La polizza vita a favore di un terzo è un contratto assicurativo che prevede come beneficiario una terza persona che non sia il contraente della polizza vita.

Il beneficiario dell’assicurazione vita in questo caso prevede l’inserimento di una terza persona che non sia il contraente stesso e che può essere un familiare o un soggetto a cui voler lasciare il bene designato in fase di stipula.

In realtà c’è la facoltà da parte di chi stipula la polizza vita di effettuare in un momento successivo la designazione di un beneficiario differente anche per comunicazione scritta all’assicuratore, così come esiste la facoltà (prevista nell’art. 1921 c.c., comma 1), di revocare, anche per via testamentaria, la designazione del terzo beneficiario, nonostante il terzo abbia dichiarato di volerne beneficiare.

Purtuttavia, anche rispetto all’esercizio di tale residuale facoltà di revoca del beneficio da parte dell’assicurato, la legge indica un ampio margine di autonomia per il disponente a favore del beneficiario designato, posto che è prevista la rinuncia preventiva a detta facoltà ex art. 1921 c.c., comma 2, accompagnata dalla dichiarazione del beneficiario di volerne profittare, con comunicazione per iscritto da inviarsi all’assicuratore.

La rinuncia alla facoltà di revoca del beneficiario, pertanto, ha l’effetto di cristallizzare nel tempo il diritto del beneficiario e, certamente, neutralizza ogni diversa disposizione da parte del contraente, stabilizzando l’attribuzione del beneficio in capo alla persona designata che ne ha voluto profittare sino all’eventus mortis del disponente.

Quanto alla natura del negozio di rinuncia al potere di revoca del beneficio da parte del disponente, la dottrina maggioritaria lo definisce quale atto unilaterale inter vivos, recettizio nei confronti del solo promittente; altra parte, minoritaria, lo considera come un negozio bilaterale tira stipulante e terzo, esterno al contratto a favore di terzo anche nei confronti del solo promittente, che si pone in deroga ai patti successori, e dunque costituisce norma eccezionale insuscettibile di interpretazione analogica. In questo dibattito traspare che ciò che non è pacifico in dottrina è il momento in cui, con tale atto di rinuncia, si perfeziona il definitivo acquisto del beneficio da parte del terzo, con accettazione del beneficiario, data la natura irrevocabile della disposizione.

Tale questione si rivelata determinante per dirimere il caso di specie, proprio in relazione all’intervenuta premorienza della beneficiaria che, fino a prova contraria, era stata designata con atto divenuto irrevocabile per espressa rinuncia della facoltà di revoca, posto che i ricorrenti avevano assunto di essere succeduti al beneficio, divenuto irrevocabile per volontà del contraente, per successiva disposizione testamentaria della beneficiaria.

Difatti, l’ipotesi di premorienza del beneficiario è espressamente disciplinata nell’art. 1412 c.c., comma 2, che nel contratto a favore di terzo dispone il trasferimento agli eredi del beneficiario in caso di sua premorienza, fatto salvo l’esercizio della facoltà di revoca (in grado pertanto di impedire tale trasmissione) o altra diversa disposizione.

La Suprema Corte, con la sentenza 9948 pubblicata il 15 aprile 2021, si è dunque interrogata, chiedendosi se la regola riferita al contratto a favore di terzo, ma non parimenti richiamata nella disciplina del contratto di assicurazione della vita, potesse valere per il contratto de quo, rispondendo al quesito in maniera affermativa ed enunciando il seguente principio di diritto: «la disposizione di cui all’art. 1412 c.c., comma 2, in base alla quale, con riferimento al contratto a favore del terzo, la prestazione al terzo, dopo la morte dello stipulante, deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purchè il beneficio non sia revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente, si applica anche al contratto di assicurazione sulla vita. Ne consegue che, qualora in detto contratto il terzo beneficiario premuoia al disponente (e non ricorrano le dette due evenienze), non si può ritenere che il diritto a suo favore non sia sorto in quanto condizionato alla morte del disponente. Nel detto contratto la morte del disponente non è, infatti, evento condizionante la nascita del diritto alla prestazione, ma evento che determina solo la sua esigibilità, e ciò a prescindere dal motivo intuitu personae o previdenziale sottostante alla designazione del beneficiario».

