Il Tribunale di Castrovillari, con sentenza del 13 maggio 2024, n. 872 si è pronunciato su una delicata controversia avente ad oggetto la richiesta di risarcimento avanzata dalla proprietaria-locatrice in danno della conduttrice avente ad oggetto i danni conseguenti ad un incendio che aveva distrutto il capannone oggetto del contratto di locazione.

Ad avviso di parte attrice sussisterebbe “…una presunzione di responsabilità in capo al conduttore per i danni derivanti da incendio, sulla base dell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale ex art. 1588  cod. civ., il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, pone indi una presunzione di colpa a carico del conduttore, superabile soltanto con la dimostrazione che la causa dell’incendio, identificata in modo positivo e concreto, non sia a lui imputabile, onde, in difetto di tale prova, la causa sconosciuta o anche dubbia della perdita o del deterioramento della cos a locata rimane a suo carico”.

Ad avviso della conduttrice, invece, non sussisterebbe alcuna sua responsabilità:

  • essendosi trattato di incendio doloso;
  • essendo la conduttrice stata assolta in sede penale;
  • in quanto vi sarebbe in ogni caso incertezza sulla causa di innesco dell’incendio.

Il Tribunale, accoglie la domanda attorea, chiarendo con un condivisibile iter argomentativo:

  • che l’art. 1588 c.c. prevede che “Il conduttore risponde della perdita e del deterioramento 1592 comma 2 della cosa che avvengono nel corso della locazione, anche se derivanti da incendio 1611, qualora non provi che siano accaduti per causa a lui non imputabile 1218 ss., 1256 ss., 2281“;
  • che “Il presupposto della responsabilità ex 1588 c.c. è la sussistenza di un rapporto di locazione, e dunque di custodia sul bene, essendo prevista la presunzione di responsabilità in capo al conduttore per i danni derivanti dall’incendio (Cass. Civ., Sez. 3, Sentenza n. 15721 del 27/07/2015 ). In altre parole, è necessaria la prova del rapporto di custodia, in quanto, come sottolineato nella giurisprudenza di merito “La norma invocata (art. 1588  c.c.) è collocata immediatamente dopo l’art. 1587  c.c. disciplinante le obbligazioni del conduttore, tra le quali rientra, in virtù della disponibilità materiale del bene che si acquista per effetto del rapporto locatizio, anche quella accessoria di custodia del bene stesso” (Corte appello Reggio Calabria, sez. I, 07/02/2022, n. 101; D.). Pertanto, affinchè possa trovare applicazione la presunzione di responsabilità prevista nella norma citata, è necessaria la prova che i fatti si siano verificati nell’immobile posto sotto la custodia del conduttore. Detto elemento, nel caso di specie, è pacifico, essendo accertato che l’incendio si sia originato nella porzione di immobile post o sotto la custodia di parte convenuta”.
  • che, nel caso di specie, ancorchè “la causa dell’incendio non è stata individuata con certezza dalle autorità, tuttavia sussistono elementi sufficienti atti a comprovare con serio grado di probabilità che l’incendio si sia propagato a partire dall’area posta nella disponibilità e sotto la custodia di parte convenuta, con conseguente applicabilità, a suo carico, della presunzione di cui all’ 1588 c.c.”;
  • che in ogni caso “…non è sufficiente che il conduttore non sia stato ritenuto responsabile in sede penale, (reato prescritto) perché ciò non comporta di per sé l’identificazione della causa, ma occorre che questa sia nota e possa dirsi non addebitabile al conduttore” ( Civ., Sez. 3, Sentenza n. 11972 del 17/05/2010) e ciò in quanto “…in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41  cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (Cass. Civ., Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 08/07/2010).

Negli ultimi anni si sono registrate molteplici pronunce dei Tribunali di tutta Italia, originate dai ricorsi di genitori contrari alla presenza di immagini e video dei minori sui social, pubblicate dall’ex partner.

