L’intimazione in mora, cioè la richiesta, con i caratteri di cui all’art. 1219 c.c., dell’adempimento non è affatto elemento costitutivo della domanda di risoluzione del contratto di locazione, per cui il fatto che prima della intimazione di sfratto parte locatrice non avesse chiesto nè sollecitato l’adempimento non ha alcun rilievo.

Inoltre, l’inerzia del locatore rispetto ai reiterati ritardi non può essere interpretata alla stregua di un comportamento tollerante di accondiscendenza ad una modifica contrattuale relativamente al termine di adempimento, non potendo un comportamento di significato così equivoco, quale quello di non aver preteso in passato l’osservanza dell’obbligo stesso, indurre il conduttore a ritenere di poter adempiere secondo la propria disponibilità.

E quanto sancito dalla Suprema Corte la sentenza n. 27955 del 7 dicembre 2020.

In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, non trova applicazione nei contratti di durata la regola secondo cui la proposizione della domanda di risoluzione comporta la cristallizzazione delle posizioni delle parti contraenti fino alla pronuncia giudiziale definitiva, nel senso che, come è vietato al convenuto di eseguire la prestazione, così non è consentito all’attore di pretenderla, atteso che nel contratto di locazione, invece, trova applicazione la regola secondo cui il conduttore può adempiere anche dopo la proposizione della domanda, ma l’adempimento non vale a sanare o diminuire le conseguenze dell’inadempimento precedente e rileva soltanto ai fini della valutazione della relativa gravità.

In tema di contratto di locazione, ai fini dell’emissione della pronunzia costitutiva di risoluzione del contratto per morosità del conduttore il giudice deve valutare la gravità dell’inadempimento di quest’ultimo anche alla stregua del suo comportamento successivo alla proposizione della domanda. In tal caso, come in tutti quelli di contratto di durata in cui la parte che abbia domandato la risoluzione non è posta in condizione di sospendere a sua volta l’adempimento della propria obbligazione, non è ipotizzabile, diversamente dalle ipotesi ricadenti nell’ambito di applicazione della regola generale posta dall’art. 1453 c.c. (secondo cui la proposizione della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento comporta la cristallizzazione, fino alla pronunzia giudiziale definitiva, delle posizioni delle parti contraenti, nel senso che, come è vietato al convenuto di eseguire la sua prestazione, così non è consentito all’attore di pretenderla), il venir meno dell’interesse del locatore all’adempimento da parte del conduttore inadempiente, il quale, senza che il locatore possa impedirlo, continua nel godimento della cosa locata consegnatagli dal locatore ed è tenuto, ai sensi dell’art. 1591 c.c., a dare al locatore il corrispettivo convenuto, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno, fino alla riconsegna.

Avv. Maria Martignetti

 

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Il Tribunale civile di Roma, sez. V^, con la sentenza in oggetto, ha chiarito che il termine di 30 giorni per l’impugnazione di una delibera condominiale, di cui all’art. 1137 co. 2° c.c., deve ritenersi interrotto (e non sospeso) dalla proposizione dell’istanza di mediazione, con conseguente sua decorrenza, di nuovo e per intero, dalla data di sottoscrizione del verbale negativo di mediazione.

Il caso

Due condomini evocavano in giudizio il condominio per ottenere l’annullamento di una delibera condominiale. Il condominio, costituitosi in giudizio, eccepiva preliminarmente l’inammissibilità dell’impugnazione in quanto tardivamente proposta ritenendo, erroneamente, che “…a seguito del deposito del verbale negativo di mediazione, il termine ex art. 1137 c.c. riprenda a decorrere per i giorni che rimanevano al momento in cui si è verificata la sospensione”.

Ad avviso di parte convenuta, infatti, “… tra la data della comunicazione del verbale dell’assemblea impugnata (16.10.14) e la data dell’istanza di mediazione (13.11.14) erano trascorsi 27 giorni, e tra la data di deposito del verbale negativo (3.6.15) e quella della notifica della citazione (1.7.15) erano trascorsi altri 28 giorni, superandosi così il termine di 30 giorni fissato dall’art. 1137 c.c.”.

La decisione

Di diverso avviso il Tribunale di Roma, che respinge l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per decadenza ex art. 1137, co. 2, c.c. in quanto:

  • in base al disposto normativo (art. 5 co. 6 del D.Lgs. n. 28 del 2010 laddove afferma che la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed “impedisce” la decadenza) si deve infatti ritenere che si determini un effetto di tipo interruttivo e non sospensivo, per cui il termine per impugnare, dopo il deposito del verbale negativo, è, di nuovo e per intero, quello di trenta giorni previsto dall’art. 1137 co. 2 c.c. (v. Tribunale di Milano, sentenza n. 13360/2016 pubbl. il 02/12/2016 RG n. 17984/2015; Tribunale di Monza, sentenza 65/2016 del 12/1/2016)”;
  • “…la fattispecie costituisce, pertanto, deroga al principio sancito dall’art. 2964 cod. civ., il quale esclude che la decadenza possa essere soggetta alla disciplina interruttiva, invece valevole per la prescrizione e dettata dai precedenti articoli 2934 e ss. cod. civ”..

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(Trib. Civ. di Roma ordinanza n°29683/2020)

L’emergenza sanitaria scaturita dall’epidemia di Covid-19 ha innescato diverse dinamiche economiche fra privati. Numerosissime sono state, specie durante il lockdown, le richieste di rinegoziazione di immobili commerciali o attività produttive, divenuti ovviamente più onerosi per chi non ha potuto lavorare con continuità.

Il primo via libera alla rinegoziazione dei contratti è scaturito dalla relazione 56/2020 in materia di “Novità normative sostanziali del diritto ‘emergenziale’ anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale” in cui la Corte di Cassazione ha posto l’accento sul principio della reciproca buona fede.

Ma cosa accade se la rinegoziazione volontaria fallisce?

Alcune recenti pronunce giurisprudenziali hanno evidenziato che il conduttore avrebbe diritto a vedere riequilibrato giudizialmente il rapporto negoziale, con effetti anche per i periodi successivi al lockdown.

La più discussa, sino ad ora, è stata l’ordinanza oggetto di commento con la quale il Tribunale Civile di Roma ha dato ragione ad una società che gestisce due ristoranti nel centro di Roma, ubicati entro locali da essa condotti in locazione.

Il giudice, in accoglimento della domanda cautelare del conduttore, ha infatti disposto la riduzione dei canoni di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20 % per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021, nonché la sospensione della garanzia fideiussoria rilasciata a garanzia del pagamento dei canoni fino a una esposizione debitoria del conduttore pari a € 30.000,00, evidenziando che «il ricorso sembra essere fondato sotto il profilo del “periculum in mora” (pericolo nel ritardo, ndr), posto che le perdite derivanti dall’escussione della fideiussione e il pagamento dei canoni in misura integrale sono idonei ad aggravare considerevolmente la situazione di crisi finanziaria della resistente, portandola alla cessazione».

Di avviso diverso, una precedente ordinanza del medesimo Tribunale di Roma (resa in un analogo contesto fattuale) a guisa della quale gli effetti negativi dei provvedimenti governativi potevano incidere solo sulle obbligazioni di pagamento del canone relative al periodo di lockdown (derivandone una riduzione del canone limitata al periodo in cui era stato di fatto l’impossibile di svolgere l’attività commerciale).

Brown wooden table with yellow table cloth[:]

[:it]In tema di locazione di immobile ad uso non abitativo, la clausola contenente la rinuncia preventiva, da parte del conduttore, all’indennità di avviamento è nulla, ancorché sia stata pattuita a fronte della riduzione del canone, ai sensi dell’art. 79 della l. n. 392 del 1978, potendo il medesimo conduttore rinunciare alla detta indennità solo successivamente alla conclusione del contratto, quando può escludersi che si trovi in quella posizione di debolezza alla cui tutela la richiamata disciplina è preordinata

Cass., 30 Settembre 2019, n. 24221

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 11245/2014 il Tribunale di Milano, a seguito di causa promossa con ricorso del 6 giugno 2012 dalla New Mode S.p.A. – poi incorporata nella D. S.p.A. – nei confronti della Twin Set – S.B. S.p.A. – che aveva incorporato Light Force S.p.A. -, accoglieva le contrapposte domande avanzate dalle parti nel senso di dichiarare sussistente il credito della D. per ritardato rilascio di controparte dell’immobile in questione dopo la cessazione del contratto che la D. aveva stipulato con la Twin Set (si trattava di una sublocazione, in cui quest’ultima era subconduttrice e la D. era sublocatrice, contratto venuto meno per risoluzione consensuale del contratto di locazione stipulato dalla D. come conduttrice e in cui locatrice era Immobiliare Miralto S.r.l.) nella misura dei canoni maturati nel periodo di ritardo, per Euro 271.131,32 oltre Iva ed interessi, e altresì nel senso di dichiarare il credito della subconduttrice per l’indennità di avviamento nella misura di Euro 442.708,32 oltre a Iva e interessi, compensando infine le rispettive debenze e condannando la D. a corrispondere a controparte il residuo, cioè Euro 171.667,01 oltre Iva ed interessi.

Avendo proposto appello principale la D. e appello incidentale la Twin Set, la Corte d’appello di Milano rigettava entrambi i gravami con sentenza del 20 aprile 2016.

Ha presentato ricorso la D. sulla base di quattro motivi. Si è difesa con controricorso la Twin Set, che ha pure depositato memoria.

Motivi della decisione

3.1 Il primo motivo del ricorso denuncia “violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale” per avere la Corte d’appello ritenuto che le parti non avessero concordato la rinuncia all’indennità di avviamento da parte della subconduttrice, come invece era stato addotto dall’attuale ricorrente.

3.2 I secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. La corte territoriale avrebbe ritenuto irrilevante, e comunque non provato, anche per la genericità di quanto desumibile dalla documentazione prodotta dall’attuale ricorrente, il fatto che alla conclusione del contratto di sublocazione il canone di mercato fosse ben superiore a quello stipulato nel contratto di locazione. Si obietta che i documenti prodotti dalla D. avrebbero invece fornito “elementi chiari e univoci” sull’intervenuto aumento del canone.

La Corte d’appello, condividendo quanto reputato dal Tribunale, avrebbe ritenuto pattuito il canone di mercato (Euro 850.000 annui) nel contratto di sublocazione, visti gli aggiornamenti Istat del canone del contratto di locazione (Euro 650.000 annui) stipulato nel 2004. Entrambi i giudici di merito avrebbero errato “nel non considerare le prove offerte”, basandosi invece sul notorio, cioè sugli aumenti dell’indice Istat, che notorio però non sarebbero stati, trattandosi di specifiche acquisizioni tecniche.

3.3 Il terzo motivo denuncia error in procedendo per mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti dall’attuale ricorrente.