In altre parole, se il beneficiario di un’assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione dell’assicuratore deve essere eseguita (quando il contraente muore) a favore degli eredi del beneficiario, purché la disposizione a favore del terzo beneficiario premorto non sia stata revocata oppure il contraente abbia diversamente disposto.

Avv. Claudia Romano

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downloadIl Tribunale civile di Roma, con provvedimento del 12 marzo 2020, ha dichiarato la propria incompetenza a pronunciarsi su una controversia in punto di “petitio hereditas”[1], in favore del giudice del luogo dell’ultima residenza anagrafica del de cuius. Secondo il Giudice capitolino, infatti, a rilevare è l’ultima residenza in quanto indice presuntivo del luogo della prevalente sede di interessi in vita del defunto e, quindi, valida ad identificare il luogo di apertura della successione.

Il caso

La vicenda nasce dal giudizio promosso da un erede al fine di vedere accertata e dichiarata in suo favore l’illegittimità dell’occupazione degli immobili di proprietà del padre defunto (siti in Roma) e, per l’effetto, ottenere l’immediato rilascio degli stessi.

La convenuta, costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda attorea eccependo:

  • l’incompetenza territoriale del giudice adito evidenziando che, avendo l’attore formulato una petitio hereditas, la competenza territoriale spettava al Tribunale di Tivoli, in quanto il luogo dell’ultimo domicilio del de cuius e dell’aperta successione era in Campagnano di Roma;
  • il difetto di prova della legittimazione attiva, quale erede del de cuius;
  • l’appartenenza dei beni oggetto di causa al defunto e all’asse ereditario di quest’ultimo.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale romano, investito della questione, preliminarmente, ha qualificato l’azione esperita dall’attore come petizione di eredità ex art. 533 c.c. ritenendo sussistenti i presupposti già individuati dalla Corte di Cassazione Civile, Sez. II, Ord. n. 123 del 7 gennaio 2019:

  • il riconoscimento della qualità di erede;
  • il reclamo da parte dell’erede dei beni nei quali egli è succeduto mortis causa al defunto, ossia i beni che al tempo dell’apertura della successione erano compresi nell’asse ereditario;
  • la contestazione da parte di chi detiene i beni ereditari (a titolo di erede o senza titolo alcuno) della qualità di erede[2].

Conseguentemente, il giudicante ha accolto l’eccezione di incompetenza sollevata dalla convenuta prendendo le mosse dal principio espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 18334/2006 con la quale ha espressamente ritenuto applicabile all’azione di petizione di eredità il c.d. “forum hereditatis” nel solco dell’art. 22, 1 co., n. 1 c.p.c., il quale devolve la competenza territoriale al giudice del luogo dell’aperta successione.

In conclusione

Alla luce dei principi sopra richiamati, nonché in ossequio a quanto disposto dagli artt. 456 c.c. e 22, 1 co., n.1, c.p.c., il Tribunale di Roma ha dichiarato la propria incompetenza territoriale, in favore del Tribunale di Tivoli, in quanto, come anticipato in premessa, “la residenza anagrafica del de cuius costituisce indice presuntivo del luogo della prevalente sede di interessi in vita del defunto e, quindi, vale ad identificare il luogo di apertura della successione”.

[1] La petitio hereditas è l’azione attraverso cui chiunque affermi di essere erede può chiedere il riconoscimento della qualità ereditaria contro chiunque possegga tutti o parte dei beni ereditari a titolo successorio che non compete (possessor pro herede) o senza alcun titolo (possessor pro possessore) al fine di ottenere il rilascio dei beni stessi.

[2] Si veda Corte di Cassazione Civile, Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 22915, che evidenzia che, ove tale contestazione manchi, vengono meno le ragioni di specificità dell’azione di petizione rispetto alla comune azione di rivendicatoria che ha, invero, lo stesso “petitum” (cfr. Corte di Cassazione Civile, Sez. II, 16 gennaio 2009, n. 1074).

