasi di soggetto in regime di separazione”.
2.2. Costituisce, poi, orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in relazione all’interpretazione degli artt. 2659 e 2665 c.c., quello secondo cui “per stabilire se e in quali limiti un determinato atto relativo a beni immobili sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci ed incertezze, gli estremi essenziali del negozio e i beni ai quali esso si riferisce” e “senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo che, insieme con la menzionata nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari” (cfr., ex multis, Cass. n. 4842 del 2019; Cass. n. 4726 del 2019; Cass. n. 22419 del 2018; Cass. n. 14440 del 2013; Cass. n. 21758 del 2012; Cass. n. 18892 del 2009; Cass. n. 8400 del 2009; Cass. n. 5028 del 2007; Cass. n. 13137 del 2006; Cass. n. 10774 del 1991).
2.2.1. In altri termini, come espressamente sancito da Cass. n. 14440 del 2013 (in senso sostanzialmente conforme, si veda pure la precedente Cass. n. 5002 del 2005), nel nostro ordinamento la pubblicità immobiliare che si attua con il sistema della trascrizione è imperniata su principi formali, in forza dei quali il terzo che è rimasto estraneo all’atto trascritto, per individuare l’oggetto cui l’atto si riferisce attraverso la notizia che ne dà la pubblicità stessa, deve esclusivamente fare affidamento sul contenuto con cui la notizia della stipulazione dell’atto è riferita nei registri immobiliari; pertanto, rispetto al terzo, l’atto al quale la notizia si riferisce e, quindi, il suo oggetto, affinché la pubblicità-notizia possa svolgere effetti nei suoi confronti, risultano stabiliti esclusivamente da quel contenuto, la cui individuazione è affidata, a sua volta, all’esclusiva responsabilità del soggetto che richiede la trascrizione, sul quale, per quel che interessa gli atti tra vivi, incombe l’onere di procedervi redigendo la nota di trascrizione (art. 2659 c.c.), che, come viene dalla legge dettagliatamente specificato, si sostanzia in una rappresentazione per riassunto dell’atto da trascrivere. Di conseguenza, una volta redatta la nota ed avvenuta la trascrizione sulla base della stessa, il contenuto della pubblicità – notizia è solo quello da essa desumibile e, su chi della notizia si avvale (almeno agli effetti delle conseguenze che la legge ricollega alla trascrizione in relazione al regime della circolazione dei beni immobiliari) non incombe alcun onere di controllo ulteriore.
2.2.2. Del resto, è incontestabile che i principi in tema di trascrizione sono finalizzati, in via principale, a dirimere il conflitto fra più acquirenti dello stesso immobile (o bene mobile registrato), con l’effetto che all’eventuale inesattezza/incompletezza della nota di trascrizione – oggetto di un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato – consegue la sua corrispondente inopponibilità nei confronti del terzo in buona fede, dovendosi la trascrizione, a tal fine, considerare invalida.
2.2.3. Il principio dell’autosufficienza della nota di trascrizione, nei sensi finora descritti, deriva da una precisa scelta compiuta dal legislatore che, all’art. 2664 c.c., ha previsto che il registro particolare delle trascrizioni debba essere proprio costituito dalla raccolta delle note mentre i titoli, che pure devono essere depositati presso la stessa Conservatoria (cfr. art. 2664 c.c., ed art. 2840 c.c., comma 2), non sono conservati in un apposito registro di immediata consultazione per i terzi e, quindi, non costituiscono fonte legale diretta di conoscibilità. Al suddetto principio si affianca, inoltre, quello della cd. “autoresponsabilità”, in forza del quale si deve ritenere che la nota, essendo un atto di parte, produce effetti necessariamente conformi al contenuto della stessa, con la conseguenza che chi richiede la trascrizione di un determinato atto, redigendo (o facendo redigere) la nota in un certo modo e con un apposito contenuto, se ne assume la completa responsabilità verso i terzi.
2.3. Fermo quanto precede, la questione giuridica posta dalla ricorrente con la doglianza in esame – che si intreccia con il problema della pubblicità dello scioglimento della comunione legale dei beni tra i coniugi – risulta essere stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, per la prima volta (sebbene in diversa fattispecie concreta), con la pronuncia resa da Cass. n. 12098 del 1998, in un contesto normativo allora caratterizzato dal fatto che la riforma del diritto di famiglia, attuata con la L. 19 maggio 1975, n. 151, aveva introdotto il cd. sistema binario della pubblicità del regime patrimoniale dei coniugi: l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio e la trascrizione nei Registri Immobiliari. L’annotazione, prevista, in tema di convenzioni matrimoniali e di relativa modifica, dagli artt. 162 e 163 c.c., nonché dall’art. 193 c.c., con riguardo alla separazione giudiziale dei beni, aveva (ed ha tuttora) per oggetto le vicende modificative del regime patrimoniale; la trascrizione, prevista dall’art. 2647 c.c., invece, aveva (ed ha tuttora), anche in questo caso, il suo normale oggetto, vale a dire, le vicende relative alla situazione giuridica dei singoli beni immobili (o beni mobili registrati ex art. 2685 c.c.).
2.3.1. Il sistema così congegnato non sempre si era mostrato lineare e numerose perplessità erano sorte, oltre che sulla natura e funzione dei due tipi di pubblicità, anche sulla loro combinazione. In particolare, era stata rilevata, fin dall’inizio, la carenza di una pubblicità dichiarativa dello scioglimento della comunione legale per effetto della separazione personale dei coniugi. Nè il codice civile, nè altra legge speciale, infatti, prescrivevano l’annotazione del relativo provvedimento a margine dell’atto di matrimonio, sicché diverse erano state le soluzioni prospettate, in dottrina e nella giurisprudenza di merito, trattandosi, per alcuni, di una “grave lacuna” del legislatore, per altri, di una “svista voluta”. Solo successivamente, dunque, la sopravvenuta modifica dell’art. 191 c.c., comma 2, per effetto della L. 6 maggio 2015, n. 55, art. 2, ha sancito che, “nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione” (trattasi di disposizione applicabile, giusta l’art. 3 della stessa legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore di quest’ultima anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data).
2.4. Tanto premesso, Cass. n. 12098 del 1998, con specifico riferimento ai negozi di acquisto di beni immobili (o mobili registrati) contenenti la dichiarazione del coniuge acquirente del proprio status di separato, ebbe a negare la necessità, ai fini dell’opponibilità ai terzi degli effetti dello scioglimento della comunione derivante dalla separazione personale dei coniugi, dell’annotazione del provvedimento di separazione a margine dell’atto di matrimonio, ritenendo sufficiente (e necessario), al suddetto fine, la trascrizione della relativa nota, recante l’indicazione della corrispondente circostanza, nei registri immobiliari.
2.4.1. Pur dando compiutamente atto delle contrastanti opinioni e soluzioni sul punto manifestatesi in dottrina e nelle decisioni di merito, per giungere alla descritta soluzione prescelta si rimarcò ivi, tra l’altro, che: i) per quanto riguarda la separazione personale dei coniugi, “*la pubblicità attuata mediante annotazione a margine dell’atto di matrimonio non ha grande rilievo pratico a causa di quella che efficacemente è stata definita la “volatilità” degli effetti della separazione stessa, compreso quello dello scioglimento della comunione, in quanto è sufficiente il solo fatto della riconciliazione a farli venire meno. Riconciliazione, tra l’altro, che non è soggetta ad alcuna forma di pubblicità mediante annotazione nei registri di stato civile*”; ii) seppure non ignorandosi le esigenze di tutela dei terzi che stanno alla base dell’orientamento da essa disatteso, “tali esigenze sono adeguatamente soddisfatte dall’ordinario sistema pubblicitario (significativamente ritenuto da Corte Cost. n. 111/95, più accessibile ed affidabile di quello attuato con le annotazioni sui registri di stato civile) della trascrizione degli atti concernenti i singoli beni di maggior rilievo economico (immobili o mobili registrati), in ordine ai quali, prevalentemente, sussiste l’interesse dei terzi stessi, sembrando del tutto secondario, se non proprio puramente astratto e teorico, un autonomo interesse alla conoscenza del regime patrimoniale vigente, in sé e per sé”.
2.4.1.1. Ciò è oggi tanto più vero, ad avviso di questo Collegio, se si tengono presenti le modifiche arrecate all’art. 2659 c.c., dalla L. n. 52 del 1985, art. 1 (qui applicabile ratione temporis, venendo in rilievo trascrizioni eseguite successivamente alla sua entrata in vigore), che ha imposto l’indicazione, nella nota di trascrizione, del regime patrimoniale delle parti coniugate, quale risulta dalle dichiarazioni rese nel titolo o da certificazione dell’ufficiale di stato civile, così da lasciare intendere che, al fine di escludere l’applicazione del regime legale della comunione, le trascrizioni devono contenere le dichiarazioni dell’acquirente di essere legalmente separato/a dal/la coniuge.
2.4.1.2. D’altra parte, come ancora si legge nella menzionata Cass. n. 12098 del 1998, “le esigenze di tutela dei terzi di non minore importanza sussistono anche in relazione agli acquisti di beni personali ai sensi dell’art. 179 c.c. e nessuno dubita che in tal caso tali esigenze siano adeguatamente soddisfatte dalla trascrizione ex art. 2647 c.c., senza che sia necessario procedere ad annotazione dell’acquisto a margine dell’atto di matrimonio”.
2.4.2. Va qui solo aggiunto che: i) la già descritta, sopravvenuta modifica dell’art. 191 c.c., comma 2, per effetto della L. 6 maggio 2015, n. 55, art. 2, non appare decisiva ai fini della decisione dell’odierna controversia, posto che, da un lato, nemmeno è dato sapere, in base a quanto ricavabile dalla sentenza impugnata e dai rispettivi atti introduttivi delle parti, se, e quando, nella specie, fosse stata comunque eseguita un’annotazione, nei registri dello stato civile, dell’avvenuto scioglimento della comunione legale determinato dall’intervenuta separazione personale dei coniugi A. – T. ; dall’altro, che è indiscutibile, in ogni caso, che nessuna annotazione era prevista, all’epoca della trascrizione per cui è causa, per la dichiarazione o per il “fatto” della riconciliazione (invero, solo l’art. 69 del successivo D.P.R. n. 396 del 2000, ha previsto l’annotazione, a margine dell’atto di matrimonio, delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione), sicché l’informazione pubblicitaria in materia di separazione sarebbe rimasta inevitabilmente incompleta, se non addirittura fuorviante. Ciò tenuto altresì conto del fatto che, in relazione agli effetti della riconciliazione e, precisamente, se questa comporti, o meno, il ripristino della comunione legale, sono state prospettate plurime opinioni (cfr., amplius, la ricostruzione che se ne rinviene in Cass. n. 11418 del 1998), su cui, peraltro, non è necessario indugiare ulteriormente in queste sede posta la sua irrilevanza (mai essendo stata dedotta un’intervenuta riconciliazione tra la A. ed il T. ) ai fini della odierna decisione; ii) un soggetto legalmente separato è, e rimane, “coniugato” fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio a seguito della sentenza di divorzio, ovvero all’eventuale scioglimento o annullamento del matrimonio medesimo per le cause rispettivamente previste. Di conseguenza, come desumibile dalla circolare del Ministero delle Finanze del 2 maggio 1995, n. 128, nel modello di nota di trascrizione ivi esplicato, nella corrispondente casella, nell’indicare il proprio regime patrimoniale, si utilizzerà la lettera “C”, se trattasi di soggetto in regime di comunione legale o convenzionale, oppure la lettera “S”, se trattasi di soggetto in regime di separazione.
2.5. In conclusione, pure allo stato della disciplina positiva attuale, il rapporto tra le riportate previsioni novellate di cui all’art. 2659 c.c., comma 1 e art. 191 c.c., commi 1 e 2, deve spiegarsi nel senso che, tra i coniugi già in regime di comunione legale dei beni, non diviene di proprietà comune l’immobile acquistato da uno solo di essi dopo la loro separazione personale, quest’ultima costituendo causa di scioglimento della comunione medesima con la decorrenza prevista dall’art. 191 c.c., comma 2; invece, per l’opponibilità ai terzi dei descritti effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale dei coniugi, relativamente all’acquisto di beni immobili o mobili registrati, avvenuto con dichiarazione del coniuge acquirente dello stato di separazione, deve considerarsi necessaria e sufficiente la sola trascrizione nei registri immobiliari recante la corrispondente indicazione (cioè l’esistenza di un regime patrimoniale di separazione dei beni), indipendentemente dall’annotazione del provvedimento di separazione a margine dell’atto di matrimonio.
2.5.1. Nella specie, dunque, alla data (18.10.1995) del descritto acquisto della A. , l’avvenuto scioglimento, ex art. 191 c.c., comma 2, della comunione legale tra quest’ultima ed il marito T.P. , da cui si era precedentemente separata nel febbraio del 1994, seppure verificatosi, non era, però, opponibile ai terzi (il Fallimento di T.P. successivamente dichiarato nel 2006), pacificamente non risultando l’indicazione dello stato di separazione personale tra i menzionati coniugi (rectius: del loro regime patrimoniale di separazione dei beni, conseguente alla intervenuta separazione personale) dalla relativa nota di trascrizione, ed essendo intervenuta solo nel 1998, mediante annotazione della relativa Delibera, l’opzione dei medesimi coniugi per il diverso regime (rispetto a quello della comunione legale scelto al momento del matrimonio) della separazione dei beni. Affatto correttamente, quindi, la corte di merito, respingendone il gravame, ha confermato il rigetto della domanda della A. volta ad ottenere, nei confronti della curatela del fallimento suddetto, la declaratoria di sua esclusiva proprietà dell’immobile sito in (*) .