Si riporta il capitolato offerto per interrogatorio e prova testimoniale limitatamente ad alcuni capitoli per affermarne la rilevanza, asserendo che le testimonianze su tali circostanze sarebbero state decisive per accertare che non era dovuta l’indennità di avviamento dalla sublocatrice alla subconduttrice.

3.4 Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 34 e art. 1591 c.c. La Corte d’appello avrebbe ritenuto non dovuta la “penale per ritardata restituzione” dell’immobile per la sussistenza del diritto alla indennità di avviamento della conduttrice: mora restituendi che verrebbe ad inibire il maggior danno. Ma nel caso in esame vi sarebbe stata “una pattuizione contrattuale che espressamente indicava che l’indennità di avviamento non era dovuta perchè ricompresa nel minor importo del canone”: pertanto sarebbe erronea l’interpretazione della corte territoriale relativa alla lettura giurisprudenziale della L. n. 392 del 1978, art. 34 e art. 1591 c.c. in ordine alla interdipendenza delle relative obbligazioni.

4.1 Nel contratto di sublocazione concluso dalle parti l’art. 4.2 così stabiliva:

“Le parti si danno reciprocamente atto che il canone di sublocazione è stato determinato deducendo forfettariamente un importo spettante al Subconduttore per l’indennità per la perdita dell’avviamento, calcolato sulla base della durata di 25 mesi della sublocazione. In considerazione di ciò, nonchè del fatto che il sublocatore ha rinunciato alla disponibilità ed al godimento dei Locali, resta in capo esclusivamente al sublocatore il diritto di percepire dal locatore l’eventuale indennità per la perdita di avviamento…”.

Inoltre all’art. 3.3 era stato pattuito un forfait di Euro 30.000 per il minore godimento dell’immobile e per ogni pretesa anche risarcitoria, inclusa l’eventuale indennità per la perdita di avviamento, e ancora all’art. 4 era stato determinato un canone annuo di Euro 850.000, il quale, secondo la prospettazione della sublocatrice, avrebbe incluso anche l’indennità di avviamento.

4.2 La corte territoriale ha riportato per esteso la motivazione della sentenza di primo grado, da cui emerge – conformemente a quanto prospettato, rispettando il canone dell’autosufficienza, nel ricorso – che l’attuale thema decidendum consiste nella debenza o meno della indennità di avviamento: quesito, questo, risolto in senso positivo dal Tribunale, il quale, dopo aver affermato l’applicabilità in astratto della L. n. 392 del 1978, art. 34 anche nel caso di sublocazione, sul caso concreto così si esprime:

“Non osta al riconoscimento dell’indennità di avviamento la previsione di cui all’art. 4.2 del contratto di sub-locazione… che esclude il diritto della società conduttrice all’indennità… trattandosi di clausola nulla, ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 79 comportando una rinuncia preventiva da parte del subconduttore ed in favore del sublocatore ad un diritto che sorgerà al momento della cessazione del contratto” (e qui viene richiamata pertinente giurisprudenza di legittimità). “Sostiene la ricorrente che l’indennità di avviamento non è dovuta in quanto le parti ne hanno tenuto conto nella determinazione del canone di locazione (art. 4.2 del contratto), richiamando a sostegno della legittimità della pattuizione la giurisprudenza della Corte di Cassazione… L’assunto non è fondato. Il disposto contrattuale è generico, mancando ogni riferimento alla misura del canone di mercato sul quale sarebbe stata operata la decurtazione ed essendo stato l’importo corrispondente all’indennità di avviamento dedotto in via forfettaria. Non risulta dimostrato che il canone di locazione sia stato determinato in misura ridotta rispetto a quello di mercato”, essendo d’altronde superiore di un terzo rispetto al canone del contratto di locazione (che era in effetti originariamente di Euro 650.000 annui); e “l’aggiornamento del canone di locazione nel periodo intercorrente” tra la stipulazione del contratto di locazione e quello di sublocazione, sempre secondo il Tribunale, “non giustifica certamente la maggiorazione”. E ancora, osserva il primo giudice, “non vi è prova di un incremento dei canoni locatizi nel periodo intercorrente tra la stipulazione del contratto di locazione e quello di sublocazione tale da dimostrare la riduzione del canone convenuto rispetto a quello di mercato”.

Il Tribunale inserisce nella sua ricostruzione pure la clausola 3.3 del contratto: “Ulteriore dimostrazione del fatto che le parti non hanno inteso compensare il canone di locazione con il credito relativo all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale è costituita dalla clausola n. 3.3 del contratto, con la quale hanno previsto, in caso di risoluzione anticipata del contratto di locazione, la corresponsione a favore del conduttore di un importo pari ad Euro 30.000,00 “per il minore godimento dei locali, nonchè a tacitazione di ogni pretesa anche risarcitoria, ad ogni titolo, inclusa l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale”… Infatti, se l’indennità era già stata compensata con la riduzione del canone di locazione, la clausola in parola sarebbe priva di senso.”.

E in tal modo il giudice di prime cure giunge a reputare, infine, prive di dimostrazione “la validità della clausola di cui al punto 4.2… e, con essa, la rinuncia della società conduttrice all’indennità di avviamento a fronte della riduzione del canone”, da ciò quindi deducendo dovuta la indennità di avviamento.

4.3 A questa impostazione aderisce completamente il giudice d’appello (motivazione della sentenza impugnata, pagina 15 s.), il quale, dopo avere affermato che la nullità di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 79, comma 1 “è volta ad evitare la elusione, a mezzo di rinunzia preventiva, dei diritti del conduttore garantiti dalla legge (non escludendo, invece, la possibilità di disporne quando i diritti medesimi siano già stati da lui acquisiti)”, dà atto della sussistenza di giurisprudenza di questa Suprema Corte che ha rimarcato la libertà di determinazione del canone nel contratto di locazione di immobile ad uso commerciale, per concludere però che nel caso in esame “non risulta che la rinunzia della subconduttrice all’indennità di avviamento (rinunzia preventiva, trattandosi di diritto non ancora esistente al momento della stipulazione del contratto di locazione, ma destinato a sorgere, in presenza delle condizioni di cui alla L. n. 392 del 1978, artt. 34 e 35 al momento della cessazione del rapporto contrattuale), peraltro soltanto implicita nella clausola 4.2 del contratto…, abbia avuto effettiva contropartita in una riduzione del canone… non rinvenendosi nella predetta clausola, nè del resto in altra parte del contratto, quale sarebbe stato il maggior canone pattuito e quale sarebbe stato, correlativamente, l’ammontare forfettariamente considerato dei contraenti quale indennità di avviamento spettante al subconduttore e “da scontare” su tale ipotetico maggior canone”, peraltro, come rilevato dal primo giudice, nettamente superiore a quello dovuto nel contratto di locazione (Euro 850.000 contro Euro 650.000 annui).

5.1 L’istituto della indennità per la perdita dell’avviamento è stato inteso dal legislatore come strumento di tutela dell’affidamento del conduttore sulla durata del godimento dell’immobile, che – evidentemente – ben può incidere sugli esiti dell’attività per cui l’immobile è stato locato: la L. n. 392 del 1978, art. 34 infatti, al comma 1 indica come presupposto che la cessazione del rapporto locatizio “non sia dovuta a risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore o a una delle procedure previste dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267”, e significativamente poi al comma 2 aumenta l’indennità per l’ipotesi in cui entro un anno la stessa attività o comunque attività affini vengano svolte nel medesimo immobile.

Lo scopo di tutela è d’altronde confermato dall’art. 35, che esclude l’indennità laddove la cessazione del contratto, nel senso del venir meno della fruizione di un determinato immobile, non incida sull’attività del conduttore, fattispecie indicate dallo stesso articolo.

5.2 E’ pertanto evidente che l’indennità di avviamento, nei contratti non riconducibili all’art. 35, ontologicamente si colloca nell’equilibrio sinallagmatico negoziale. La sua natura è orientata a favore del conduttore, e quindi in tale versante viene ad inserirsi nel controbilanciamento dei rispettivi interessi che forma l’equilibrio sinallagmatico.

Il legislatore, peraltro, impone un confine all’autonomia negoziale mediante l’art. 79 cit. Legge, che al comma 1 investe di nullità “ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto o ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dagli articoli precedenti ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge”.

Non sussiste nell’art. 79 un espresso riferimento all’indennità ex art. 34, la quale, a ben guardare, avrebbe potuto anche essere qualificata, anzichè “vantaggio” – nel senso di un quid pluris nella posizione sinallagmatica rispetto a quella consentita a controparte, ovvero una correlazione conformata ex lege a favore del conduttore, in sintonia con la tradizionale ottica della c.d. parte debole -, uno strumento di reintegrazione sinallagmatica (e quindi il recupero di un equilibrio ab origine tendenzialmente paritario, diretto a sopire gli effetti di uno scioglimento del contratto oggettivamente favorevole solo – o soprattutto – al locatore) considerato che non vi è diritto a tale indennità se il rapporto ha raggiunto la durata prevista; ma la natura fortemente protettiva della ratio della L. n. 392 del 1978, pervasa – come si è appena detto – dalla figura della “parte debole”, identificata automaticamente e sempre nel conduttore, ha generato una scelta interpretativa ormai del tutto inequivoca e stabile.

5.3 Compatta, invero, la giurisprudenza di questa Suprema Corte si è schierata nel senso di intendere l’indennità un vantaggio, e non un recupero, rectius, una reintegrazione; e in misura nettamente dominante ha dunque creato un orientamento per cui la nullità inflitta dall’art. 79 presidia norme imperative che hanno lo scopo “di impedire che il conduttore sia indotto ad accettare condizioni che ledono i suoi diritti pur di assicurarsi il godimento dell’immobile” (così, per esempio, Cass. sez. 3, 18 gennaio 2002 n. 537) mediante accordi che operano una elusione preventiva dei suddetti diritti concessi dalle norme imperative (in tal modo si esprime Cass. sez. 3, 12 novembre 2004 n. 21520; sulla stessa linea della ratio protettiva v., p. es., pure Cass. sez. 3, 3 aprile 1993 n. 4041, Cass. sez. 3, 12 ottobre 1998 n. 10081, Cass. sez. 3, 18 gennaio 2002 n. 537, Cass. sez. 3, 9 giugno 2003 n. 9197, Cass. sez. 3, 14 gennaio 2005 n. 675 e Cass. sez. 3, 24 novembre 2007 n. 24458).

5.4 Peraltro, l’art. 79 è stato inteso come riguardante le clausole del contratto, e pertanto non incidente su eventuali accordi posteriori (cfr. p. es. la citata Cass. sez. 3, 14 gennaio 2005 n. 675, per cui l’art. 79 – il quale “sancisce la nullità di ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore a quello legale, ovvero ad attribuirgli altro vantaggio” contra legem – “mira ad evitare che al momento della stipula del contratto le parti eludano in qualsiasi modo le norme imperative… aggravando in particolare la posizione del conduttore”, senza però impedire che “al momento della cessazione del rapporto le parti addivengano ad una transazione in ordine ai rispettivi diritti ed in particolare alla rinuncia, da parte del conduttore, dopo la cessazione del rapporto, dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale…”; e cfr. pure Cass. sez. 3, 28 agosto 2007 n. 18157).