L’azione di petizione si fonda sull’allegazione dello stato di erede ed ha per oggetto beni riguardanti elementi costitutivi dell’universum ius o di una quota parte di esso, indipendentemente dalla considerazione dello specifico titolo in base al quale il de cuius ne aveva il possesso, con la conseguenza che l’attore è tenuto soltanto a provare la propria qualità di erede ed il fatto che i beni, al tempo dell’apertura della successione, fossero compresi nell’asse ereditario (cfr. Corte di Cassazione Civile, Sez. II,  30 ottobre 1992, n. 11813; id. 02 agosto 2001, n. 10557).

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La semplice delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sufficiente per l’acquisto della qualità di erede, ma diventa operativa soltanto se il chiamato alla successione accetta di essere erede o mediante una dichiarazione di volontà (“aditio”), oppure in dipendenza di un comportamento obiettivamente acquiescente (“pro herede gestio”), laddove, in ipotesi di chiamato che sia nel possesso dei beni, l’accettazione “ex lege” dell’eredità è determinata dall’apertura della successione, dalla delazione ereditaria, dal possesso dei beni e dalla mancata tempestiva redazione dell’inventario.

Corsì si è espressa la sesta sezione della Corte di Cassazione con  ordinanza 6 marzo 2018, n. 5247

Qui di seguito il testo del provvedimento:

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downloadLa Corte di Giustizia dell’Unione europea, pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale del Tribunale regionale di Gorzów Wielkopolski (Polonia), ha affermato che “L’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo, devono essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in detto Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione”.

Il giudizio a quo

La pronuncia trae origine da una procedura iniziata da una cittadina polacca, residente in Germania, tesa ad ottenere la redazione da parte di un notaio tedesco di un testamento pubblico che prevedesse «…un legato “per rivendicazione”, consentito a norma del diritto polacco, a favore di suo marito, relativo alla quota di cui è proprietaria nell’immobile comune situato a Francoforte sull’Oder». Il notaio, tuttavia, si rifiutava ritenendo detto legato contrario alle normative e alla giurisprudenza tedesca relativa ai diritti reali e al catasto, proponendo alla sig.ra di ricorrere alla diversa figura del c.d. “legato obbligatorio”, previsto dall’art. 968 del codice civile tedesco, alla luce anche dell’adattamento dei legati per rivendicazione stranieri in legati obbligatori in virtù dell’art. 31 del regolamento 650/12/UE, che recita: «Se una persona invoca un diritto reale che le spetta secondo la legge applicabile alla successione e la legge dello Stato membro in cui il diritto è invocato non conosce il diritto reale in questione, tale diritto è adattato, se necessario e nella misura del possibile, al diritto reale equivalente più vicino previsto dalla legge di tale Stato, tenendo conto degli obiettivi e degli interessi perseguiti dal diritto reale in questione nonché dei suoi effetti».

La ricorrente decideva di presentare ricorso avverso tale rifiuto, ritenendo insussistenti giustificazioni tali da impedire il riconoscimento in Germania degli effetti reali del legato per rivendicazione e, dall’altro, escludendo la possibilità di ricorrere al legato “ordinario”, “…in quanto quest’ultimo comporterebbe difficoltà collegate alla rappresentanza dei suoi figli minorenni, che possono essere chiamati all’eredità, nonché costi aggiuntivi”.

A fronte del mancato accoglimento del predetto ricorso, la sig.ra Kubicka presentava analogo ricorso dinnanzi al Tribunale regionale di Gorzów Wielkopolski, il quale decideva di sospendere il giudizio e interrogare la Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla seguente questione: «… se l’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento n. 650/2012 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in un altro Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione».