Ne è un chiaro esempio l’ordinanza del 30 agosto 2021 con cui il Tribunale di Trani – pronunciandosi in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato da un padre al fine di veder inibita la pubblicazione di immagini della figlia sul noto social network “Tik Tok” per mano (o meglio click) dell’ex moglie – ha giudicato ammissibile il reclamo e illegittima la condotta materna, alla luce della mancata contestazione della condotta addebitatale nonché della mancata prova del consenso paterno (non desumibile, ad avviso della Corte, dalla possibilità per il ricorrente di controllare e/o accedere al profilo dell’ex moglie):

  • condannando la madre della minore “…alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore … , inseriti su social networks, comunque denominati”;
  • inibendo “…dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso del padre”;
  • determinando “ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima”.

Ad avviso del Tribunale pugliese, infatti, la pubblicazione di video ed immagini di minori senza il consenso dell’altro genitore integra la “….violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali” ed in particolare:

  • dell’art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), che recita: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”;
  • del combinato disposto dell’art. 1 e dell’art. 16 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 1991 che prevedono rispettivamente:
    • l’art. 1 l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto;
    • l’art. 16 che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti“);
  • l’art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018)che considera l’immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.lgs. n. 196 del 2009 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633 del 1941)”;
  • l’art. 2 quinquies del D.lgs. n°101/2018 che recita: “il minore che ha compiuto i quattordici anni può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione. Con riguardo a tali servizi, il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a quattordici anni, fondato sull’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), del Regolamento, è lecito a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale”.

In merito da ultimo al requisito del periculum, il collegio, richiamando la nota pronuncia del 19 settembre 2017 del Tribunale civile di Mantova, ha condivisibilmente rilevato come “…il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network” e ciò in quanto “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati.

Quanto sopra è stato del resto ribadito in modo pressoché unanime nel corso degli anni da diverse autorità giudiziarie, tra cui il Tribunale civile di Rieti e di Mantova.

In particolare, il Tribunale laziale, con ordinanza del 7 marzo 2019, è giunto alle medesime conclusioni del Tribunale pugliese, affermando:

  • la sussistenza del requisito del fumus boni iuris, alla luce dell’illiceità del trattamento dei dati personali del minore di anni 14 in mancanza del consenso di chi esercita sullo stesso la responsabilità genitoriale, così come disposto dal già citato art. 2 quinques del Codice Privacy;
  • la sussistenza del requisito del periculum in mora, “…atteso che l’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet” e ciò in quanto “Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”;
  • la possibilità di richiedere altresì l’applicazione dell’astreinte ex art. 624 bis c.p.c., ritenuta “…pienamente giustificata dall’esigenza di tutelare l’integrità dei minori e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonchè, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti”.

La polizza vita a favore di un terzo è un contratto assicurativo che prevede come beneficiario una terza persona che non sia il contraente della polizza vita.

Il beneficiario dell’assicurazione vita in questo caso prevede l’inserimento di una terza persona che non sia il contraente stesso e che può essere un familiare o un soggetto a cui voler lasciare il bene designato in fase di stipula.

In realtà c’è la facoltà da parte di chi stipula la polizza vita di effettuare in un momento successivo la designazione di un beneficiario differente anche per comunicazione scritta all’assicuratore, così come esiste la facoltà (prevista nell’art. 1921 c.c., comma 1), di revocare, anche per via testamentaria, la designazione del terzo beneficiario, nonostante il terzo abbia dichiarato di volerne beneficiare.

Purtuttavia, anche rispetto all’esercizio di tale residuale facoltà di revoca del beneficio da parte dell’assicurato, la legge indica un ampio margine di autonomia per il disponente a favore del beneficiario designato, posto che è prevista la rinuncia preventiva a detta facoltà ex art. 1921 c.c., comma 2, accompagnata dalla dichiarazione del beneficiario di volerne profittare, con comunicazione per iscritto da inviarsi all’assicuratore.

La rinuncia alla facoltà di revoca del beneficiario, pertanto, ha l’effetto di cristallizzare nel tempo il diritto del beneficiario e, certamente, neutralizza ogni diversa disposizione da parte del contraente, stabilizzando l’attribuzione del beneficio in capo alla persona designata che ne ha voluto profittare sino all’eventus mortis del disponente.