E’ qui, a ben guardare, che si struttura il dispositivo ermeneutico che relativizza la tutela ravvisata nell’art. 79: si tratta di diritti disponibili, per cui, quando sono “sorti”, possono essere tolti, ovvero rinunciati. Si riconosce quella che, in effetti, è una riapertura ex post all’autonomia negoziale “classica”, affermando che l’art. 79 alla cessazione del rapporto non impedisce alle sue parti di stipulare una transazione sui rispettivi diritti inseriti nel sinallagma che ha governato il rapporto stesso, e che in particolare non impedisce al conduttore di rinunciare all’indennità da perdita d’avviamento, anche in modo implicito, dal momento che l’art. 79 “è volto ad evitare la preventiva elusione dei diritti del locatario ma non esclude la possibilità di disporne una volta che essi siano sorti” (così, a proposito del diritto all’indennità Cass. sez. 3, 24 novembre 2007 n. 24458; conformi Cass. sez. 3, 22 aprile 1999 n. 3984, Cass. sez. 3, 3 aprile 1993 n. 4041, cit., e Cass. sez. 3, 8 febbraio 1990 n. 872; e questa impostazione da tempo si estende pure agli altri diritti del conduttore presidiati dall’art. 79: cfr. Cass. sez. 3, 19 novembre 1993 n. 11402, Cass. sez. 3, 24 settembre 1996 n. 8444, Cass. sez. 3, 9 giugno 2003 n. 9197, cit., Cass. sez. 3, 12 novembre 2004 n. 21520, cit., Cass. sez. 3, 14 gennaio 2005 n. 675, Cass. sez. 3, 10 giugno 2005 n. 12320 e, da ultimo, S.U. 15 giugno 2017 n. 14861).

Dunque, secondo la lettura tradizionale, colui che assume il ruolo di conduttore in un contratto di locazione commerciale quando lo stipula deve essere tutelato perchè parte debole – è evidente l’influsso, se non addirittura il contagio, dell’ulteriore species del genus locatizio com’era disciplinata dalla L. n. 392 del 1978, la locazione ad uso abitativo -, così che i diritti dettati sul piano astratto dalle protettive norme imperative entrano, sul piano concreto, nel negozio stipulato; peraltro, quando il negozio è stato stipulato – e i diritti hanno quindi acquisito, in concreto appunto, la fonte negoziale cui si devono rapportare – il conduttore si converte da parte debole in parte “paritaria” rispetto al locatore, proprio per questo potendo disporre di tali diritti, sia nell’ambito di negozi transattivi, sia mediante una mera rinuncia dei diritti stessi. I diritti devono sorgere, ma, una volta sorti, possono appunto essere “tolti di mezzo”.

5.5 La non linearità di questa struttura interpretativa nella locazione commerciale ha dato luogo ad un orientamento contrario a quello dominante che l’ha adottata: orientamento contrario che, peraltro, è rimasto assai debole.

Tra gli arresti massimati capostipite ne è Cass. sez. 3, 20 ottobre 1995 n. 10907, sentenza massimata nel senso che nella locazione immobiliare commerciale “vige il principio della libertà di determinazione del canone, per cui, tendendo la L. n. 392 del 1978, art. 79 a garantire l’equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore, non sono stati imposti limiti all’autonomia negoziale con riguardo alla previsione di un canone in misura inferiore a quella originariamente concordata, ove la stessa trovi la sua giustificazione nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti derivantigli dal contratto di locazione, relativamente alla prelazione e, conseguentemente, al riscatto ed all’indennità di avviamento commerciale.”.

Ad essa si è richiamata dieci anni dopo Cass. sez.3, 12 luglio 2005 n. 14611, massimata esattamente come la precedente con l’aggiunta che la rinuncia preventiva del conduttore “deve trovare il suo corrispettivo sinallagmatico all’interno del contratto stesso di locazione.” Questa presa di posizione, in motivazione, non si estende oltre quel che era già riportato nella massima dell’arresto precedente (“…va osservato che in tema di locazione di immobile ad uso non abitativo vige il principio della libertà di determinazione del canone, per cui, tendendo la L. n. 392 del 1978, art. 79 a garantire l’equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione “operata dal legislatore, non sono stati imposti limiti all’autonomia negoziale con riguardo alla previsione di un canone in misura inferiore a quella originariamente concordata, ove la stessa trovi la sua giustificazione nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti derivantigli dal contratto di locazione, relativamente alla prelazione e, conseguentemente, al riscatto ed all’indennità di avviamento commerciale (Cass. 20/10/1995, n. 10907). In altri termini, al fine di sfuggire alla nullità ex art. 79 cit., la rinunzia preventiva da parte del conduttore ad uno dei diritti predetti deve trovare il suo corrispettivo sinallagmatico all’interno del contratto stesso di locazione.”).

Infine, ancora dopo circa dieci anni, questo fiumicello nascosto riaffiora in Cass. sez. 3, 29 aprile 2015 n. 8705, a sua volta massimata in modo analogo (“In tema di locazione di immobile ad uso non abitativo vige il principio della libera determinazione del canone, per cui, tendendo la L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79 a garantire l’equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore, non sono stati imposti limiti all’autonomia negoziale con riguardo alla previsione di un canone in misura inferiore a quella originariamente concordata, ove la stessa trovi la sua giustificazione nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti derivantigli dal contratto di locazione, ivi compreso quello alla corresponsione dell’indennità di avviamento commerciale.”), la quale tratta un caso che potrebbe dirsi affine – se il thema decidendum, come conformato nel ricorso, fosse in tal senso idoneo; ma questo si vaglierà infra – a quello in esame.

L’arresto del 2015 motiva infatti affermando che correttamente il giudice di merito aveva “ritenuto legittima la clausola contrattuale recante sostanziale rinuncia all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale rilevando che, “secondo quanto ammesso dallo stesso conduttore e comprovato dalla scrittura contrattuale, ne era rimesso lo scomputo sull’ammontare del canone”. Al riguardo si osserva che questa Corte ha affermato che in tema di locazione di immobile ad uso non abitativo vige il principio della libertà di determinazione del canone, per cui, tendendo la L. n. 392 del 1978, art. 79 a garantire l’equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore, non sono stati imposti limiti all’autonomia negoziale con riguardo alla previsione di un canone in misura inferiore a quella originariamente concordata, ove la stessa trovi la sua giustificazione nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti a lui derivanti dal contratto di locazione, relativamente alla prelazione e, conseguentemente, al riscatto ed all’indennità di avviamento commerciale (Cass. 20 ottobre 1995, n. 10907; Cass. 12 luglio 2005, n. 14611). Di tale principio risulta aver fatto corretta applicazione la Corte di merito.” (si nota per inciso che di tutte e tre le sentenze di orientamento minoritario dà atto, pur senza affrontare realmente il problema, la corte territoriale nelle pagine 15-16 della motivazione della sentenza impugnata).

5.6 Quest’ultima pronuncia, evidentemente, segue in modo davvero conforme la pronuncia capostipite, e ne patisce la stessa criticità. La sentenza del 1995, infatti, motivava come si verrà ora a esporre.

Dinanzi ad un caso in cui in un contratto di locazione ad uso commerciale il conduttore aveva espressamente rinunciato ai diritti di prelazione e di riscatto e all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale in una specifica clausola – la clausola 11 -, e in cui il ricorrente lamentava violazione dell’art. 79, adducendo tra l’altro che “la clausola n. 11 che prevede tali abdicazioni non si configurerebbe tecnicamente come “rinuncia”, bensì come pattuizione diretta ad escludere un diritto che per legge sarebbe spettato al locatario in maniera ineludibile”, e quindi sarebbe nulla, si è affermato che detta clausola godeva di “piena validità” in quanto la rinuncia ai suddetti diritti “costituisce il corrispettivo della rinuncia, da parte del locatore, a percepire un canone mensile nella misura già pattuita e, quindi, rappresenta la controprestazione della concordata riduzione del canone.”. Segue il passo che è stato elevato a massima (“Invero in tema di locazione di immobile ad uso non abitativo – come quello in esame – vige il principio della libertà di determinazione del canone per cui, tendendo l’art. 79 Legge suddetta soltanto a garantire l’equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore, non sono stati imposti limiti all’autonomia negoziale con riguardo alla previsione di un canone in misura inferiore a quella concordata, ove la stessa trovi la sua giustificazione nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti derivantigli dal contratto di locazione, relativamente alla prelazione e, conseguentemente, al riscatto ed all’indennità di avviamento commerciale, di talchè deve escludersi la violazione del richiamato art. 79”) per giungere poi al rilievo – su quel che, a ben guardare, è il punctum dolens del ragionamento – che “il giudice del gravame ha incensurabilmente accertato che unico fu il contratto stipulato” e che in tale contratto il conduttore “rinunciò al diritto di prelazione e di riscatto, nonchè al diritto all’indennità per la perdita di avviamento, essendo stata tale rinunzia compensata – all’atto della stipula del contratto – con una misura del canone inferiore a quella effettivamente concordata. Pertanto, contrariamente a quanto assume il ricorrente, le parti stipularono non due contratti, bensì uno solo, nel quale dopo aver, fra l’altro, concordato la misura del canone, la ridussero per aver il conduttore rinunciato ai diritti nascenti dal contratto medesimo, quale quello di prelazione o di riscatto e di indennità per la perdita dell’avviamento.

Tale rinuncia conseguì ad una valutazione complessiva dei contrapposti diritti ed interessi dei contraenti legati da nesso di reciprocità, sicchè giustamente la Corte barese ha tratto la convinzione della vantaggiosità della clausola… per il conduttore che, in caso contrario, non l’avrebbe certamente accettata. L’interpretazione data dal giudice del gravame al contratto di locazione de quo ed in particolare alla pattuizione n. 11 è indubbiamente corretta siccome conforme alle norme stabilite dagli artt. 1362 c.c. e segg.”.

5.7 Questa argomentazione è agevolmente criticabile, in quanto, come si è appena visto, si fonda sul presupposto che la rinuncia a determinati diritti “di favore” inseriti dal legislatore nel paradigma della locazione commerciale costituirebbe un corrispettivo sinallagmatico a fronte della diminuzione di un canone già pattuito/concordato, pur non essendovi stato ancora alcun contratto.