2.6. A tali conclusioni non è certamente di ostacolo la circostanza, pure invocata dalla odierna ricorrente, dell’avvenuta trascrizione dell’acquisto predetto esclusivamente in suo favore (e non anche del T. ), atteso che, quanto ai soggetti a favore o a carico dei quali deve essere eseguita la trascrizione, dall’art. 2659 c.c., n. 1, emerge che i soggetti della trascrizione non possono che essere le parti dell’atto da trascrivere. Questo principio si ritiene applicabile anche nel caso di acquisto effettuato da parte di un solo coniuge di bene ricompreso nell’oggetto della comunione legale, in quanto il coniuge estraneo all’atto d’acquisto è mero destinatario degli effetti legali dell’acquisto individuale, ma non parte del contratto da trascrivere. Non può, d’altra parte, condividersi la tesi secondo cui nel caso di acquisto individuale, da parte di un coniuge legalmente separato, il “titolo” dell’acquisto, di cui agli artt. 2657 e 2659 c.c., sarebbe costituito dall’atto di separazione legale, perché la nozione di “titolo” cui, nella specie, deve farsi ricorso è quella di atto che ha prodotto il mutamento giuridico in ordine al singolo bene oggetto della trascrizione (cfr. Cass. n. 7515 del 1986, richiamata, in motivazione, dalla successiva Cass. n. 12098 del 1998). Non c’è dubbio, allora, che il mutamento giuridico oggetto della trascrizione, nel caso di cui si tratta, è il trasferimento della proprietà dall’alienante al coniuge acquirente e tale effetto deriva dall’atto di acquisto, che, quindi, costituisce il titolo da presentare al conservatore dei registri immobiliari. Lo stato di separazione legale del coniuge acquirente, se riportato nella nota di trascrizione, non avrebbe rappresentato, dunque, la causa dell’acquisto della proprietà ma solo un elemento negativo della fattispecie acquisitiva, in quanto, escludendo l’operatività del regime legale della comunione, determinativo dell’estensione automatica dell’acquisto in testa al coniuge rimasto estraneo all’atto d’acquisto, avrebbe confermato che la proprietà era stata acquistata dal solo coniuge che ha partecipato all’atto.