Quanto alla natura del negozio di rinuncia al potere di revoca del beneficio da parte del disponente, la dottrina maggioritaria lo definisce quale atto unilaterale inter vivos, recettizio nei confronti del solo promittente; altra parte, minoritaria, lo considera come un negozio bilaterale tira stipulante e terzo, esterno al contratto a favore di terzo anche nei confronti del solo promittente, che si pone in deroga ai patti successori, e dunque costituisce norma eccezionale insuscettibile di interpretazione analogica. In questo dibattito traspare che ciò che non è pacifico in dottrina è il momento in cui, con tale atto di rinuncia, si perfeziona il definitivo acquisto del beneficio da parte del terzo, con accettazione del beneficiario, data la natura irrevocabile della disposizione.

Tale questione si rivelata determinante per dirimere il caso di specie, proprio in relazione all’intervenuta premorienza della beneficiaria che, fino a prova contraria, era stata designata con atto divenuto irrevocabile per espressa rinuncia della facoltà di revoca, posto che i ricorrenti avevano assunto di essere succeduti al beneficio, divenuto irrevocabile per volontà del contraente, per successiva disposizione testamentaria della beneficiaria.

Difatti, l’ipotesi di premorienza del beneficiario è espressamente disciplinata nell’art. 1412 c.c., comma 2, che nel contratto a favore di terzo dispone il trasferimento agli eredi del beneficiario in caso di sua premorienza, fatto salvo l’esercizio della facoltà di revoca (in grado pertanto di impedire tale trasmissione) o altra diversa disposizione.

La Suprema Corte, con la sentenza 9948 pubblicata il 15 aprile 2021, si è dunque interrogata, chiedendosi se la regola riferita al contratto a favore di terzo, ma non parimenti richiamata nella disciplina del contratto di assicurazione della vita, potesse valere per il contratto de quo, rispondendo al quesito in maniera affermativa ed enunciando il seguente principio di diritto: «la disposizione di cui all’art. 1412 c.c., comma 2, in base alla quale, con riferimento al contratto a favore del terzo, la prestazione al terzo, dopo la morte dello stipulante, deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purchè il beneficio non sia revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente, si applica anche al contratto di assicurazione sulla vita. Ne consegue che, qualora in detto contratto il terzo beneficiario premuoia al disponente (e non ricorrano le dette due evenienze), non si può ritenere che il diritto a suo favore non sia sorto in quanto condizionato alla morte del disponente. Nel detto contratto la morte del disponente non è, infatti, evento condizionante la nascita del diritto alla prestazione, ma evento che determina solo la sua esigibilità, e ciò a prescindere dal motivo intuitu personae o previdenziale sottostante alla designazione del beneficiario».

In altre parole, se il beneficiario di un’assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione dell’assicuratore deve essere eseguita (quando il contraente muore) a favore degli eredi del beneficiario, purché la disposizione a favore del terzo beneficiario premorto non sia stata revocata oppure il contraente abbia diversamente disposto.

Avv. Claudia Romano

[:it]Brown and black concrete building under white clouds

Il Tribunale civile di Roma, sez. V^, con la sentenza in oggetto, ha chiarito che il termine di 30 giorni per l’impugnazione di una delibera condominiale, di cui all’art. 1137 co. 2° c.c., deve ritenersi interrotto (e non sospeso) dalla proposizione dell’istanza di mediazione, con conseguente sua decorrenza, di nuovo e per intero, dalla data di sottoscrizione del verbale negativo di mediazione.

Il caso

Due condomini evocavano in giudizio il condominio per ottenere l’annullamento di una delibera condominiale. Il condominio, costituitosi in giudizio, eccepiva preliminarmente l’inammissibilità dell’impugnazione in quanto tardivamente proposta ritenendo, erroneamente, che “…a seguito del deposito del verbale negativo di mediazione, il termine ex art. 1137 c.c. riprenda a decorrere per i giorni che rimanevano al momento in cui si è verificata la sospensione”.

Ad avviso di parte convenuta, infatti, “… tra la data della comunicazione del verbale dell’assemblea impugnata (16.10.14) e la data dell’istanza di mediazione (13.11.14) erano trascorsi 27 giorni, e tra la data di deposito del verbale negativo (3.6.15) e quella della notifica della citazione (1.7.15) erano trascorsi altri 28 giorni, superandosi così il termine di 30 giorni fissato dall’art. 1137 c.c.”.