Definire concordato un canone al punto che per diminuirlo occorre rinunciare ai diritti che il legislatore attribuisce appare intrinsecamente contraddittorio, per non dire un fragile espediente non corrispondente al vero. Si prospetta, infatti, una scissione, o una graduazione progressiva, nella determinazione del contenuto del contratto, svincolando una parte dell’oggetto delle trattative precontrattuali dalla residua parte, così da qualificare già concordati elementi essenziali come il canone quando in realtà la trattativa è ancora aperta e giunge, infatti, ad un canone diverso. In realtà, non sussiste un canone concordato che viene abbassato con la rinuncia: sussiste invece, nella notoria realtà commerciale, un canone preteso (nel senso di rigidamente proposto) dal soggetto che tratta come futuro locatore e che questo soggetto si dichiari disponibile a diminuirlo qualora la potenziale controparte gli proponga a sua volta dei particolari vantaggi; e quindi, nei casi di cui si tratta, tali peculiari vantaggi sarebbero consistiti nel mancato inserimento – quale esito delle trattative precontrattuali – nel regolamento negoziale di diritti stabiliti dal legislatore venendo utilizzata l’autonomia negoziale (in questa sede però, secondo la giurisprudenza predominante, insussistente per la natura imperativa delle norme) per farne oggetto di asportazione del sinallagma tipico del contratto delineato dalla legge.

Che l’autonomia negoziale nel contratto di locazione ad uso commerciale comunque sussista il che potrebbe sì condurre a rimeditare l’interpretazione dell’art. 79 e, a monte, l’imperatività delle norme che stabiliscono determinati diritti del conduttore – è una cosa; che il contratto si concluda per stadi separati, così da poter configurare come naturale una condotta – in realtà alquanto autolesionista – dell’aspirante conduttore che prima accetta un canone per lui eccessivo (che diverrebbe il canone “concordato”) e poi cerca di rimediare alla sua malleabilità negoziale “pagando” la correzione di quanto ha già concordato con la rinuncia, in un altro stadio di formazione del regolamento negoziale, a propri vantaggi legalmente previsti, è un’altra. E la configurabilità di quest’ultima prospettazione radicalmente non appare condivisibile, poichè la determinazione del contenuto del regolamento negoziale non può che essere unitaria, dal momento che il sinallagma si concretizza nella globalità dell’accordo (cfr. art. 1363 c.c.).

5.8 La realtà è che l’art. 79 – come già si accennava – costituisce effettivamente una sorta di intrusione, nel paradigma della locazione ad uso commerciale, del paradigma all’epoca della c.d. legge dell’equo canone imposto alla locazione ad uso abitativo, tipo contrattuale socialmente inteso come strumento assistenziale. Il legislatore del 1978 ha scelto di disciplinare entrambi i tipi di locazione in un unico testo normativo, e la tanto forte quanto pervadente percezione del conduttore come parte debole nella locazione abitativa – al punto che il legislatore ha ritenuto di dover determinare direttamente il canone, “ingabbiando” l’elemento fondamentale del sinallagma – ha contagiato anche la figura del conduttore nella locazione commerciale.

Forse ancor più oggi, a distanza di decenni dalla Legge del 1978, non è agevole comprendere la ragione per cui chi svolge un’attività commerciale debba essere reputato parte debole – o comunque debba esserlo sempre – in rapporto ad un proprietario di immobile, quasi che in termini economici la proprietà immobiliare sia ontologicamente superiore all’attività di impresa. Tale generalizzazione della debolezza nel ruolo di conduttore in qualunque tipo di locazione non appare, in effetti, esente di criticità: e proprio questa “inquietudine” strutturale è sottesa alla interpretazione per cui, una volta sorti i diritti “di favore” per la parte debole, questa non è più debole ma pari all’altra, e può quindi rinunciarvi.

L’art. 79 non può, peraltro, essere “svuotato” con interpretazioni che, come si è visto, scardinano il concetto di contratto, trasformandolo in una fattispecie a formazione progressiva in cui le parti prima concordano una cosa e poi ne concordano un’altra per “smontare” quella precedente, ma rimanendo unico il contratto. Che norme come il diritto alla prelazione, il diritto al riscatto e il diritto all’indennità per perdita dell’avviamento contengano un vantaggio al conduttore (anzichè una reintegrazione: quest’ultima, a ben guardare, potrebbe essere configurabile soprattutto proprio per il caso dell’art. 34) è comunque una lettura consolidata, condivisa anche da quel minoritario orientamento che, come si è visto, tali vantaggi ritiene rinunciabili. Allo stato della normativa, quindi, come percepita in certa lex, il conduttore continua ad essere investito di un ruolo di parte debole quando stipula il contratto locatizio commerciale, e deve pertanto posticipare il libero esercizio della sua autonomia negoziale a quando il contratto è stato già stipulato.

Questa criticità, sia sul piano giuridico (la disponibilità dei diritti trasforma immediatamente la parte debole in una parte rinunciante nei diritti di cui è già titolare) sia sul piano socioeconomico (come già si accennava, incomprensibile è la qualificazione dell’imprenditore commerciale come soggetto sempre debole rispetto a qualunque proprietario immobiliare, prescindendo dalla concreta configurazione delle posizioni economiche di entrambi), trascorsi ormai più di quarant’anni dal testo normativo da cui discende ed essendo stato modificato nel frattempo proprio il paradigma della locazione abitativa che nella sua versione originaria aveva, come un contagio, generato la criticità suddetta, meriterebbe tuttavia, anche de jure condendo, di essere superata, infrangendo quella debolezza del conduttore che, nella locazione non abitativa, quale canone generale pare integrare una fictio juris et de jure.

5.9 La consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte è riemersa anche dopo l’ultimo elemento di deviazione interpretativa: tra gli arresti massimati, Cass. sez. 3, 13 giugno 2018 n. 115373 ha ribadito: “la L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 29 il quale sancisce la nullità di ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello legale, ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge stessa, non impedisce al conduttore di rinunciare all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, purchè ciò avvenga successivamente alla conclusione del contratto, quando può escludersi che il conduttore si trovi in quella posizione di debolezza alla cui tutela la richiamata disciplina è preordinata”, in motivazione espressamente rimarcando la non condivisibilità, appunto, di Cass. sez. 3, 29 aprile 2015 n. 8705. E, sempre in tema, l’ancor più recente Cass. sez. 3, ord. 23 agosto 2018 n. 20974, in motivazione, qualifica le norme imperative rinvenibili nella L. n. 392 del 1978 come apportanti “la limitazione dell’autonomia contrattuale in vista di un’esigenza sociale ritenuta meritevole di tutela preferenziale”, definendo l’art. 79 “una norma di chiusura che prevede la sanzione della nullità a tutela di alcuni diritti ritenuti oggetto di particolare protezione, in perfetta concordanza con l’intero impianto e con la filosofia sottesa alla L. n. 392 del 1978”, per cui la giurisprudenza di questa Suprema Corte afferma appunto che “solo successivamente alla conclusione del contratto, quando il conduttore non si trova più in una posizione di debolezza per il timore di essere costretto a lasciare l’immobile dove svolge l’attività commerciale, vi è la possibilità per le parti di negoziare in ordine ai diritti nascenti dal contratto ed in particolare in ordine al diritto all’indennità di avviamento” (l’ordinanza qui richiama arresti del tutto conformi alla linea predominante; e cfr. pure, sempre a proposito dei limiti dell’autonomia negoziale delle parti nella locazione commerciale, Cass. sez. 3, 14 marzo 2018 n. 6124, che, a proposito della conformazione del canone, si innesta nell’attiguo filone relativo alla L. n. 392 del 1978, art. 32 di cui i più recenti arresti massimati sono Cass. sez. 3, 11 ottobre 2016 n. 20384 e Cass. sez. 3, 7 febbraio 2013 n. 2961).

  1. La conformazione dei motivi di questo ricorso non consente, peraltro, di accedere realmente a questa tematica.

6.1 Il primo motivo, infatti, rubricato genericamente come “violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale”, dopo la trascrizione di un ampio stralcio della motivazione della sentenza impugnata, propone la violazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c. quanto alla interpretazione del contratto di sublocazione e, ovviamente, della clausola 4.2, argomentando una – per così dire – classica valutazione alternativa del contenuto della clausola rispetto a quello che vi ha ravvisato il giudice di merito, non solo sulla base del dettato contrattuale ma altresì in forza del comportamento delle parti: risulta evidente, pertanto, l’inammissibilità del motivo, in quanto diretto ad ottenere una revisione dell’accertamento di fatto da parte del giudice di legittimità.

6.2 Non si distoglie da questa linea il secondo motivo, rubricato – più specificamente di quello precedente – come violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: imputa infatti al giudice d’appello di non avere “valutate le prove offerte da D. volte a dimostrare che il canone di locazione concordato era stato ridotto rispetto a quello di mercato mediante deduzione forfettaria dell’indennità di avviamento”. Questo ulteriore tentativo di ottenere un terzo grado di merito viene, ovviamente, nutrito di elementi fattuali che, ad avviso della ricorrente, avrebbero pregnanza probatoria.

Pure in questo caso l’inammissibilità è più che evidente, il riferimento all’art. 115 c.p.c. costituendo un fragile schermo che ha tentato di coprirla, il motivo essendo conformato con la modalità e la sostanza proprie di una censura proponibile soltanto come motivo d’appello.

6.3 Il terzo motivo ancora non riesce ad oltrepassare l’area inammissibile del terzo grado di merito, in quanto, dopo essere rubricato – in modo nuovamente generico – error in procedendo per mancata ammissione dei mezzi istruttori, nuovamente si conforma come se fosse una censura rappresentata a un giudice di merito. Vengono riportati, tra l’altro, alcuni capitoli, pare testimoniali, che sarebbero stati proposti nella comparsa di risposta e che, si nota ad abundantiam, palesemente erano inammissibili: il capitolo 4 infatti chiede al teste una valutazione sui canoni di mercato che andava semmai affidata ad un ausiliario tecnico del giudice; i capitoli 10 e 11 riguardano – e anche genericamente – quel che sarebbe stato concordato tra le parti, in contrasto con l’art. 2721 c.c. e apportando una sorta di “interpretazione autentica”, contrastante a quella adottata dai giudici di merito; il capitolo 12 verte su una circostanza ictu oculi irrilevante, indicando il legale che avrebbe redatto il contratto; il capitolo 16, infine, riecheggia il capitolo 4, ancora affidando al teste una valutazione che avrebbe dovuto essere richiesta a un consulente tecnico d’ufficio.

6.4 Infine, il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 34 e art. 1591 c.c., ma la sua impostazione apparentemente giuridica ancora una volta viene svuotata e sostituita da una sostanza fattuale, in quanto si ritorna all’interpretazione della clausola 4 del contratto per sostenere che “vi era una pattuizione contrattuale che espressamente indicava che l’indennità di avviamento non era dovuta perchè ricompresa nel minor importo del canone di locazione”, in ciò ponendo il centro effettivo della censura perchè questa adduce “erronea… la valutazione del caso di specie con riferimento all’interpretazione giurisprudenziale della L. n. 392 del 1978, art. 34 e art. 1591 c.c. circa l’interdipendenza delle obbligazioni quando risulta che l’indennità di avviamento non fosse dovuta”.