La pronuncia della Corte

La Corte di Giustizia, risponde negando l’esistenza di motivi ostativi al suo riconoscimento sulla base delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • Il 15° ‘considerando’ del regolamento in oggetto consente ad uno Stato membro di non riconoscere nel proprio ordinamento diritti reali previsti da ordinamenti stranieri su beni situati nel proprio territorio qualora non rientranti nel numerus clausus di quelli contemplati dal proprio ordinamento. Tuttavia, nella fattispecie, tanto il legato “per rivendicazione” previsto dal diritto polacco, quanto il legato “ordinario” previsto dal diritto tedesco, costituiscono mere modalità di trasferimento del medesimo diritto reale di proprietà, contemplato da ambedue gli ordinamenti nazionali;
  • A ciò consegue che l’articolo 1, paragrafo 2, lettera k), del regolamento n. 650/2012 “…osta al diniego di riconoscimento in uno Stato membro, il cui ordinamento giuridico non conosce l’istituto del legato «per rivendicazione», degli effetti reali prodotti da un tale legato alla data di apertura della successione in applicazione della legge sulle successioni che è stata scelta dal testatore”;
  • Parimenti, non osta a tale riconoscimento il dettato dell’art. 1, paragrafo 2, lettera l), del regolamento n. 650/2012, in quanto, poiché «…riguarda solo l’iscrizione in un registro dei diritti su beni mobili o immobili, compresi i requisiti legali relativi a tale iscrizione, e gli effetti dell’iscrizione o della mancata iscrizione di tali diritti in un registro, le condizioni alle quali tali diritti sono acquisiti non rientrano tra le materie escluse dall’ambito di applicazione di tale regolamento in virtù di tale disposizione».
  • Alla luce di quanto sopra esposto la Corte conclude dichiarando che: «L’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo, devono essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in detto Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione».

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Risultati immagini per immagine sequestroL’art.670 c.p.c. prevede come elementi necessari per la concessione della misura cautelare esclusivamente a) la controversia sulla proprietà o il possesso b) l’opportunità di provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea.
In ordine al primo requisito (“controversia sulla proprietà o sul possesso”) ciò che conta, secondo l’elaborazione giurisprudenziale più recente, non è tanto la causa petendi del giudizio (azione petitoria ovvero reale) quanto l’effetto restitutorio conseguente al petitum (cfr. ex multis Cass. 9645/1994 e n. 10333 del 19110/1993).
Conseguentemente, chiarisce l’ordinanza 17 novembre 2016 del Tribunale di Grosseto, non v’è dubbio che il sequestro giudiziario debba reputarsi ammissibile nel caso in cui la domanda abbia ad oggetto l’accertamento della qualità di eredi appunto perché ciò che assume rilievo non è tanto la causa petendi del giudizio (azione petitoria ovvero reale) quanto l’effetto restitutorio della quota ereditaria ritenuta di spettanza conseguente all’accoglimento del petitum.
A giustificare la concessione del sequestro giudiziario tuttavia non basta che si controverta sulla proprietà o sul possesso di un bene, né basta la pura e semplice pretesa di una parte su un bene che sia di proprietà di altri, ma occorre che tale pretesa sia fondata su ragioni tali da far ritenere probabile l’esistenza del diritto di proprietà in colui che richiede la misura cautelare.
Tale requisito assume una particolare valenza quando oggetto della richiesta di sequestro giudiziario, come nel caso di cui si controverte, sono beni ereditari, per di più «qualora alcuni degli eredi abbia di tali beni il godimento esclusivo ed altri chiedano che se ne attui la divisione, previo accertamento dei loro diritti sulla massa ereditaria».
Ebbene, questa situazione determina in re ipsa la ricorrenza del requisito utile per la concessione del sequestro giudiziario, specialmente ove «uno degli eredi disponga in maniera esclusiva ed unilaterale dei beni ereditari».
Ancora sul punto: «per la concessione del sequestro giudiziario, non si richiede, come per il sequestro conservativo, che ricorra il pericolo, concreto ed attuale, di sottrazione o alterazione del bene, essendo invece sufficiente, ai fini dell’estremo dell’opportunità richiesto dall’art. 670 n. 1 c.p.c., che lo stato di fatto esistente in pendenza del giudizio comporti la mera possibilità, sia pure astratta, che si determinino situazioni tali da pregiudicare l’attuazione del diritto controverso» (in questi termini, Trib. Savona, 30 ottobre 2013 proprio in una controversia in cui si intendeva tutelare la massa ereditaria nelle more del giudizio di divisione promosso previa determinazione delle quote spettanti).