La decisione

Di diverso avviso il Tribunale di Roma, che respinge l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per decadenza ex art. 1137, co. 2, c.c. in quanto:

  • in base al disposto normativo (art. 5 co. 6 del D.Lgs. n. 28 del 2010 laddove afferma che la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed “impedisce” la decadenza) si deve infatti ritenere che si determini un effetto di tipo interruttivo e non sospensivo, per cui il termine per impugnare, dopo il deposito del verbale negativo, è, di nuovo e per intero, quello di trenta giorni previsto dall’art. 1137 co. 2 c.c. (v. Tribunale di Milano, sentenza n. 13360/2016 pubbl. il 02/12/2016 RG n. 17984/2015; Tribunale di Monza, sentenza 65/2016 del 12/1/2016)”;
  • “…la fattispecie costituisce, pertanto, deroga al principio sancito dall’art. 2964 cod. civ., il quale esclude che la decadenza possa essere soggetta alla disciplina interruttiva, invece valevole per la prescrizione e dettata dai precedenti articoli 2934 e ss. cod. civ”..

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[:it]Boy in red and blue crew neck t-shirt standing beside boy in red t-shirt

Da poche settimane è ripresa la scuola in presenza e con essa, aimè, una crescita esponenziale dei contagi da Covid-19.

Ciò ha determinato giustificate preoccupazioni nei dirigenti scolastici, circa le eventuali responsabilità civili, ex art. 2087 c.c., e penali a loro ascrivibili in caso di contagi del personale scolastico o degli alunni nel luogo di lavoro. E ciò in quanto, come noto, sui dirigenti scolastici gravano gli obblighi e i compiti organizzativi individuati dal D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro), a seguito della loro equiparazione ai datori di lavoro, così come chiarita dal Decreto Ministeriale n°292/1996 (rubricato “Individuazione del datore di lavoro negli uffici e nelle istituzioni dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione”).

A seguito dei chiarimenti contenuti nella Circolare Inail del 3 aprile 2020, n. 13, sulla qualificazione di “infortunio sul lavoro” dei casi accertati di contagio in occasione di lavoro, i timori dei dirigenti si sono per giunta accresciuti, ritenendo in molti, erroneamente, che dal conseguente indennizzo erogato dall’INAIL derivasse, sic et simpliciter, una loro responsabilità civile o addirittura penale.

Ciò ha spinto l’INAIL, con nota n°22 del 20 maggio 2020 a chiarire:

  • la necessità di non confondere “…i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail (basti pensare a un infortunio in “occasione di lavoro” che è indennizzato anche se avvenuto per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore), con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative”;
  • che il riconoscimento dell’indennizzo da parte dell’INAIL “…non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del Pubblico Ministero”;
  • che, con riferimento alla responsabilità civile, come recentemente chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con ordinanza n°3282 dell’11 febbraio 2020 “…l’articolo 2087 cod. civ. non configura, infatti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Né può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, neanche potendosi ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psico-fisica del lavoratore, ciò in quanto, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivbilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile […]; non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto”;
  • che, pertanto, la “…responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n.33”.
  • che “…il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero. Circostanza questa che ancora una volta porta a sottolineare l’indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario”.

Ulteriori chiarimenti sono giunti, in seguito, anche dal Ministero dell’Istruzione che, con nota del 20 agosto 2020, a firma del capo dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione:

  • ha ricordato che “…L’articolo 29-bis del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40 ha introdotto una disposizione che limita la responsabilità dei datori di lavoro per infortuni da Covid-19: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati (scil., dirigenti scolastici) adempiono l’obbligo di tutela della salute e sicurezza di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione, l’adozione e il mantenimento delle prescrizioni e delle misure contenute nel Protocollo condiviso dal Governo e dalle parti sociali il 24 aprile 2020”, nonché delle eventuali successive modificazioni, “e degli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano, in ogni caso, le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”;
  • ha chiarito che i “…dirigenti scolastici possono veder escludere ogni timore di una semplicistica, ma errata, automatica corrispondenza tra malattia da Covid-19, infortunio sul lavoro, riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro applicando quanto previsto dal protocollo generale sulla sicurezza siglato in data 6 agosto 2020 e dallo specifico protocollo per i servizi educativi e le scuole dell’infanzia in via di pubblicazione; dal complesso delle disposizioni emanate e raccolte nella pagina https://www.istruzione.it/rientriamoascuola/index.html; dalle eventuali ulteriori disposizioni che il Ministero trasmetterà prontamente e ufficialmente, volte anche a considerare le specificità delle singole istituzioni scolastiche, opportunamente valutate e ponderate dai dirigenti medesimi;
  • ha ricordato che, “…a ulteriore tutela dell’azione dirigenziale, va sottolineato come l’articolo 51 del codice penale esclude la punibilità laddove “l’esercizio del diritto o l’adempimento di un dovere” sia “imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità”.