  1. Tutto il ricorso, assorbendo ogni altro profilo, risulta quindi inammissibile, onde quanto è stato sopra rilevato a proposito della consolidata interpretazione del combinato disposto della L. n. 392 del 1978, artt. 34 e 79 e delle sue criticità non può che rimanere al livello di un obiter dictum atto a raffigurare l’attuale diritto vivente, che le censure non sono pervenute a porre in discussione, rimanendo sulla soglia fattuale.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 15.000, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019.

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downloadLa Suprema Corte di Cassazione, a distanza di quasi quattro anni dalla sentenza n°24843 del 21 novembre 2014, è tornata a pronunciarsi sulla validità dei contratti di locazione ad uso non abitativo in caso di nullità della clausola di durata, a seguito della previsione da parte dei contraenti di un termine inferiore al sessennio.

Il fatto di cui è causa

Con ricorso ex art. 615 c.p.c., co. 2, i conduttori di un immobile commerciale proponevano opposizione all’esecuzione intrapresa in loro danno per il rilascio dello stesso, deducendo l’improcedibilità della predetta ex art. 34 della legge n°392/78 e chiedendo, pertanto, l’accertamento del loro diritto a ricevere un’indennità di avviamento.

I locatori, costituitisi, chiedevano il rigetto delle opposte doglianze eccependo, in particolare, la presenza di clausole contrattuali con cui:

  • le parti avevano espressamente convenuto la non applicabilità degli articoli 36, 30-40 della legge n°392/78 al contratto inter partes;
  • le parti avevano determinato in 2 anni, tacitamente rinnovabili, la durata del contratto locatizio;
  • i conduttori avevano rinunciato, alla scadenza contrattuale, a qualsiasi indennità a titolo di perdita di avviamento;
  • le parti avevano convenuto che la nullità delle predette clausole, ai sensi dell’art. 1419, co. 1 c.c., avrebbe comportato la nullità dell’intero contratto.

Il Tribunale di Taranto, investito della questione, dichiarava cessata la materia del contendere alla luce dell’avvenuto rilascio, medio tempore, del locale, rigettando la domanda degli opponenti in punto di indennità di avviamento. La decisione veniva confermata anche in sede di appello.

Gli opponenti decidevano tuttavia di ricorrere per cassazione eccependo l’erronea applicazione dell’art. 1419 c.c.

La decisione della Suprema Corte

Gli ermellini, investiti della questione, ritengono fondato detto motivo, cassando con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, alla luce della seguente condivisibile argomentazione:

  • il I^ comma dell’art. 1419 c.c. “…prevede che la nullità parziale o della singola clausola non comporti la nullità totale del contratto cui accede, salvo che non risulti che i contraenti non avrebbero concluso il regolamento negoziale senza quella parte colpita da nullità…”;
  • l’essenzialità della clausola, ai sensi del comma I^ deve essere valutata in senso oggettivo;
  • il II^ comma dell’art. 1419 c.c., disciplinante il fenomeno della conservazione del contratto tramite l’inserzione ex lege delle clausole nulle, costituisce “un’eccezione al campo di operatività del primo, limitato, appunto, dalla presenza di clausole contrattuali imposte ex lege e non derogabili nemmeno sotto l’habitus dell’essenzialità”, determinando un’automatica eterointegrazione del contratto, giustificante la limitazione dell’autonomia contrattuale alla luce “…di un’esigenza sociale ritenuta meritevole di tutela preferenziale”;
  • una giurisprudenza costante ha chiarito da tempo che il predetto comma 2 dell’art. 1419 c.c. si riferisce “…all’ipotesi in cui specifiche disposizioni, oltre a comminare la nullità di determinate clausole contrattuali, ne impongano anche la sostituzione con una normativa legale, mentre tale disposizione non si applica qualora il legislatore, nello statuire la nullità di una clausola o di una pattuizione, non ne abbia espressamente prevista la sostituzione con una specifica norma imperativa”;
  • a ciò consegue la piena operatività del comma 2 nel caso di specie atteso che a norma della L. n. 392 del 1978, art. 27, comma 4, ove in una locazione non abitativa sia convenuta una durata inferiore a quella legale, ‘la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti’”.
  • Cass. civ. Sez. III, ordinanza n. 20974 del 23 agosto 2018

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Si ha molestia di diritto allorquando il terzo rivendichi un diritto reale o personale di godimento sulla cosa locata che esclude o limita il diritto personale di godimento del conduttore (come l’esperimento di un’azione di rilascio del bene locato nei suoi confronti da parte del terzo che contesti il potere di disposizione del locatore) o che incide sull’esecuzione del rapporto contrattuale (come, ad esempio, l’intimazione rivolta all’inquilino di non pagare più i canoni nelle mani del locatore). La pretesa giuridica del terzo, incompatibile con quella del conduttore, che configura una molestia di diritto, può anche non consistere nella rivendicazione di un diritto sulla cosa locata bensì nell’affermazione, fondata o meno, della legittimità dell’attività da lui posta in essere, che il conduttore ritiene invece lesiva dei propri diritti di godimento.

Costituiscono, invece, molestie di fatto le condotte illecite del terzo che, senza avanzare un corrispondente diritto, arrechino pregiudizio al godimento del conduttore e, come tali, riconducibili nel concetto di atto illecito in senso lato di cui all’art. 2043 c.c., rispetto al quale il secondo comma della norma in esame si pone con carattere di specialità.

Nel caso in esame la Corte di cassazione, Sez. III civ., con ordinanza 13 marzo 2018 n. 6010, ribadisce che in tema di locazione, la molestia di diritto, dalla quale il conduttore ha diritto di essere garantito dal locatore ai sensi dell’art. 1585 cod. civ., può essere anche realizzata dal comportamento del terzo volto a contraddire il diritto del conduttore al pieno godimento della cosa attraverso una menomazione materiale del bene che ne limiti il godimento e dimostri, al contempo, la volontà di contestare il diritto del locatore contrapponendovi un diritto proprio.

Qui di seguito il testo della decisione:

 

                                                          Svolgimento del processo
Il sig. … adì il Tribunale di Roma affermando che in relazione all’immobile C1 di 116 mq. ubicato in … locatogli originariamente da ……… e successivamente da …, nel gennaio 1999 i condomini dello stabile antistante il locale, ritenuta l’area comune di esclusiva proprietà condominiale, avevano prima parcheggiato le proprie autovetture, impedendo al ricorrente il carico e scarico delle merci e, successivamente, avevano posizionato due paletti che impedivano il transito e l’uso dell’area in questione; che, inoltre, il condominio aveva realizzato un’apertura nella parete del locale, di circa mq. 1,5, per accedere al vano ascensore ad esso adiacente; che erano stati effettuati lavori nell’appartamento soprastante da cui erano derivati il distacco di una pignatta dal soffitto e perdite di acqua. Chiese, pertanto, il risarcimento dei danni, indicando l’importo di Euro 45.167.
La .. si costituì in giudizio affermando che il contratto non prevedeva una servitù di passaggio carrabile o per la sosta dei veicoli in favore del locale oggetto di locazione e che, in ogni caso, lei non era legittimata a rispondere dei danni derivanti dall’apertura del vano ascensore.

Espletata una CTU, il Tribunale di Roma accertò e dichiarò che il L. non aveva dato dimostrazione concreta e adeguata nè del periodo in cui il passaggio era risultato impedito nè della natura del danno subito.

In appello il .. eccepì la nullità della sentenza per omessa lettura del dispositivo in udienza e ne chiese la riforma nel merito, presentando dei conteggi e aggiornando la propria domanda di danni nella misura di Euro 51.171,53 oltre rivalutazione e interessi.

La Corte d’Appello di Roma per quanto qui rileva, pur escludendo la servitù di passaggio sulla proprietà condominiale, ha ritenuto che, chi aveva acquisito in locazione un bene di proprietà esclusiva, posto all’interno di uno stabile condominiale, comunque acquistava, salvo patto contrario o specifica previsione del regolamento di condominio, la facoltà di utilizzare anche le parti di fabbricato di natura condominiale funzionali al godimento dell’immobile locato, ivi compresa la facoltà di transitare nei cortili condominiali ed eventualmente di usufruire del previsto transito carrabile.

Tale facoltà sarebbe implicita nel tipo di attività svolta nel locale – assemblaggio e riparazione di componenti elettronici, antenne satellitari e terrestri comportante non solo la ricezione e quindi lo scarico delle apparecchiature da riparare, dei pezzi di ricambio e di tutte le attrezzature destinate a tali scopi, ma anche il successivo carico dei componenti riparati e delle apparecchiature destinate ad essere installate presso abitazioni dei clienti.

Ad avviso del giudice d’appello che questa fosse la volontà delle parti si ricavava sia da una nota del 17/3/1999, dell’avv. Roberto …… inviata all’amministratore del condominio, con la quale veniva contestata l’installazione di paletti che impedivano il carico e scarico delle merci, sia dalle discussioni svolte in assemblea condominiale e verbalizzate dalle quali si evinceva che l’intervento della …. nei confronti del condominio per il ripristino dell’uso dell’area condominiale antistante il locale non era stato effettuato solo a tutela della sua proprietà, ma anche a tutela delle ragioni del conduttore …..

A sostegno di questa tesi vi sarebbero anche altri documenti, versati in atti, con i quali la … aveva comunicato l’intenzione di agire nei confronti del condominio per la restituzione della somma anticipata a L. di L. 6.000.000, a saldo e stralcio del mancato uso “della nota servitù di passaggio nonchè per l’impedimento delle operazioni di carico e scarico e/o altro relativamente ai locali ceduti in locazione”.

La Corte d’Appello ha stimato che il danno ammontasse, per l’appunto, ad Euro 3.098,74 corrispondente a quanto già riconosciuto dal locatore per il solo periodo intercorrente tra gennaio 1999 e gennaio 2000, allorchè il passaggio venne ripristinato – con rivalutazione e interessi legali; ha accolto la richiesta di risarcimento per la ridotta utilizzazione di una delle pareti del locale, quantificando il danno, in base alla CTU, in termini percentuali del 2% del canone versato, per l’importo di Euro 1.500 ed ha rigettato le ulteriori voci di danno. Ha condannato C.P. al pagamento di Euro 3.098,74 oltre rivalutazione monetaria e interessi legali per la mancata disponibilità dell’area condominiale; e di Euro 1.500 a titolo equitativo per il mancato uso della parete; ha condannato altresì l’appellata C. alla metà delle spese di lite, liquidate per il primo grado in Euro 3.777 e per il grado di appello in Euro 3.457,50 compensando tra le parti la residua metà, comprese quelle di CTU.