2.6.1. Nè a diversa conclusione si deve pervenire per effetto della citata modifica dell’art. 2659 c.c., n. 1, disposta con la L. n. 52 del 1985, in quanto la necessità di indicare nella nota di trascrizione il regime patrimoniale del coniuge acquirente attiene alla disciplina della nota e non a quella del titolo, che resta pur sempre l’atto in base al quale si attua il trasferimento della proprietà del bene. Anzi, proprio dalla modifica legislativa di cui si tratta, che si limita ad imporre l’indicazione del regime patrimoniale, risultante dalla dichiarazione dei coniugi o dal certificato dello stato civile, resta confermato che, quando lo stato di separazione legale assume un qualche rilievo, non è necessario presentare al Conservatore dei registri immobiliari l’atto di separazione, ma è sufficiente l’indicazione della circostanza che il coniuge interessato alla trascrizione è legalmente separato perché, come si è già detto precedentemente, per stabilire se ed in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo, che insieme con la nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari.

2.7. Va ricordato, infine, quanto alla censura motivazionale pure prospettata nella doglianza in esame, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (formalmente invocato dalla A. ), – nella formulazione sancita dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, qui applicabile ratione temporis risultando impugnata una sentenza pubblicata il 20 ottobre 2014 – riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).
3. Il secondo motivo è inammissibile.

3.1. Invero, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che, come nella odierna fattispecie, non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (cfr., ex multis, Cass. n. 24502 del 2017; Cass. n. 8421 del 2017; Cass. n. 15317 del 2013; Cass. n. 5386 del 2003).

  1. In conclusione, il ricorso deve essere respinto, potendosi procedere alla compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità in ragione della peculiarità dell’intera vicenda, altresì dandosi atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del(la) ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di questo giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della A. , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Depositato in cancelleria il 13 gennaio 2021.[:]

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L’Agenzia delle Entrate, con circolare n°30/E del 22 dicembre 2020, ha offerto ulteriori preziosi chiarimenti in merito alla “Detrazione per interventi di efficientamento energetico e di riduzione del rischio sismico degli edifici prevista dall’articolo 119 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Decreto Rilancio)”.