Si segnala, da ultimo, il recente Protocollo d’intesa del 6 agosto 2020 “per garantire l’avvio dell’anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza per il contenimento della diffusione di Covid-19”, contenente preziose indicazioni volte ad agevolare i D.S. nell’adozione delle misure organizzative anti-contagio da Covid-19, tra cui disposizioni relative:

  • alle modalità di ingresso e uscita;
  • alla pulizia e igienizzazione dei luoghi e delle attrezzature;
  • all’igiene personale e all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale;
  • alla gestione degli spazi comuni;
  • all’uso dei locali esterni all’istituto scolastico;
  • all’eventuale supporto psicologico;
  • alla gestione di una persona sintomatica all’interno dell’istituto scolastico;
  • alla sorveglianza sanitaria e al medico competente.

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[:it]Red and white vintage car on green grass field

La Suprema Corte, con la sentenza in oggetto, ha chiarito che, ai sensi dell’art. 143, comma 3° Cod. Cons. sussiste una presunzione iuris tantum della sussistenza dei difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, già da tale data, salvo che l’ipotesi in questione sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità.

 

I fatti di cui è causa

Una coppia conveniva in giudizio una ditta da cui avevano acquistato un’autovettura usata, lamentando la manifestazione di vizi occulti a distanza di tre mesi dalla consegna, regolarmente denuncianti e non riparati, chiedendo pertanto il rimborso dei costi di riparazione e delle somme corrisposte per il noleggio di un’auto sostitutiva nonché il risarcimento dei danni subiti per il relativo disagio.

Il Tribunale di Larino, tuttavia, rigettava la domanda aderendo alle prospettazioni della convenuta, ad avviso della quale il veicolo, al momento della consegna, sarebbe stato perfettamente funzionante e il vizio sarebbe dipeso da un uso anomalo del mezzo e alla sua carente manutenzione da parte degli attori.

La sentenza veniva confermata anche dalla Corte d’Appello di Campobasso in data 22.6.2017, ad avviso della quale:

  • gli attori avevano provato la presenza dei vizi solo a distanza di tre mesi dalla consegna del veicolo ma non anche al momento della consegna;
  • dalle deposizioni testimoniali era emerso che l’autovettura al momento della vendita fosse perfettamente funzionante;
  • gli attori avevano ammesso un uso eccezionale ed anomalo del mezzo, avendo percorso oltre 140.000 km in pochi mesi.

Il ricorso per cassazione

La coppia, lungi dal darsi per vinta, ricorre sino in Cassazione, lamentando la mancata applicazione della disciplina più favorevole contenuta del codice del consumo in luogo di quella codicistica in punto di compravendita.