Avverso la sentenza la …. propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. Resiste … con controricorso.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto e contraddittorietà manifesta, assumendo che la sentenza impugnata sia viziata per difetto della propria legittimazione passiva, non avendo ella assunto alcun obbligo nei confronti del conduttore relativamente alla servitù di passaggio ma essendosi soltanto adoperata per salvaguardare le ragioni proprie e del conduttore.

La … non avrebbe potuto garantire e ristorare il conduttore rispetto a comportamenti assunti dal condominio, in mancanza di specifici obblighi in tal senso documentati e provati in giudizio. In mancanza di prova circa l’esistenza della servitù di passaggio, dell’apertura della parete e di altri danni lamentati dal …, in ogni caso, ad avviso della ricorrente, le domande non erano state correttamente indirizzate al soggetto giuridicamente responsabile – il condominio – ma alla proprietaria locataria dell’immobile, del tutto estranea alle modalità di uso dell’area condominiale.

Le lettere prodotte in giudizio dimostravano soltanto che il proprietario dell’immobile locato, pur in assenza di qualsivoglia legittimazione, si era attivato per cercare di risolvere un problema, andando ben al di là della propria ordinaria diligenza, per garantire al conduttore il godimento dell’immobile. Il … avrebbe dovuto citare in giudizio i veri autori delle condotte impeditive del godimento senza coinvolgere la …

L’interpretazione svolta dalla Corte d’Appello sarebbe priva di qualsiasi fondamento di fatto e di diritto, non avendo …. prima e …. poi, mai assunto alcuna garanzia nei confronti del conduttore circa la possibilità di usare l’area condominiale antistante il locale dato in locazione.
Il ricorso è infondato.

La ratio decidendi dell’impugnata sentenza consiste nell’esistenza di molestie di diritto sul godimento della cosa, in relazione alle quali, ai sensi dell’art. 1585 c.c., comma 1, il locatore è tenuto a garantire il conduttore se riducono l’uso o il godimento della cosa e arrecate da terzi che pretendono di avere diritti sulla cosa medesima. All’obbligazione assunta con il contratto il locatore, nella prospettazione dell’impugnata sentenza, ha adempiuto sia ottenendo in sede condominiale la rimozione di paletti e lucchetti impeditivi del passaggio nel cortile antistante il locale, sia ristorando economicamente il conduttore per il ridotto uso dell’area e di una parete del locale. La sentenza, avendo dato atto di detto adempimento, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la molestia di diritto, dalla quale il conduttore ha diritto di essere garantito dal locatore ai sensi dell’art. 1585 c.c., può essere anche realizzata dal comportamento del terzo volto a contraddire il diritto del conduttore al pieno godimento della cosa attraverso una menomazione materiale del bene che ne limiti il godimento e dimostri, al contempo, la volontà di contestare il diritto del locatore contrapponendovi un diritto proprio (Cass., 3, n. 13774 del 20/12/1991; Cass., 3 n. 11514 del 9/5/2008). Sicchè il primo motivo di ricorso deve essere rigettato.
Con un secondo motivo denuncia l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, con riguardo alla statuizione, contenuta nell’impugnata sentenza, secondo cui sussiste un preteso obbligo del locatore nei confronti del conduttore di garantirlo da comportamenti del condominio in grado di incidere sul godimento della cosa. Al di là di mere dichiarazioni di intenti non vi sarebbe alcuna prova dell’obbligo del locatore di garantire il godimento dell’area antistante il locale. La Corte d’Appello avrebbe violato le norme sull’onere della prova nel prescindere dalla dimostrazione, il cui onere incombeva sulla parte interessata a far valere in giudizio le relative pretese, dell’esistenza di un obbligo del locatore circa la garanzia del pacifico godimento, da parte del conduttore, delle aree comuni. Peraltro, il Giudice non ha tenuto in considerazione la mancanza di una prova circostanziata del danno e la circostanza che l’attività del L. era comunque cessata alla data del 31/12/1991. Il motivo è infondato nella prima parte per le ragioni espresse nell’esame del primo motivo, inammissibile nella parte in cui richiede un diverso apprezzamento dei fatti, rimesso esclusivamente al giudice di merito e correttamente e congruamente motivato.
Conclusivamente il ricorso è rigettato, con ogni conseguenza sulle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, e sul raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2.000 (oltre 200 per esborsi), accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto dell’esistenza dell’obbligo da parte del ricorrente di pagare una somma corrispondente a quanto versato per il ricorso principale a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 19 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2018

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Ribadisce la Corte di Cassazione, con ordinanza 2 marzo 2018, n. 4913 che, in tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone, cioè a dire il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita, costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell’ipotesi in cui l’autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore in riferimento al canone dovuto a norma dell’art. 1578, primo comma, cod. civ., per ripristinare l’equilibrio del contratto, turbato dall’inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata. Tale norma, infatti, non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti.

Qui di seguito il testo della decisione

Corte di cassazione, Sez. III civ. ordinanza 2 marzo 2018, n. 4913
Svolgimento del processo

La …………. s.r.l. ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli che, rigettando l’appello e confermando la sentenza del Tribunale di Benevento, ha consolidato la pronuncia di primo grado di risoluzione del contratto di locazione intercorso con ……… s.r.l., di condanna della ………. al rilascio dell’immobile e al pagamento della somma di Euro 119.247,45 e di Euro 7.428,43 a titolo di canoni di locazione fino alla riconsegna dell’immobile, oltre interessi. All’origine del giudizio la ………… agì con sfratto per morosità nei confronti di ……… che si era sottratta al pagamento dei canoni di locazione per l’importo totale di Euro 110.247,45 pari a 15 mensilità e al pagamento del deposito cauzionale e della metà dell’imposta di registro.

La…………  costituendosi in giudizio, rappresentò che gli immobili erano pieni di rifiuti tossici sicchè il proprio inadempimento trovava causa e giustificazione nell’assai più grave inadempimento della locatrice, responsabile anche dei danni provocati dal mancato esercizio dell’attività di impresa. Il Tribunale di Benevento accolse la domanda, dichiarò risolto il contratto di locazione per grave inadempimento del conduttore, condannando ….al rilascio dell’immobile e al pagamento dei canoni.
Avverso la sentenza la ……….propose appello reiterando l’eccezione di inadempimento, dal momento che l’immobile non era idoneo all’uso pattuito. La Corte d’Appello ha rigettato il gravame in base all’argomento che al conduttore non è consentito astenersi dal versare il canone di locazione o di ridurlo unilateralmente anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore, atteso che la sospensione è legittima solo quando viene a mancare la controprestazione del locatore e non anche in presenza di un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni. Il conduttore avrebbe dovuto agire con la garanzia per i vizi al fine di ottenere la risoluzione del contratto o la riduzione del corrispettivo essendo devoluta al Giudice la valutazione dello squilibrio tra le prestazioni. La società conduttrice sarebbe stata inoltre ben consapevole dello stato dell’immobile avendo dichiarato di trovarlo idoneo all’uso convenuto. La CTU ha poi confermato la presenza di rifiuti tossici mentre la società conduttrice ha esonerato il locatore da ogni obbligo anche in relazione all’adeguamento degli impianti ed ha accettato lo stesso nelle condizioni in cui si trovava. Vi era sicuramente una causa ostativa all’accoglimento dell’eccezione di inadempimento contrattuale.
Avverso la sentenza d’appello la …………….. propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo illustrato da memoria. Resiste la ………. s.r.l. con controricorso. Il P.G. ha depositato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso denuncia la violazione ex art. 360, comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: corrispondente ai diversi lavori accollati dal conduttore rispetto ai pretesi obblighi contrattuali.
Ad avviso della ricorrente la conduttrice si sarebbe accollata una serie di obbligazioni proprie della parte locatrice ed avrebbe legittimamente rifiutato di pagare il canone a fronte dell’inesistente prestazione della locatrice. La conduttrice si sarebbe trovata di fronte ad un aliud pro alio, e la società locatrice si sarebbe trovata a far fronte ad un’attività di bonifica ambientale. L’inerzia serbata dalla società locatrice avrebbe, pertanto, legittimato il conduttore all’eccezione di inadempimento, fondata sull’inesistenza del sinallagma. Anche laddove vi fosse stato un inadempimento di Allmetek rispetto agli obblighi contrattuali assunti, giammai Sofab avrebbe potuto chiedere ed ottenere il pagamento dei canoni, in ragione dell’impossibilità di disporre dell’immobile all’uso convenuto. L’immobile a rischio crollo, contaminato da fibre di amianto e da rifiuti tossici frammisti a materiali ferrosi e residui di demolizione i non era certamente in condizioni di poter accogliere l’attività contrattualmente pattuita.
Il motivo è infondato. La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere che il sinallagma proprio del rapporto locativo non consente al conduttore di sospendere il pagamento del canone; infatti la sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è legittima solo qualora venga completamente a mancare la controprestazione (Cass., 3, n. 10639 del 26/6/2012: ” In tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone (e, cioè, il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita) costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell’ipotesi in cui detta autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore in riferimento al canone dovuto a norma dell’art. 1578 c.c., comma 1, per ripristinare l’equilibrio del contratto, turbato dall’inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata. Tale norma, infatti, non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti”) Peraltro il conduttore, nonostante abbia continuato a denunziare per iscritto l’estrema gravità dei vizi riscontrati nell’immobile locato lo ha lasciato solo a distanza di oltre un anno dall’ordinanza provvisoria di rilascio, ha perciò continuato ad occuparlo nè può dirsi che la sospensione dei pagamenti sia scaturita da fatti nuovi. La sentenza impugnata è pienamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la sospensione unilaterale del pagamento dei canoni di locazione costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore che altera il sinallagma contrattuale e determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti per effetto di un’unilaterale ragione fattasi dal conduttore che, perciò configura inadempimento colpevole all’obbligo di adempiere esattamente e puntualmente al contratto stipulato ovvero all’obbligazione principale del conduttore.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con le conseguenze sulle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo e sul raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 6000 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto dell’esistenza dell’obbligo da parte del ricorrente di pagare una somma corrispondente a quanto versato per il ricorso principale a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2017.
Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2018

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[:it]La mancata registrazione del contratto di locazione di immobili, ad uso abitativo o come nella specie ad uso diverso da abitazione è causa di nullità dello stesso. Il contratto non registrato in toto, contenente l’indicazione del reale corrispettivo della locazione, è infatti “sconosciuto” all’Erario dal punto di vista fiscale ed è nullo dal punto di vista civilistico in virtù della testuale previsione di cui all’art. 1, comma 346, della legge finanziaria 2005, che ricollega la sanzione di invalidità al comportamento illecito alla violazione dell’obbligo di registrazione, trattandosi di prescrizione non avente esclusivo carattere tributario bensì regola di diritto civile, comminante una speciale nullità nei rapporti tra privati. Trattandosi di nullità essa è pertanto rilevabile anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio.