Tra di essi, si segnala:

  • la definizione di “accesso autonomo all’esterno”, introdotto dal comma 1-bis della legge n°104 del 14 agosto 2020, da intendersi quale “…accesso indipendente, non comune ad altre unità immobiliari, chiuso da cancello o portone d’ingresso che consenta l’accesso dalla strada o da cortile o da giardino anche di proprietà non esclusiva”;
  • l’inclusione, tra i soggetti beneficiari delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), delle organizzazioni di volontariato (OdV), delle associazioni di promozione sociale(APS), delle associazioni e società sportive dilettantistiche, limitatamente ai lavori destinati ai soli immobili o parti di immobili adibiti a spogliatoi;
  • l’inclusione tra i soggetti beneficiari dei titolari dell’impresa agricola, degli altri soggetti (affittuari, conduttori, ecc.) dei soci o degli amministratori di società semplici agricole (persone fisiche) di cui all’articolo 9 del decreto legge n. 557 del 1993, nonché dei dipendenti esercenti attività agricole nell’azienda, unicamente in relazione “alle spese sostenute a condizione che gli interventi siano effettuati su fabbricati rurali ad uso abitativo e, pertanto, diversi dagli immobili rurali “strumentali” necessari allo svolgimento dell’attività agricola”;
  • l’inclusione degli interventi effettuati dagli Istituti autonomi case popolari (IACP), con applicazione anche alle spese sostenute dal 1° gennaio 2022 al 30 giugno 2022;
  • il chiarimento relativo al riferimento normativo al “condominio” da intendersi relativo “agli interventi realizzati sulle parti comuni di un edificio in “condominio”, nella accezione giuridica prevista dal codice civile all’articolo 1117 e che, invece, sono esclusi quelli realizzati su edifici composti da più unità immobiliari di un unico proprietario o di comproprietari”;
  • l’esclusione dal Superbonus degli immobili non residenziali anche se posseduti da soggetti che non svolgono attività di impresa, arti o professioni”.

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Il Tribunale civile di Roma, sez. V^, con la sentenza in oggetto, ha chiarito che il termine di 30 giorni per l’impugnazione di una delibera condominiale, di cui all’art. 1137 co. 2° c.c., deve ritenersi interrotto (e non sospeso) dalla proposizione dell’istanza di mediazione, con conseguente sua decorrenza, di nuovo e per intero, dalla data di sottoscrizione del verbale negativo di mediazione.

Il caso

Due condomini evocavano in giudizio il condominio per ottenere l’annullamento di una delibera condominiale. Il condominio, costituitosi in giudizio, eccepiva preliminarmente l’inammissibilità dell’impugnazione in quanto tardivamente proposta ritenendo, erroneamente, che “…a seguito del deposito del verbale negativo di mediazione, il termine ex art. 1137 c.c. riprenda a decorrere per i giorni che rimanevano al momento in cui si è verificata la sospensione”.

Ad avviso di parte convenuta, infatti, “… tra la data della comunicazione del verbale dell’assemblea impugnata (16.10.14) e la data dell’istanza di mediazione (13.11.14) erano trascorsi 27 giorni, e tra la data di deposito del verbale negativo (3.6.15) e quella della notifica della citazione (1.7.15) erano trascorsi altri 28 giorni, superandosi così il termine di 30 giorni fissato dall’art. 1137 c.c.”.

La decisione

Di diverso avviso il Tribunale di Roma, che respinge l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per decadenza ex art. 1137, co. 2, c.c. in quanto:

  • in base al disposto normativo (art. 5 co. 6 del D.Lgs. n. 28 del 2010 laddove afferma che la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed “impedisce” la decadenza) si deve infatti ritenere che si determini un effetto di tipo interruttivo e non sospensivo, per cui il termine per impugnare, dopo il deposito del verbale negativo, è, di nuovo e per intero, quello di trenta giorni previsto dall’art. 1137 co. 2 c.c. (v. Tribunale di Milano, sentenza n. 13360/2016 pubbl. il 02/12/2016 RG n. 17984/2015; Tribunale di Monza, sentenza 65/2016 del 12/1/2016)”;
  • “…la fattispecie costituisce, pertanto, deroga al principio sancito dall’art. 2964 cod. civ., il quale esclude che la decadenza possa essere soggetta alla disciplina interruttiva, invece valevole per la prescrizione e dettata dai precedenti articoli 2934 e ss. cod. civ”..

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[:it](Cass. ord. n. 22572 del 16 ottobre 2020)

I balconi aggettanti – quelli cioè che affacciano in aria e sono un prolungamento dell’appartamento oltre la linea perpendicolare della facciata dell’edificio – sono di proprietà privata. Si tratta cioè di aree che sono nella esclusiva proprietà del singolo condomino.

Conseguenze di tale regime sono, da un lato, che il condominio non può obbligare i singoli condomini a effettuare lavori di ammodernamento o rifacimento dei balconi, trattandosi di aree di proprietà esclusiva e, dall’altro, che resta ferma la responsabilità oggettiva dei singoli proprietari per gli eventuali danni arrecati ai condomini o a terzi da una cattiva manutenzione.

Fanno eccezione a tale regime solo le sezioni dell’edificio come la ringhiera, le fioriere in muratura e i frontalini che devono essere considerati come parti comuni del condominio laddove svolgano una funzione estetica essenziale per la facciata. La manutenzione di queste ultime parti infatti costituisce interesse dell’intera compagine condominiale, entrando in gioco l’estetica dell’intero condominio e, quindi, indirettamente, il valore commerciale dei singoli appartamenti. Pertanto da un lato l’assemblea può deliberare il rifacimento di tali aree (ad esempio la riparazione dei frontalini da cui cadono pezzi di intonaco), ma dall’altro lato la spesa dovrà essere affrontata da tutti i condomini, in proporzione ai millesimi.

C’è però anche un secondo caso in cui il rifacimento del balcone può essere imposto dall’assemblea condominiale (con suddivisione delle spese sono a carico di tutti i condomini), ovvero quando il balcone di uno dei condomini funge da copertura degli appartamenti sottostanti.

Come ricorda la Cassazione con l’ordinanza in oggetto, un balcone/veranda viene considerato a tutti gli effetti una parte comune se svolge una funzione di copertura e isolamento per l’abitazione (o le abitazioni) posta/e al piano inferiore. Se tale funzione è svolta solo da una parte del manufatto, allora soltanto questa porzione sarà considerabile come parte comune, mentre il resto sarà assoggettato al regime delle parti private.