La Suprema Corte accoglie il ricorso offrendo i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • il Legislatore ha assegnato un ruolo sussidiario alla disciplina codicistica relativa alla compravendita, applicabile limitatamente a quanto non previsto dalla normativa speciale contenuta nel codice del consumo (art. 128 e segg.);
  • dal combinato disposto degli artt. 129 e ss. cod. cons. e degli artt. 1490 e ss. del codice civile (in tema di garanzia per i vizi dei beni oggetto di vendita) si desume una responsabilità del venditore nei riguardi del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene allorché tale difetto si palesi entro il termine di due anni dalla predetta consegna e lo speculare diritto del consumatore di esperire “…i vari rimedi contemplati all’art.130 cit., i quali sono graduati, per volontà dello stesso legislatore, secondo un ben preciso ordine: costui potrà in primo luogo proporre al proprio dante causa la riparazione ovvero la sostituzione del bene e, solo in secondo luogo, nonché alle condizioni contemplate dal comma 7, potrà richiedere una congrua riduzione del prezzo oppure la risoluzione del contratto”;
  • a tal fine, il consumatore ha l’onere di denunciare al venditore il difetto di conformità nel termine di due mesi decorrente dalla data della scoperta di quest’ultimo;
  • ai sensi dell’art. 143, comma 3° Cod. Cons. sussiste una presunzione iuris tantum che i difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, siano sussistenti già a tale data, salvo che l’ipotesi in questione sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità;
  • a ciò consegue che, “…ove il difetto si manifesti entro tale termine, il consumatore gode di un’agevolazione probatoria, dovendo semplicemente allegare la sussistenza del vizio e gravando conseguentemente sulla controparte l’onere di provare la conformità del bene consegnato rispetto al contratto di vendita”;
  • solo una volta che sia decorso il predetto termine di 6 mesi, è posto nuovamente sul consumatore, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare la presenza ab origine del difetto nel bene.

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[:it]Sofa near table

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, chiarisce che la differenza di tonalità di colore del bene acquistato non integra la fattispecie della vendita aliud pro alio, bensì un difetto di conformità di lieve entità, con conseguente diritto per il consumatore di richiedere, senza spese, il ripristino della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero una riduzione adeguata del prezzo (ai sensi dell’art. 130 del Codice del Consumo) ma non la risoluzione del contratto.

Il caso

Un consumatore ricorreva vittoriosamente al Giudice di Pace di Milano lamentando la consegna di un divano con caratteristiche – tessuto e tonalità di colore – diverse rispetto a quelle richieste, chiedendo la risoluzione del contratto di compravendita per vizi della cosa venduta.

Il Tribunale di Milano, in sede di gravame, riformava tuttavia la decisione:

  • ritenendo che il compratore avesse accettato la diversa stoffa;
  • ritenendo che la differenza di tonalità di colore costituisse una difformità di lieve entità, a sensi dell’ultimo comma dell’art. 130 cod. cons., dovendosi pertanto escludere il rimedio, eccessivamente gravoso, della risoluzione;
  • rilevando che l’acquirente non aveva chiesto “…la sostituzione del divano, né la restituzione ed avendo proceduto all’alienazione del bene, l’unico rimedio esperibile era la riduzione del prezzo ma, il Pr., costituendosi nel giudizio d’appello, non aveva riproposto tale richiesta, che si intendeva, pertanto, rinunciata”.

Il ricorso per cassazione

Il consumatore decideva di ricorrere sino in Cassazione:

  • ritenendo che la differenza di tonalità un vizio integrasse un’ipotesi di vendita aliud pro alio;
  • affermando di avere, in realtà, richiesto la sostituzione del divano già al momento della consegna “…si da rendere superflua un’ulteriore richiesta di sostituzione”.

Gli Ermellini, tuttavia, rigettano il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni:

  • L’ipotesi di vendita “alitici pro alio” ricorre quando il bene consegnato è completamente diverso da quello venduto, perché appartenente ad un genere differente oppure con difetti che gli impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti” (Cassazione civile sez. II, 24/04/2018, n. 10045)
  • “…la consegna di un divano dello stesso colore ma di tonalità diversa da quella pattuita non costituisce un vizio tale da impedire l’utilizzo del bene secondo la sua destinazione”, bensì un difetto di conformità ex art. 130 cod. cons., con conseguente “…diritto del consumatore a chiedere, senza spese, il ripristino della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto
  • Qualora, però, il difetto di conformità di lieve entità e non sia possibile, o sia eccessivamente oneroso, esperire i rimedi della riparazione o della sostituzione, l’art. 130, ultimo comma, prevede che non sia possibile chiedere la risoluzione del contratto”.

Nel caso di esame, la Suprema Corte ha condiviso la valutazione operata dal Tribunale circa la lieve entità del predetto difetto, basata:

  • sia su un criterio oggettivo, “…in quanto si trattava di diversa tonalità dello stesso colore”;
  • sia sul comportamento del compratore, “…che aveva inviato, subito dopo la consegna, i suoi dati per l’emissione della fattura senza svolgere alcuna contestazione”.