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 downloadIl Tribunale civile di Cagliari, con sentenza del 13 luglio 2016, si pronuncia su un’interessante controversia in punto di retratto successorio, avente ad oggetto la vendita della quota ereditaria “ideale” tra coeredi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un coerede al fine di veder dichiarata l’inefficacia nei suoi confronti della vendita da parte di alcuni coeredi della loro quota ereditaria, effettuata in mancanza di un previo avviso, e il suo conseguente diritto ad esercitare il retratto successorio.

I convenuti, costituitisi in giudizio, chiedevano la condanna in via riconvenzionale dell’attore al risarcimento dei danni per lite temeraria e il rigetto della domanda principale eccependo la mancanza di titolarità in capo all’attore del diritto di prelazione di cui all’art. 732 c.c. in quanto:

  • lo stesso competerebbe solo agli eredi “diretti” e non, come nel caso de quo, anche “all’erede dell’erede”;
  • ad agni modo la cessione della quota sarebbe avvenuta in favore di altro coerede in proprio.

Il Tribunale, prendendo le mosse dall’univoca espressione letterale dell’art. 732 c.c. – che parla puntualmente di “alienazione della quota ereditaria (o di parte di essa) a un estraneo” – respinge la domanda attorea sulla base dei seguenti condivisibili principi già espressi dalla Cass. civ., sez. II^, sentenza del 12 marzo 2010, n°6142:

  • la finalità del diritto di prelazione e del diritto di retratto deve essere ricondotta all’esigenza di assicurare la persistenza e l’eventuale concentrazione della titolarità dei beni comuni in capo ai primi successori (Cass. 13-7-1983 n. 4777; Cass. 22- 10-1992 n. 11551) e di facilitare tendenzialmente la formazione delle porzioni (Cass. 7-12-2000 n. 15540)”;
  • la nozione di estraneo, “…da intendersi come colui che non è compartecipe della comunione ereditaria” deve pertanto estendersi anche a “…chi sia legato da vincoli di parentela con uno dei coeredi ma non partecipa all’eredità di cui fa parte la quota ceduta (Cass. 11-6-1964 n. 1467; Cass. 28-1-2000 n. 981)”;
  • la volontà del legislatore è dunque limitata a “…scongiurare che nei rapporti tra coeredi(per lo più legati tra loro da vincoli familiari) si inseriscano estranei che rendano più difficoltosi sia la permanenza della comunione ereditaria sia anche il suo eventuale scioglimento secondo le diverse modalità previste dalla legge”.

Il giudice sardo, conferma dunque – alla luce dell’eccezionalità della predetta disposizione, quanto derogatoria del principio di liberà negoziale e di libera disponibilità della quota – la piena efficacia e validità dell’alienazione della quota ereditaria ad altro coerede in quanto la stessa è rimasta “…nell’ambito degli eredi in comunione e, quindi, non si è realizzato l’evento paventato dal legislatore dell’ingresso di estranei nella comunione ereditaria”.

Il Tribunale, da ultimo, esamina la domanda riconvenzionale di risarcimento danni ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., fondata dai convenuti sulle seguenti circostanze:

  • un asserito danno alla salute conseguente alla chiamata in giudizio, comprovato dall’allegazione di un certificato medico;
  • la malafede dell’attore, che avrebbe agito “…allo scopo di intralciare e procrastinare la decisione della causa di divisione ereditaria”;
  • la colpa grave dell’attore, “…stante l’evidente improponibilità dell’azione”.