Dal punto di vista del diritto immobiliare, la Cassazione ha sottolineato l’applicabilità dell’art. 1125 c.c., che prevede che «Le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto».

Secondo la Suprema Corte, infatti, una parte è considerata comune solo nella misura in cui svolge un servizio a vantaggio di tutti i condomini e non solo del proprietario di un appartamento.

Conseguentemente le spese di ristrutturazione dovevano essere suddivise tenendo conto dell’uso effettivo del bene e suddividendo lo stesso come sopra richiamato.

Avv. Claudia Romano

Beige concrete building[:]

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Il caso

Una coppia conveniva in sede di separazione consensuale di vendere a terzi l’ex casa familiare, dagli stessi acquistata meno di cinque anni prima beneficiando delle agevolazioni “prima casa”.

A seguito della revoca delle agevolazioni prima casa da parte dell’Agenzia delle Entrate, la coppia ricorreva vittoriosamente alla Commissione tributaria provinciale di Perugia. In sede di appello, tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale dell’Umbria, ribaltava la decisione evidenziando che “…la revoca del beneficio fiscale non contrasta l’intassabilità’ delle disposizioni cui i coniugi pervengono in occasione della separazione, sia perché’ la cessione dell’immobile non avviene attraverso l’omologazione della separazione, sia perché’ non vi è qui tassazione in atto occasionata dalla crisi coniugale, bensì la revoca di un precedente beneficio fiscale”.

Il ricorso per cassazione

La coppia, lungi dal darsi per vinta, ricorre per cassazione lamentando “…la violazione e/o falsa applicazione della L. 6 marzo 1987, n. 74, articolo 19, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziando che il regime di esenzione previsto dalla menzionata norma è esteso, per effetto di Corte Cost. 10 maggio 1999, n. 154, anche a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale tra i coniugi e, quindi, anche al trasferimento di immobili in comunione nei confronti dei terzi”.

La Suprema Corte, accogliendo il predetto motivo di appello, offre i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • “…secondo giurisprudenza da ultimo consolidatasi, che ha innovato rispetto ad un precedente e diverso orientamento (cfr., ad es., Cass. n. 2263 del 03/02/2014), ‘l’agevolazione di cui alla L. n. 74 del 1987, articolo 19, nel testo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità (Corte Cost., sentenza n. 154 del 1999), spetta per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi in esito alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, atteso il carattere di “negoziazione globale” attribuito alla liquidazione del rapporto coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, i quali, nell’ambito della nuova cornice normativa (da ultimo culminata nella disciplina di cui al Decreto Legge n. 132 del 2014, articoli 6 e 12, conv. con modif. nella L. n. 162 del 2014), rinvengono il loro fondamento nella centralità del consenso dei coniugi” (così Cass. n. 2111 del 03/02/2016);
  • in specifica applicazione del predetto principio, è stato evidenziato che ‘in tema di agevolazioni ‘prima casa’, il trasferimento dell’immobile prima del decorso del termine di cinque anni dall’acquisto, se effettuato in favore del coniuge in virtu’ di una modifica delle condizioni di separazione, pur non essendo riconducibile alla forza maggiore, non comporta la decadenza dai benefici fiscali, attesa la “ratio” della L. n. 74 del 1987, articolo 19, che è quella di favorire la complessiva sistemazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi in occasione della crisi, escludendo che derivino ripercussioni fiscali sfavorevoli dagli accordi intervenuti in tale sede’ (cosi’ Cass. n. 8104 del 29/03/2017; conf. Cass. n. 13340 del 28/06/2016; sempre in tema di agevolazioni “prima casa” si veda anche, sotto il diverso profilo della insussistenza dell’intento speculativo, Cass. n. 5156 del 16/03/2016; Cass. n. 22023 del 21/09/2017)”;
  • il suddetto principio, di portata assolutamente generale “… non può non estendersi anche all’ipotesi per cui è causa, nella quale i coniugi si sono determinati, in sede di accordi conseguenti alla separazione personale, a trasferire l’immobile acquistato con le agevolazioni per la prima casa ad un terzo”;
  • l’atto stipulato dai coniugi in sede di separazione personale (o anche di divorzio) e comportante la vendita a terzi di un immobile in comproprietà e la successiva divisione del ricavato, pur non facendo parte delle condizioni essenziali di separazione rientra sicuramente nella negoziazione globale dei rapporti tra i coniugi ed è, pertanto, meritevole di tutela, risiedendo la propria causa contrariamente a quanto ritenuto dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 27/E del 21 giugno 2012 – nello “spirito di sistemazione, in occasione dell’evento di separazione consensuale, dei rapporti patrimoniali dei coniugi sia pure maturati nel corso della convivenza matrimoniale” (Cass. n. 16909 del 19/08/2015, in motivazione)”.

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Con la recente ordinanza n°9226/2020, depositata lo scorso 20 maggio 2020, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità dell’esercizio del diritto di recesso del promissario acquirente dal contratto preliminare di compravendita a seguito dell’assenza del certificato di agibilità dell’immobile al momento della stipula del contratto definitivo.

La vicenda

La controversia origina dal ricorso ex art. 702 bis c.p.c. con cui i promittenti venditori di un immobile avevano convenuto in giudizio il promissario acquirente al fine di:

  • accertare il legittimo esercizio del loro diritto di recesso dal contratto preliminare sottoscritto;
  • accertare il conseguente diritto a trattenere la caparra versata venditori;
  • ottenere la cancellazione della trascrizione del predetto contratto preliminare.

A sostegno della loro pretesa i promittenti venditori rappresentavano che:

  • nel contratto preliminare era stato fatto espresso riferimento all’assenza del certificato di agibilità dell’immobile (anteriore al 1967) e al mancato completamento della pratica di condono edilizio;
  • prima della data della stipula del contratto definitivo il promissario acquirente aveva illegittimamente preteso il differimento della data del rogito nonché il dimezzamento del prezzo di vendita sulla base dell’assenza del predetto certificato di agibilità e il mancato completamento della pratica di condono edilizio;
  • il promissario acquirente non si era successivamente presentato per la stipula del contratto definitivo nel termine convenuto, così dimostrandosi inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte con il contratto preliminare.