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Il caso

Un’associazione professionale tra avvocati aveva ottenuto un’ingiunzione di pagamento per l’importo di Euro 39.936,69 a titolo di spettanze professionali per le attività giudiziali e stragiudiziali svolte in favore di una società.

In sede di opposizione, il Tribunale revocava l’ingiunzione di pagamento “…ritenendo che l’incarico non potesse esser conferito allo studio professionale, stante la natura personale dell’attività difensiva, e che non vi fosse prova che l’associazione fosse legittimata ad assumere incarichi”.

La decisione veniva integralmente riformata in appello dalla Corte distrettuale di Trento, ad avviso della quale:

  • “…nulla impedisce al cliente di essere assistito da un’associazione professionale, fermo restando che i singoli professionisti abilitati debbano gestire la pratica”;
  • “…non può esser messo in dubbio che il mandato professionale debba esser conferito, per necessità pratiche oltre che per prescrizione di legge, al singolo avvocato che faccia parte dell’associazione, il quale dovrà occuparsi personalmente della pratica”;
  • un limite sussisterebbe unicamente nel caso in cui “…il cliente abbia intrattenuto il rapporto direttamente e solo con il singolo professionista, da lui autonomamente scelto”.

Il ricorso per Cassazione

Avverso la predetta sentenza, ricorreva per cassazione la cliente, dolendosi inter alia:

  • “…che, pur essendo ammissibile il perfezionamento di accordi tra professionisti che facciano salvo il carattere personale della prestazione professionale, nel caso in esame non vi era prova che l’incarico fosse stato conferito all’associazione e che quest’ultima avesse il potere di stipulare contratti ed acquisire la titolarità dei rapporti con i clienti, non essendo tale prova emersa dall’esame dell’atto costitutivo e non essendo ammissibili le prove testimoniali, assunte in violazione dei limiti di cui all’art. 2722 c.c.”.
  • “…a differenza dei rapporti di consulenza intrattenuti in passato, il mandato per la difesa dinanzi alle Commissioni tributarie, per le quali era stato chiesto il compenso in sede monitoria, era stato conferito all’avv. M. in proprio”.

 

La decisione della Suprema Corte

La Corte, accogliendo il ricorso della cliente, offre i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • L’associazione professionale costituisce difatti un fenomeno regolato dall’art. 36 c.c..La norma stabilisce che l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute sono regolati dagli accordi tra gli associati, che possono attribuire all’associazione la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati”;
  • nulla impedisce di conferire l’incarico professionale all’associazione professionale”, purché ciò risulti espressamente previsto dal suo statuto “…posto che la titolarità del credito in capo all’associazione non dipendeva solo dall’aver ricevuto l’incarico professionale, ma anche dalla capacità dell’associazione, intesa come autonomo centro di imputazione di rapporti (distinto dai singoli associati), di concludere contratti che non fossero di mera consulenza e che riguardassero la difesa in giudizio dei clienti, data la natura personale dell’attività oggetto del mandato professionale”;
  • di fatti, solo ove il “…giudice del merito accerti tale circostanza tramite l’esame dello statuto dell’associazione, può riconoscersi in capo a quest’ultima la titolarità dei crediti per le prestazioni svolte dai singoli professionisti a favore del cliente, dato che il fenomeno associativo tra professionisti può non essere univocamente finalizzato alla divisione delle spese ed alla gestione congiunta dei proventi” (in senso conforme Cass. 15417/2016; Cass. 4268/2016; Cass. 3926/2016; Cass. 3128/2016; Cass. 15694/2011);
  • sono pertanto ininfluenti, al fine di comprovare la predetta capacità dell’associazione, “…le modalità di pagamento osservate in passato dalla…” cliente così come “lo svolgimento dei rapporti pregressi, per lo più attinenti alla sola attività di consulenza”.

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Il fatto

La Corte d’Appello di Genova, nonostante le parti fossero addivenute ad un’intesa stragiudiziale all’esito dell’espletata CTU espletata nel giudizio di appello, si pronunciava sul merito dell’impugnazione rigettandola e condannando l’appellato al pagamento delle spese non imponibili sostenute dalla controparte in primo grado nonché al pagamento delle spese legali dell’appello.