Così si è recentemente espressa la Corte di cassazione, Sez. III civ. ordinanza 9 marzo 2018, n. 565

Qui di seguito il testo del provvedimento:

 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 17/9/2015 la Corte d’Appello di Milano, rigettato quello in via principale spiegato dalla società …………. s.r.l., in accoglimento del gravame in via principale interposto dall’Istituto Suore ……………………………..e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib. Milano 10/12/2013, ha accolto – per quanto ancora d’interesse in questa sede – la domanda da quest’ultimo nei confronti della prima proposta di pagamento dei canoni arretrati relativi al contratto di locazione tra di essi intercorso avente ad oggetto immobile sito all’interno della Clinica …………….. sito in …………., già dichiarato risolto dal giudice di prime cure. Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la società………… s.r.l. propone ora ricorso per cassazione affidato a 3 motivi.

Resiste con controricorso l’Istituto Suore ………………….
Motivi della decisione
Con il 2 motivo la ricorrente denunzia “violazione o falsa applicazione” degli artt. 112, 115, 132 c.p.c., artt. 1367, 1418, 1421, L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. Si duole che la corte di merito abbia omesso di pronunziare in merito alla “mancata produzione in atti delle certificazioni dell’avvenuta registrazione”, conseguentemente non accogliendo la domanda di annullamento e/o riforma dell’impugnata sentenza di 1^ grado. Il motivo, che va previamente esaminato in quanto logicamente prioritario, è fondato e va accolto nei termini di seguito indicati. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la mancata registrazione del contratto di locazione di immobili, ad uso abitativo o come nella specie ad uso diverso da abitazione è causa di nullità dello stesso (v. Cass., Sez. Un., 9/10/2017, n. 23601). Il contratto non registrato in toto, contenente l’indicazione del reale corrispettivo della locazione, è infatti “sconosciuto” all’Erario dal punto di vista fiscale ed è nullo dal punto di vista civilistico in virtù della testuale previsione di cui all’art. 1, comma 346, Legge Finanziaria 2005, che ricollega la sanzione di invalidità al comportamento illecito alla violazione dell’obbligo di registrazione, trattandosi di prescrizione non avente esclusivo carattere tributario bensì di regola di diritto civile, comminante una speciale nullità nei rapporti tra privati (sia pure per effetto di una violazione di carattere tributario) (v. Cass., Sez. Un., 9/10/2017, n. 23601). Trattandosi di nullità essa è pertanto rilevabile (anche) d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio. Orbene, nell’affermare che “quanto al merito, l’errore in cui sarebbe incorso il primo giudice per essersi pronunciato su un’eccezione mai sollevata dall’attuale appellante è in realtà ininfluente ai fini della decisione impugnata, atteso che l’appellante non ha contestato… l’esistenza e la validità del contratto, e quindi la pronuncia di risoluzione, che tale validità presuppone”, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza invero disatteso il suindicato principio. Della medesima, assorbiti gli altri motivi, va pertanto disposta la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo del suindicato disattesoprincipio applicazione. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il 2^ motivo, assorbiti gli altri. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2017. Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018

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[:it]downloadLe Sezioni Unite ritornano sull’annosa questione della (in)validità del contratto di locazione immobiliare di cui sia stata omessa la registrazione.

Il primo grado di giudizio

La vicenda trae origine dall’intimazione di sfratto per morosità, con contestuale citazione per la convalida, notificato dalla proprietaria di due immobili concessi in locazione ad uso commerciale ad una società con contratto del 20 ottobre 2008, registrato in data 4 novembre 2008, nel quale le parti avevano convenuto la sua efficacia retroattiva al 1° maggio dello stesso anno. La locatrice lamentava altresì il ritardato pagamento di due canoni nonché il mancato pagamento del maggior prezzo convenuto inter partes con un c.d. “atto integrativo” del contratto di locazione, registrato in data 22 gennaio 2009, in cui venivano indicati due diversi canoni, entrambi superiori a quelli risultanti nel contratto registrato:

  • un primo, pari ad € 5.500,00, definito “reale ed effettivo”, “…che avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso che una o entrambe le parti avessero proceduto alla registrazione dell’accordo integrativo”;
  • il secondo, ridotto rispetto al primo ma maggiorato rispetto al prezzo indicato nel contratto registrato, “…sarebbe stato corrisposto dal conduttore nell’ipotesi di omessa registrazione del medesimo accordo…”.

Si costituiva in giudizio la conduttrice contestando la validità dell’accordo integrativo per violazione dell’art. 79, L. n°392/1978, oltre che tardivamente registrato.

Il giudice di primo grado, rigettata l’istanza ex art. 655 c.p.c., dopo aver disposto il mutamento del rito, statuiva che:

  • era esclusa l’inefficacia del contratto per intempestiva registrazione;
  • era da considerarsi nulla la pattuizione aggiuntiva “…in quanto contenente la illegittima previsione di un aumento automatico del canone…”;
  • a seguito dell ritardo del pagamento di due canoni, espressamente previsto contrattualmente quale causa di risoluzione, dichiarava risolto il contratto di locazione

Il giudizio dinnanzi alla Corte d’Appello

La conduttrice, impugnava detta sentenza:

  • rilevando che il ritardo nei pagamenti dei due canoni era ascrivibile all’istituto bancario, in quanto la stessa avrebbe tempestivamente disposto i bonifici, i quali, tuttavia, sarebbero stati accreditati dall’istituto oltre il termine contrattualmente previsto, invocando pertanto l’operatività dei principi di correttezza e buona fede;
  • chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza, “…previa conferma della validità del (solo) contratto di locazione stipulato il 20 ottobre 2008”.

La Corte d’appello, investita della questione:

  • riteneva, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante e dal Tribunale, che “…la previsione contrattuale aggiuntiva di cui all’art. 2 del patto integrativo – registrato prima dell’introduzione del giudizio e ritenuto efficace dal primo Giudice con motivazione espressa e non censurata – valeva a configurarsi alla stregua di controdichiarazione attestante la simulazione relativa del prezzo, posta in essere per intuibili scopi di elusione fiscale”;
  • osservava che non era configurabile un illecito aumento dei canoni, nullo ex art. 79 L. n°392/78, “…in quanto il complesso regolamento delle rispettive posizioni patrimoniali operato dalle parti conduce(va) a ritenere di essere dinanzi ad un canone di locazione fissato sin da subito in € 5500 mensili: ne fa(ceva) fede il fatto che il contratto sottoscritto il 20 ottobre 2008 facesse retroagire i suoi effetti al primo maggio dello stesso anno, con la previsione di uno sconto in ragione della mancata registrazione dell’effettivo importo contrattuale”;
  • affermava essersi in presenza di “…un contratto sottoposto a condizione sospensiva – pienamente lecita ed anzi imposta – afferente alla misura del canone e legata alla registrazione del contratto reale”;
  • confermava pertanto la risoluzione per inadempimento del contratto di locazione;
  • condannava la società al pagamento delle differenze dovute tra canone corrisposto e quello effettivamente dovuto, pari ad € 5.500,00, in forza della scrittura integrativa.

Il ricorso per cassazione

La conduttrice, non si rassegnava, ricorrendo fino in cassazione. Depositava altresì controricorso la locatrice.

La Corte, investita della questione, si sofferma in particolare sugli effetti di un tardivo adempimento all’obbligo di registrazione del contratto di locazione, alla luce dei recenti interventi normativi.

Le riforme legislative e le interpretazioni giurisprudenziali con riferimento alle locazioni ad uso abitativo

In particolare, la Corte ripercorre nel dettaglio le numerose riforme legislative susseguitesi negli anni soffermandosi preliminarmente su quelle che hanno avuto ad oggetto le locazioni ad uso abitativo:

  • l’art. 13, co. 1, L. 431/98, ai sensi del quale “…è nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione di immobili urbani superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”;
  • l’art. 1, co. 346, L. 311/2004, ai sensi del quale “…i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, essi non sono registrati”;
  • l’art. 3, commi 8 e 9 del d.lgs. 23/2011, il quale, ancorché non più vigente in quanto dichiarato incostituzionale per eccesso di delega, prevedeva “…un particolare regime in caso di omessa o tardiva registrazione del contratto di locazione, nonché in caso di registrazione di un contratto di comodato fittizio e di una locazione recante un canone inferiore rispetto a quello realmente pattuito: la durata del rapporto avrebbe dovuto essere legalmente rideterminata in quattro anni rinnovabili decorrenti dal momento della registrazione tardiva e il canone annuale veniva predeterminato nella misura del triplo della rendita catastale dell’immobile, ove inferiore a quella pattuita…”;
  • l’art. 1, comma 59, L. 208 del 28 dicembre 2015, il quale, recependo il contenuto del d.lgs. 23/2011, ha novellato l’art. 13 della l. 431/98, introducendo le seguenti significative modifiche: – al comma 5, “…il meccanismo di sanzione della mancata registrazione del contratto di locazione mediante la determinazione autoritativa del canone imposto, di cui all’art. 3, comma 8, d.lgs. 23 del 2011…”, nonché la previsione del “…l’obbligo unilaterale in capo al locatore di provvedere alla registrazione del contratto di locazione entro il ‘termine perentorio di trenta giorni’ (comma 1, secondo periodo) stabilendo che, in caso di inottemperanza a tale obbligo, il conduttore possa chiedere al giudice di accertare la esistenza del contratto e rideterminarne il canone in misura non superiore al valore minimo di cui al precedente art. 2”.

Una volta chiarita l’esistenza della “sanzione testuale della nullità conseguente alla omessa registrazione…”, la Corte si interroga sulla sanabilità (o meno) del negozio attraverso la tardiva registrazione, alla luce dell’art. 1423 c.c., che dispone che “…il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente”.

La Corte, dopo aver ripercorso la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, confermando l’orientamento di cui alla sentenza n°18213/2015 delle stesse SS.UU. in punto di locazioni ad uso abitativo, affermano:

  • che “…la nullità prevista dall’art. 13, comma 1, della l. n. 431 del 1998 sanziona esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, oggetto di un procedimento simulatorio, mentre resta valido il contratto registrato e dovuto il canone apparente”;
  • tale patto occulto “…in quanto nullo, non è sanato dalla registrazione tardiva, vicenda extranegoziale inidonea ad influire sulla testuale (in)validità civilistica…”;
  • non la mancata registrazione dell’atto recante il prezzo reale …, ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, espressamente sanzionata di nullità, è colpita dalla previsione legislativa, secondo un meccanismo del tutto speculare a quello previsto per l’inserzione automatica di clausole in sostituzione di quelle nulle: nel caso di specie, l’effetto diacronico della sostituzione è impedito dalla disposizione normativa, sì che sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell’intero contratto”;
  • Detta invalidità negoziale assume i connotati della nullità virtuale “…attesa che la causa concreta del patto occulto, ricostruita alla luce del precedente procedimento simulatorio, illecita perché caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale e, quindi, insuscettibile di sanatoria…”.