Il convenuto, costituitosi in giudizio chiedeva il rigetto della domanda nonché, in via riconvenzionale, l’accertamento della legittimità del suo recesso, esercitato a mezzo r.a.r, e la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra.

Il Tribunale di Roma, investito della questione, mutato il rito, “…rigettava la domanda principale ed accoglieva quella riconvenzionale, dichiarando, conseguentemente, la legittimità del recesso operato dal promissario acquirente in considerazione dell’interesse del medesimo ad acquistare l’immobile dotato del certificato di agibilità ed in regola con la normativa urbanistica, con la derivante condanna degli attori al pagamento del doppio della caparra”.

La sentenza veniva confermata anche in Appello sulla scorta della mancata prova da parte degli appellanti della “…rinuncia del promissario acquirente al requisito dell’agibilità dell’immobile oggetto del contratto preliminare e per il quale avrebbe dovuto essere stipulato quello definitivo sia confermando – nella valutazione complessiva dei reciproci inadempimenti per i quali erano stati esercitati i rispettivi recessi – la non scarsa importanza di quello imputabile ai promittenti venditori”.

Il ricorso per Cassazione

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in oggetto, rigetta le doglianze dei promittenti venditori, alla luce dei seguenti condivisibili chiarimenti:

  • la mera previsione della formula ‘non c’è il certificato di abitabilità’ non è idonea – come accertato dalla Corte d’Appello, attraverso una sua valutazione di merito – a configurare una rinuncia da parte del promissario acquirente a subordinare la conclusione del contratto definitivo al preventivo rilascio del certificato di abitabilità;
  • come da tempo chiarito da un’univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 15969/2000 e Cass. n. 10820/2009), “…il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia (anche ove il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune, nei cui confronti è obbligato ad attivarsi il promittente venditore) è da ritenersi giustificato perché l’acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene, per cui i predetti certificati devono ritenersi essenziali” (v. anche Cass. n. 16216/2008, Cass. n. 30950/2017 e Cass. n. 23265/2019).
  • “…ai fini della legittimità del recesso di cui all’art. 1385 c.c., come in materia di risoluzione contrattuale, non è sufficiente l’inadempimento, ma occorre anche la verifica circa la non scarsa importanza prevista dall’art. 1455 c.c., dovendo il giudice tenere conto dell’effettiva incidenza dell’inadempimento sul sinallagma contrattuale e verificare se, in considerazione della mancata o ritardata esecuzione della prestazione, sia da escludere per la controparte l’utilità del contratto alla stregua dell’economia complessiva del medesimo” (cfr. Cass. n. 409/2012 e Cass. n. 21209/2019), verifica nel caso di specie effettuata e motivata dalla Corte di merito;
  • da ultimo, il termine indicato nel contratto preliminare per la stipula del definitivo non poteva considerarsi essenziale, in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza “…in tema di contratto preliminare di compravendita, il termine stabilito per la stipulazione del contratto definitivo non costituisce normalmente un termine essenziale, il cui mancato rispetto legittima la dichiarazione di scioglimento del contratto, precisandosi, tuttavia, che tale termine può ritenersi essenziale, ai sensi dell’art. 1457 c.c., solo quando, all’esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto (e, quindi, insindacabile in sede di legittimità se logicamente ed adeguatamente motivata in relazione a siffatti criteri), risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di considerare ormai perduta l’utilità economica del contratto con l’infruttuoso decorso del termine.”

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[:it]White concrete building under blue sky

Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L. 33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.

[:en]Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L.33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.
[:fr]Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L.33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.
[:es]Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L.33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.
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home-real-estate-106399Di seguito una disamina delle più recenti massime estratte dai provvedimenti emanati dalle Corti di merito e dalla Suprema Corte in punto di:

1) Responsabilità esclusiva dell’appaltatore per vizi dell’opera

  • Corte d’Appello Milano Sez. IV^ Sent., 17/01/2020 (O. S.P.A c. A. s.p.a e altri): “L’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità, soltanto, se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. In mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori”.
  • Corte d’Appello Torino Sez. IV^, Sent., 26/02/2018 (F. S.r.l. c. R.E. e altri): “L’appaltatore, ovvero il subappaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori”. 
  • Cass. civ. Sez. I^, Ord., 09/10/2017, n°23594 (I. c. A.): “L’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori”.
  • Tribunale di Monza, Sez. II^, 02/07/2015: “In tema di appalto, dovendo l’appaltatore assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica, relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, laddove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori”.

2) Responsabilità del direttore lavori nella fase di progettazione

  • Cass civ. Sez. III^ Ord., 27/09/2018, n°23174 (C. c. S.): “In tema di appalto, quando si tratti di opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti o preparati dal committente o da terzi, il direttore dei lavori, dinanzi a situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, è tenuto, in adempimento dei propri obblighi di diligenza, ad intraprendere le opportune iniziative per accertarne la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, con riferimento ai lavori di edificazione di una cantina di imbottigliamento, aveva ritenuto i direttori dei avori corresponsabili della frana verificatasi nell’area di scavo, per non avere adeguatamente considerato, durante la fase di progettazione delle opere, i profili inerenti alla stabilità del pendio su cui la costruzione sarebbe dovuta sorgere, tanto più al cospetto di una relazione geologica carente dei dati tecnici necessari per la verifica di stabilità del pendio)”. 
  • Reggio Emilia Sez. II, 27/06/2014 (R.T e G.F. c. S.T. P. e altri): “Il direttore dei lavori risponde nei confronti del committente non solo nel caso in cui i vizi dell’opera derivino dal mancato rispetto del progetto, posto che tra gli obblighi del direttore stesso vi è quello di riscontrare la progressiva conformità dell’opera al progetto; ma risponde anche, in solido con progettista e appaltatore, anche nel caso i vizi derivino da carenze progettuali, posto che è suo obbligo quello di controllare che le modalità dell’esecuzione dell’opera siano in linea non solo con il progetto, ma anche con le regole della tecnica, fino al punto di provvedere alla correzione di eventuali carenze progettuali”.