Avverso tale decisione l’appellato proponeva ricorso per cassazione dolendosi, inter alia “…della circostanza che la Corte d’appello abbia deciso il gravame nel merito, anziché dichiarare l’intervenuta cessazione della materia del contendere” ed evidenziando:

  • che “…la corte territoriale avrebbe, in motivazione, accertata la sopravvenuta cessazione della materia del contendere e, tuttavia, in dispositivo ha pronunciato il rigetto dell’appello”;
  • che, pertanto, sussisterebbe un “…insanabile contrasto fra motivazione e dispositivo denunciato dal ricorrente”.

La decisione

La Suprema Corte, accogliendo le doglianze del ricorrente, con la pronuncia in oggetto:

  • ha confermato che “…l’intervenuta transazione dell’oggetto della lite determina l’obiettivo venir meno dell’interesse delle parti alla pronuncia giurisdizionale”;
  • ha chiarito che è dovere del giudice rilevare detta carenza anche d’ufficio, a prescindere dall’atteggiamento delle parti;
  • ha conseguentemente cassato “…con rinvio alla Corte d’appello di Genova, affinché, prendendo atto della sopravvenuta cessazione della materia del contendere in ordine alla domanda principale, valuti se sussistono i presupposti per pronunciarsi sull’appello incidentale, nonché sulla soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese del secondo grado. Tale statuizione determina l’assorbimento degli altri motivi di ricorso”.

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La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 7940 del 12 settembre 2019, ha ribadito il principio, ormai cristallizzato dagli Ermellini, secondo il quale la deroga posta dal secondo comma dell’art. 2721 c.c. è ammissibile solo se giustificata da una concreta valutazione delle ragioni per cui la parte, incolpevolmente, non sia in possesso di documentazione scritta.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine da un procedimento di ingiunzione promosso da un avvocato nei confronti di una cliente, nel quale il Tribunale di Cagliari, con sentenza n. 2478/2012, rigettava l’opposizione proposta avverso il decreto ingiuntivo.

Il credito azionato in via monitoria – della somma di euro 8.860,72 – aveva ad oggetto il compenso per l’attività professionale prestata nella causa di risarcimento danni da sinistro stradale, definito in via transattiva.

Dolendosi di tale decisione, la cliente ricorreva alla Corte d’Appello di Cagliari che, all’esito del giudizio, riformava la decisione del giudice di prime cure e condannava l’avvocato – previa revoca del decreto ingiuntivo – a restituire alla controparte la somma di euro 789,95. La Corte territoriale calcolava tale importo dalla differenza tra quanto già corrisposto dalla cliente a titolo di acconto, grossolanamente considerando attendibili le dichiarazioni dei genitori della medesima, e il compenso parametrato all’importo attribuito alla cliente a titolo risarcitorio, sulla scorta delle tariffe dettate dal D.M. 8 aprile 2004, vigente ratione temporis.

Il ricorso per cassazione  

Il difensore, vista la decisione della Corte d’Appello, adiva la Suprema Corte dolendosi, in particolare, di come il giudice di secondo grado avesse ritenuto provato il pagamento di acconti su prove testimoniali – peraltro fornite dai genitori – “senza giustificare la deroga al divieto previsto per i contratti ed esteso ai pagamenti di valore superiore ad euro 2,58”.

Il giudizio della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso limitatamente alla suesposta doglianza, ha ribadito il consolidato principio secondo il quale “poiché ai sensi dell’art. 2726 cod. civ. le norme stabilite per la prova testimoniale si applicano anche al pagamento e alla remissione del debito, è ammessa la deroga al divieto della prova testimoniale in ordine al pagamento delle somme di denaro eccedenti il limite previsto dall’art. 2721 cod. civ., ma la deroga è subordinata ad una concreta valutazione delle ragioni in base alle quali, nonostante l’esigenza di prudenza e di cautela che normalmente richiedono gli impegni relativi a notevoli esborsi di denaro, la parte non abbia curato di predisporre una documentazione scritta (ex plurimis, Cass. 14/07/2003, n. 10989; Cass. 25/05/1993, n. 5884; Cass. 18/03/1968, n. 879).  

Di qui, la decisione della Suprema Corte di cassare in parte qua la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa composizione, affinché si conformi al principio di diritto sopra richiamato.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

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