Analizzando le singole prospettazioni, il Tribunale conclude:

  • ritenendo non adeguatamente provato l’invocato danno alla salute, evidenziando altresì come, differentemente dall’ingiusta chiamata in sede penale, “…la ricezione di un atto di citazione in sede civile non possa determinare un danno risarcibile”, richiamando sul punto Cass. civ. Sez. Unite, sentenza dell’11 novembre 2008, n°26972;
  • ritenendo parimenti sfornito di prova che il giudizio di divisione ereditaria, già pendente da circa 30 anni, “…abbia subito ulteriori ritardi a causa dell’instaurazione del presente giudizio”;
  • accogliendo invece l’ultima doglianza alla luce della mancata considerazione da parte dell’attore “…dello stato della giurisprudenza che avrebbe potuto, con l’esercizio della normale diligenza, consentirgli di non proporre l’azione”, condannandolo al risarcimento del danno per lite temeraria, determinato in via equitativa nel venti per cento delle spese di lite.

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Precisa la seconda sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 17 marzo 2016 n. 5320, che nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredita riservata al legittimario, si deve considerare il momento della apertura della successione per calcolare il valore dell’asse ereditario mediante la cosiddetta riunione fittizia, stabilire l’esistenza e l’entità della lesione di legittima nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso. In tal caso, qualora ci siano conguagli in denaro da attribuire, questi devono essere invece commisurati al valore, al momento della divisione, del bene che avrebbe dovuto essere assegnato in natura al non assegnatario, tenendo conto del mutato valore, affinché ne costituisca l’esatto equivalente.

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Una donna, morta suicida, scrive nel suo testamento le seguenti terribili parole: «oggi finisco di soffrire, voglio finirla, vi saluto e la faccio finita».

Tuttavia il testamento è privo di data e, per la  Cassazione,  sentenza 11 novembre 2015 n. 23014, l’atto è annullabile ex 606 secondo comma cod. civ..

E ciò in quanto:

  • ai sensi dell’art. 602 cod. civ., il testamento olografo deve essere datato di pugno del testatore;
  • la data deve contenere l’indicazione del giorno, del mese e dell’anno o, comunque, deve essere ricavabile dal contenuto del testamento, senza rilevino elementi estranei all’atto, ricavabili“aliunde”.
  • Non può, in altri termini, ricavarsi da elementi estranei al testamento.
  • E, nel caso in esame, a testatrice, nella scheda testamentaria, si è limitata a fare riferimento ad un evento (suicidio), futuro ed incerto: – incerto nell’an, perché la testatrice, dopo aver redatto la scheda testamentaria, avrebbe ben potuto cambiare idea e non suicidarsi; – incerto nelquando, perché ella avrebbe potuto decidere di porre fine alla sua vita anche nei giorni o nei mesi successivi rispetto alla redazione del testamento;

Di qui la pronuncia di annullamento della scheda testamentaria.

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La Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, con ordinanza 16 novembre 2015 n. 23406, chiarisce che la permanenza, dopo il decesso del marito, nella abitazione familiare da parte della moglie  costituisce esercizio del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano, spettante al coniuge superstite quale legatario ex lege (art.540 cod.civ.).

Quanto sopra esposto vale anche nell’ipotesi di successione legittima, indipendentemente dalla ulteriore qualità di chiamato all’eredità del soggetto.

Deve pertanto escludersi che il mero fatto di continuare ad abitare, dopo l’apertura della successione, nella casa familiare e ad utilizzare i mobili che la corredano conferisca al coniuge la qualità di possessore di beni ereditari per gli effetti previsti dall’art.485 cod. civ.

La differenza non è di poco conto.

Per legge, entro dieci anni, si deve decidere se accettare l’eredità, accettarla con beneficio di inventario o rinunciarvi.

Invece coloro che, al momento del decesso, si trovano in possesso dei beni dell’eredità stessa devono necessariamente effettuare l’inventario entro tre mesi e, chiuso l’inventario, hanno quaranta giorni per decidere se accettare o meno l’eredità o accettarla con beneficio di inventario: un termine, insomma, molto più risicato che si giustifica proprio con l’esigenza di evitare confusione di beni.

In caso di mancato rispetto di uno di tali termini, l’eredità si considera accettata puramente e semplicemente,

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