3) Responsabilità del direttore lavori per omessa vigilanza sulla conformità nell’esecuzione opera e per l’omessa verifica dell’ottemperanza alle modalità d’esecuzione 

  • Tribunale Padova Sez. II Sent., 05/08/2019 (C.M. e altri c. V.I. e altri): “In tema di appalto, il direttore dei lavori è responsabile nel caso in cui ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni circa la conformità delle modalità di esecuzione dell’opera al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente”.
  • Cass. civ. Sez. II^ Ord., 14/03/2019, n°7336 (T.P. c. G.M. e altri): “Non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente; in particolare, l’attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell’alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta, comunque, il controllo della realizzazione dell’opera nelle sua varie fasi e, pertanto, l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (…) In ordine alla responsabilità conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con rifermento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam in concreto”; rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi. Non si sottrae, dunque, a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente. In particolare, l’attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell’alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta comunque il controllo della realizzazione dell’opera nelle sue varie fasi e pertanto l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati”.
  • Tribunale Ravenna Sent., 18/04/2019 (S.D.E. SRL c. G. SRL e altri): “In tema di appalto il direttore dei lavori non va esente da responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le necessarie disposizioni al riguardo, nonché trascuri di verificarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente”.
  • Tribunale Milano Sez. I^, Sent., 01/03/2019 (V.D c. M.B. e altri): “In materia di appalto, il principio dell’esclusione di responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini non si applica al direttore dei lavori che, per le sue peculiari capacità tecniche, assume nei confronti del committente precisi doveri di vigilanza, correlati alla particolare diligenza richiestagli. Il direttore dei lavori è, invero, gravato dall’obbligazione di accertare la conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera appaltata al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica”.
  • Tribunale di Padova, 19/06/2017: “In tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, l’attività del direttore dei lavori si concreta nell’alta sorveglianza dei lavori, la quale, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta comunque il controllo della realizzazione delle singole attività edificatorie nelle loro varie fasi e pertanto l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati”.

4) Concorso di responsabilità extracontrattuale del direttore dei lavori e/o del progettista e/o dell’appaltatore e/o del committente ex art. 1669 c.c. per gravi vizi o rovina dell’edificio

  • Tribunale Brescia Sez. II^ Sent., 11/07/2019 (G.M. c. E.C. S.r.l. e altri): “In tema di appalto, le infiltrazioni di umidità negli ambienti importano problemi di insalubrità e abitabilità che rientrano fra i gravi vizi, valutabili ai sensi dell’art. 1669 c.c.Detta norma, infatti, individua una responsabilità di natura extracontrattuale avente, perciò, ambito di applicazione più ampio di quello risultante dal tenore letterale della disposizione ed opera anche a carico del direttore dei lavori, eventualmente in concorso con l’appaltatore e i subappaltatori e/o il progettista secondo la natura dei vizi e la fase di realizzazione dell’opera (progettuale, direttiva o esecutiva), ponendo così a carico di essi una responsabilità diretta verso il danneggiato, soggetta ai termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1669 c.c. e fondata su una presunzione di colpa fino a prova della impossibilità della prestazione per caso fortuito o forza maggiore o per fatto esclusivo di terzi, concorrente con il generale titolo della responsabilità extracontrattuale ex  2043 c.c. soggetto a propri termini di prescrizione e a ordinario regime dell’onere della prova”.
  •  Tribunale La Spezia Sent., 21/02/2019 (T.I. e altri c. L.C. e altri): “L’ipotesi di responsabilità regolata dall’art. 1669 cod. civ.in tema di rovina e difetti di immobili ha natura extracontrattuale e, conseguentemente, trova un ambito di applicazione più ampio di quello risultante dal tenore letterale della disposizione, che fa riferimento soltanto all’appaltatore nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, perché operante anche a carico del progettista, del direttore dei lavori e dello stesso committente. Il suo presupposto risiede quindi, in ogni caso, nella partecipazione alla costruzione dell’immobile in posizione di “autonomia decisionale”.
  • Corte d’Appello Palermo Sez. III Sent., 18/02/2019 (G.P. c. G.S.): “L’art. 1669 c.c.è una sorta di responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, nella quale possono incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore-costruttore del fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, anche tutti quei soggetti, che prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell’opera, abbiano comunque contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o direttore dei lavori), alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione”.
  • Tribunale Savona, 06/04/2018 (P.B. c. E. s.r.l. e altri): “L’ipotesi di responsabilità regolata dall’art. 1669 cod. civ.in tema di rovina e difetti di immobili ha natura extracontrattuale e conseguentemente nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell’opera, abbiano contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione”.

 

 

5) Concorso di responsabilità (solidale) del direttore dei lavori e/o del progettista e/o dell’appaltatore ex artt. 1667-8 c.c. per difetti e difformità dell’opera