L’applicabilità dei suddetti principi anche alle locazioni non abitative

La Suprema Corte afferma la piena applicabilità dei suddetti principi anche alle locazioni non abitative, e ciò nonostante manchi per le locazioni non abitative “…una norma espressa che sancisca la nullità testuale del patto di maggiorazione del canone, come invece espressamente previsto dall’art. 13 della legge 492/1998”:

  • alla luce della chiara lettera della disposizione normativa, che “…non solo ha reiterato la qualificazione del vizio in quegli stessi termini di nullità già utilizzati dall’art. 13 L. n. 431 del 1998 con riferimento alle sole locazioni ad uso abitativo, ma ne ha anche ampliato l’incidenza, estendendola a tutti i contratti di locazione, e altresì riferendola all’intero contratto e non soltanto al patto occulto di maggiorazione del canone”;
  • alla luce del dictum della Corte costituzionale, a mente del quale “…a mente del quale l’art. 1, comma 346 eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Ad avviso della Suprema Corte:

  1. si è in presenza di una nullità riguardante “…l’intero contratto(e non per il solo patto controdichiarativo), in conseguenza non già di un vizio endonegoziale, ma (della mancanza) di un requisito extraformale costituito dall’omissione della registrazione del contratto…”;
  2. il contratto di locazione ad uso non abitativo (non diversamente, peraltro, da quello abitativo), contenente ab origine la previsione di un canone realmente convenuto e realmente corrisposto (e dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell’art. 1, comma 346, I. n. 311 del 2004, ma, in caso di sua tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, sanabile, volta che il riconoscimento di una sanatoria “per adempimento” appare coerente con l’introduzione nell’ordinamento di una nullità (funzionale) “per inadempimento” (entrambi i termini da intendersi, come ovvio, in senso diverso da quello tradizionalmente riservato al momento esecutivo del rapporto negoziale);
  3. detto effetto sanante “…è destinato a retroagire alla data della conclusione del contratto”.

La Corte, da ultimo, si interroga sull’applicabilità dei suddetti principi al caso di specie, “…e cioè all’ipotesi in cui la fattispecie concreta sia costituita da un accordo simulatorio cui consegua non già la tardiva registrazione dell’intero contratto che preveda, ab origine, la corresponsione del canone reale, ma quella del solo patto dissimulato (raccordo integrativo” del caso di specie) volto ad occultare un canone maggiore, dopo che il contratto contenente il canone simulato sia stato a sua volta e previamente registrato, sulla premessa per cui la sanatoria da tardiva registrazione elimina soltanto la nullità (testuale) sopravvenuta, lasciando impregiudicata la sorte del contratto qual era fino alla violazione dell’obbligo di registrazione (inidonea a spiegare efficacia sanante su di una eventuale nullità da vizio genetico)”.

Ad avviso della giudici transtiberini, infatti, si devono distinguere due ipotesi:

  • quella della “totale omissione della registrazione del contratto contenente ab origine l’indicazione del canone realmente dovuto (in assenza, pertanto, di qualsivoglia procedimento simulatorio)…”;
  • quella “…di simulazione del canone con registrazione del solo contratto simulato recante un canone inferiore, cui acceda il cd. “accordo integrativo” con canone maggiorato (ipotesi alla quale potrebbe ancora aggiungersi quella della mancata registrazione dello stesso contratto contenente il canone simulato, oltre che del detto accordo integrativo)”.

A ciò consegue che nell’ipotesi sub 1), di contratto in toto non registrato, è lo stesso legislatore a ricollegare la sanzione dell’invalidità al comportamento illecito del locatore, consistente nella mancata registrazione del contratto;

L’ipotesi sub 2), “…di un contratto debitamente registrato, contenente un’indicazione simulata di prezzo, cui acceda una pattuizione a latere (di regola denominata “accordo integrativo”, come nel caso di specie), non registrata e destinata a sostituire la previsione negoziale del canone simulato con quella di un canone maggiore rispetto a quello formalmente risultante dal contratto registrato…”, invece:

  • dovrà invece essere ricondotta all’istituto della simulazione, conformemente a quanto affermato dalle SS.UU. del 2015 con riferimento alle locazioni ad uso abitativo;
  • “…lafattispecie della simulazione (relativa) del canone locatizio risulta affetta da un vizio genetico, attinente alla sua causa concreta, inequivocabilmente volta a perseguire lo scopo pratico di eludere (seppure parzialmente) la norma tributaria sull’obbligo di registrazione dei contratti di locazione”;
  • a seguito dell’elevazione della norma tributaria a norma imperativa, pertanto, la convenzione negoziale deve essere ritenuta “…intrinsecamente nulla, oltre che per essere stato violato parzialmente nel quantum l’obbligo di (integrale) registrazione, anche perché ab origine caratterizzata da una causa illecita per contrarietà a norma imperativa (ex art. 1418, comma 1, c.c.), tale essendo costantemente ritenuto lo stesso articolo 53 Cost. – la cui natura di norma imperativa (come tale, direttamente precettiva) è stata, già in tempi ormai risalenti, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5 del 1985; Cass. ss. uu. n. 6445 del 1985)…”;
  • essendo detta nullità qualificabile come nullità virtuale a ciò consegue la sua insanabilità in quanto derivante “…non dalla mancata registrazione (situazione suscettibile di essere sanata con il tardivo adempimento), ma, a monte, dall’illiceità della causa concreta del negozio, che una tardiva registrazione non appare idonea a sanare”.

La sorte del contratto di locazione regolarmente registrato e contenente l’indicazione del canone simulato

Ciò chiarito, la Corte si interroga sulla sorte del contratto di locazione regolarmente registrato e contenente l’indicazione del canone simulato.

A riguardo la Corte preliminarmente richiama la soluzione offerta dalle SS.UU. del 2015 con riferimento ai contratti ad uso abitativo, ad avviso del quale, la sanzione della nullità prevista dall’art. 13, comma I, della legge n°431/1998 “…colpisse non la mancata registrazione dell’atto recante il prezzo reale (attesane la precipua funzione di controdichiarazione), ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, sicché “sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell’intero contratto”.

La Corte, successivamente, interpretando l’art. 79 della legge 392/1978 quale speculare all’art. 13 della legge n°431/1998, afferma che “se in caso di omessa registrazione del contratto contenente la previsione di un canone non simulato ci si trova di fronte ad una nullità testuale ex art. 1, comma 346, I. n. 311/2004, sanabile con effetti ex tunc a seguito del tardivo adempimento all’obbligo di registrazione, nel caso di simulazione relativa del canone di locazione, e di registrazione del contratto contenente la previsione di un canone inferiore per finalità di elusione fiscale, si é in presenza, quanto al cd. “accordo integrativo”, di una nullità virtuale insanabile, ma non idonea a travolgere l’intero rapporto – compreso, quindi, il contratto reso ostensibile dalle parti a seguito della sua registrazione”;

Conseguentemente, “il patto di maggiorazione del canone è nullo anche se la sua previsione attiene al momento genetico, e non soltanto funzionale, del rapporto”.

Le conclusioni della Corte

Ad avviso della Corte una tale conclusione:

  • ha l’effet util di ricondurre ad unità la disciplina della nullità e della (eventuale) sanatoria di tutti i contratti di locazione, abitativi e non;
  • giustifica una sanzione più grave (nullità insanabile) rispetto a quella prevista per l’omessa registrazione dell’intero contratto (sanabile), congrua rispetto al comportamento posto in essere nelle due ipotesi (“…vizio genetico e voluto da entrambe le parti nel primo caso, un inadempimento successivo alla stipula di un contratto geneticamente valido, nel secondo caso”).

«(A) La mancata registrazione del contratto di locazione di immobili è causa di nullità dello stesso;

 (B) Il contatto di locazione di immobili, quando sia nullo per (la sola) omessa registrazione, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza ex tunc, nel caso in cui la registrazione sia effettuata tardivamente;

(C) E’ nullo il patto col quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato; tale nullità vitiatur sed non vitiat, con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone risulterà insanabilmente nullo, a prescindere dall’avvenuta registrazione[:]

[:it]Immagine correlataAfferma la terza Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza 13 giugno 2017 n. 14625,  che, in tema di sfratto per morosità alla cui convalida l’intimato si sia opposto, qualora il giudice erroneamente, anziché adottare i provvedimenti di cui agli artt. 665 e 667 c.p.c., emetta ordinanza di convalida, questa assume natura decisoria e contenuto sostanziale di sentenza e l’impugnazione deve essere proposta con l’appello. Con tale atto l’intimato può chiedere di essere rimesso nei termini per espletare l’attività difensiva che non gli è stata consentita in primo grado, fermo restando che il giudice d’appello deciderà la controversia nel merito, giacché l’omissione del mutamento di rito non integra alcuna delle ipotesi tassativamente previste dagli artt. 343 e 354 c.p.c. per la rimessione della causa al primo giudice

Il caso in esame: un locatore intimava sfratto per morosità da un locale, da lui concesso in locazione per uso diverso ad una conduttrice, la quale a sua volta aveva ceduto l’azienda e con essa il contratto di locazione ad un altro conduttore. Quest’ultimo si era reso moroso nel pagamento di alcune mensilità. Il conduttore moroso si opponeva alla convalida di sfratto proposto dinnanzi alla sezione distaccata del Tribunale territorialmente competente. Successivamente, a seguito della soppressione della sezione distaccata, gli atti del processo in questione venivano trasferiti alla sede centrale del Tribunale, il quale all’udienza fissata ed in assenza del conduttore moroso, convalidava lo sfratto.

L’intimato allora proponeva appello avverso l’ordinanza di convalida di sfratto eccependone la nullità per non essere stato avvisato dell’udienza all’uopo fissata dal Tribunale adito dopo la soppressione della sezione distaccata innanzi alla quale era stata originariamente incardinata la causa.
La Corte di appello adita dichiarava con sentenza la nullità dell’ordinanza di convalida dello sfratto osservando che la stressa era stata emessa in difetto dei relativi presupposti; tuttavia, entrando nel merito della controversia, accoglieva la domanda di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore.

L’intimato proponeva allora ricorso per Cassazione, denunciando violazione del diritto di difesa ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e riguardante la mancata comunicazione della data di rinvio dell’udienza celebratasi innanzi al Tribunale in sede centrale ma senza successo.

Ad avviso della III^ Sezione della Cassazione la Corte territoriale aveva correttamente deciso la causa nel merito. L’intimato avrebbe potuto richiedere, tuttalpiù, al giudice di secondo grado di essere rimesso in termini per espletare l’attività difensiva che gli era stata impedita in primo grado per via dell’errore che ha condotto all’annullamento del provvedimento appellato.

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