  • Tribunale Milano Sez. VII^, Sent., 10/07/2019 (M.d.S. S.P.A c. A.B.): “In caso di difetti di costruzione rispondono a titolo di concorso con l’appaltatore tutti quei soggetti, quali il progettista ed il direttore dei lavori che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell’opera, abbiano contribuito, per colpa professionale, alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione”.
  • Cass. civ. Sez. III^, Ord., 09/07/2019, n°18342 (R. c. G.): “In tema di contratto d’opera per la redazione di un progetto edilizio, pur trattandosi di una fase preparatoria rispetto all’esecuzione dell’opera, il professionista (che nella specie abbia cumulato l’incarico di progettista e di direttore dei lavori), deve assicurare la conformità del medesimo progetto alla normativa urbanistica ed individuare in termini corretti la procedura amministrativa da utilizzare, così da prevenire la soluzione dei problemi che precedono e condizionano la realizzazione dell’opera richiesta dal committente. Ne consegue che ne sussiste la responsabilità per l’attività espletata sia nella fase antecedente all’esecuzione delle opere in relazione alla scelta del titolo autorizzativo occorrente per il tipo di intervento edilizio progettato sia in quella successiva di controllo e verifica della difformità dell’opera progettata rispetto a quella eseguita, non costituendo la riscontrata difformità di per sè indice di un accordo illecito volto alla realizzazione di un abuso edilizio, trattandosi di un obbligo del professionista giustificato dalla specifica competenza tecnica necessariamente richiesta a chi abbia assunto l’incarico del progetto e della direzione dei lavori”. 
  • Cass. civ. Sez. III^, Ord., 18/06/2019, n°16288 (P.U. c. F.U.): “Sussiste la responsabilità del progettista e direttore dei lavori, ex  1176 e 2230 c.c., ove il professionista non appronti la dichiarazione di fine lavori prima della scadenza della DIA o non avvisi il committente dell’obbligo della sua presentazione, così contravvenendo agli obblighi informativi a proprio carico. In mancanza della presentazione del modulo di fine lavori, attestante la ultimazione, anche solo parziale delle opere oggetto di autorizzazione, soprattutto in assenza di tempestivo aggiornamento catastale in relazione ai lavori eseguiti (come nella specie), non è, invero, possibile accertare la regolarità del bene ai fini della sua commerciabilità. (In concreto, peraltro, la responsabilità del professionista va affermata anche per aver egli certificato la regolarità delle opere senza porsi il problema della mancanza della dichiarazione di ultimazione dei lavori.)”.
  • Tribunale Roma Sez. XI Sent., 31/01/2019 (V. SRL c. A. SRL e altri): “In tema di appalto, nell’ipotesi di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, non può ritenersi esente dalla responsabilità medesima il direttore dei lavori che, nell’ambito del suo ruolo tecnico-professionale, ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente, in ciò concretandosi quell’alta sorveglianza delle opere implicante il regolare ed assiduo controllo, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, della realizzazione dell’opera nelle sue varie fasi e stati di avanzamento”.
  • Cass. civ.,  sez. II^, Ord.14/11/2018, n°29338: “Nell’ambito del contratto di appalto, qualora il danno subito dal committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori, entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse”.
  • Corte d’Appello Campobasso, 25/09/2018: “In materia di contratto di appalto, l’irrealizzabilità dell’opera, per erroneità o inadeguatezza del progetto, dà luogo ad un inadempimento dell’incarico ed abilita il committente a rifiutare di corrispondere il compenso, avvalendosi dell’eccezione di inadempimento. Laddove, invece, l’opera sia affetta da vizi e difformità che non ne comportano la radicale inutilizzabilità, ed il committente non ne pretenda l’eliminazione diretta da parte dell’esecutore dell’opera, chiedendo invece il risarcimento del danno per l’inesatto adempimento, come detti vizi non escludono il diritto dell’appaltatore al corrispettivo, così non escludono neppure il diritto al compenso in capo al progettista ed al direttore dei lavori per l’opera professionale prestata”.
  • Corte d’Appello Torino, 10/07/2018 (M.D. c. T.A.P. e altri): “In tema di appalto, qualora il danno subito dal committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori (o del progettista), entrambi rispondono solidalmente dei danni, purché le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse”.
  • Tribunale Udine Sez. lavoro Sent., 01/03/2018 (INAIL e altri c. O.M. SRL e altri): “In tema di appalto, con riferimento alla responsabilità conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente presta un’opera professionale in esecuzione di una obbligazione di mezzi e non di risultati, ma, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di particolari e peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam” in concreto. Rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera e la segnalazione all’appaltatore di tutte le situazioni anomale e gli inconvenienti che si verificano in corso d’opera”.
  • Cass. civ. Sez. II^, Ord., 06/12/2017, n°29218 (R. c. M.): “In tema di appalto, qualora l’opera sia affetta da vizi e difformità che non ne comportano la radicale inutilizzabilità, ed il committente non ne pretenda l’eliminazione diretta da parte dell’esecutore, limitandosi, invece, a chiedere il risarcimento del danno per l’inesatto adempimento, i detti vizi non escludono il diritto al compenso in capo al progettista ed al direttore dei lavori per l’opera professionale prestata, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela. (…) In tema di contratto di appalto, il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore e il progettista e direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale. (Nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva riconosciuto la responsabilità solidale del progettista e direttore dei lavori e dell’appaltatore per i difetti della costruzione che avevano determinato infiltrazioni d’acqua, ponendo a carico del primo l’identica obbligazione risarcitoria del secondo, avente ad oggetto le opere necessarie all’eliminazione dei vizi ed all’esecuzione dell'”opus” a regola d’arte)”.
  • Trib. Grosseto, 06/05/2017: “In tema di appalto, in merito alla responsabilità in solido con la ditta appaltatrice del direttore dei lavori, va evidenziato come quest’ultimo presta per conto del committente un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultati ma, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente – preponente si aspetta di conseguire in modo conforme alle normative ed alle tecniche dell’arte, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam in concreto”; rientrano pertanto nelle obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera in base al progetto assentito, sia delle modalità dell’esecuzione di essa in relazione al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera conformemente al progetto e senza difetti costruttivi. Pertanto, non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore; in particolare l’attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell’alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sua varie fasi e pertanto l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, la conformità delle opere ed il rispetto delle indicazioni progettuali.”
  • Cass civ. Sez. II^, Sent., 24/02/2016, n°3651 (C. c. A.): “In tema di appalto, qualora il danno subito dal committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori (o del progettista), entrambi rispondono solidalmente dei danni, purché le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse.”

6) Responsabilità penale del direttore dei lavori e dell’appaltatore per abusi edilizi

  • Cass. pen. Sez. III^, 13/06/2019, n°38479 (Ca.Al. e altri): “In tema di reati edilizi, l’assenza dal cantiere da parte del direttore dei lavori non esclude la penale responsabilità di quest’ultimo per gli abusi commessi, atteso che sullo stesso ricade l’onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all’incarico”(…) In tema di reati edilizi, l’obbligo di vigilanza sulla conformità delle opere al permesso di costruire, gravante sul direttore dei lavori ai sensi dell’art. 29, comma 1, P.R. 6 giugno 2001, n°380, cui consegue la responsabilità penale del predetto nel caso di reati commessi da altri senza che intervenga la sua dissociazione ai sensi del comma 2 della medesima disposizione, permane sino alla comunicazione della formale conclusione dell’intervento o alla rinunzia all’incarico e non viene meno in caso di adozione dell’ordinanza di sospensione dei lavori, salvo che – e fintanto – che il cantiere sia sottoposto a sequestro”. 

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