Negli ultimi anni si sono registrate molteplici pronunce dei Tribunali di tutta Italia, originate dai ricorsi di genitori contrari alla presenza di immagini e video dei minori sui social, pubblicate dall’ex partner.

Ne è un chiaro esempio l’ordinanza del 30 agosto 2021 con cui il Tribunale di Trani – pronunciandosi in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato da un padre al fine di veder inibita la pubblicazione di immagini della figlia sul noto social network “Tik Tok” per mano (o meglio click) dell’ex moglie – ha giudicato ammissibile il reclamo e illegittima la condotta materna, alla luce della mancata contestazione della condotta addebitatale nonché della mancata prova del consenso paterno (non desumibile, ad avviso della Corte, dalla possibilità per il ricorrente di controllare e/o accedere al profilo dell’ex moglie):

  • condannando la madre della minore “…alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore … , inseriti su social networks, comunque denominati”;
  • inibendo “…dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso del padre”;
  • determinando “ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima”.

Ad avviso del Tribunale pugliese, infatti, la pubblicazione di video ed immagini di minori senza il consenso dell’altro genitore integra la “….violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali” ed in particolare:

  • dell’art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), che recita: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”;
  • del combinato disposto dell’art. 1 e dell’art. 16 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 1991 che prevedono rispettivamente:
    • l’art. 1 l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto;
    • l’art. 16 che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti“);
  • l’art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018)che considera l’immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.lgs. n. 196 del 2009 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633 del 1941)”;
  • l’art. 2 quinquies del D.lgs. n°101/2018 che recita: “il minore che ha compiuto i quattordici anni può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione. Con riguardo a tali servizi, il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a quattordici anni, fondato sull’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), del Regolamento, è lecito a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale”.

In merito da ultimo al requisito del periculum, il collegio, richiamando la nota pronuncia del 19 settembre 2017 del Tribunale civile di Mantova, ha condivisibilmente rilevato come “…il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network” e ciò in quanto “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati.

Quanto sopra è stato del resto ribadito in modo pressoché unanime nel corso degli anni da diverse autorità giudiziarie, tra cui il Tribunale civile di Rieti e di Mantova.

In particolare, il Tribunale laziale, con ordinanza del 7 marzo 2019, è giunto alle medesime conclusioni del Tribunale pugliese, affermando:

  • la sussistenza del requisito del fumus boni iuris, alla luce dell’illiceità del trattamento dei dati personali del minore di anni 14 in mancanza del consenso di chi esercita sullo stesso la responsabilità genitoriale, così come disposto dal già citato art. 2 quinques del Codice Privacy;
  • la sussistenza del requisito del periculum in mora, “…atteso che l’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet” e ciò in quanto “Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”;
  • la possibilità di richiedere altresì l’applicazione dell’astreinte ex art. 624 bis c.p.c., ritenuta “…pienamente giustificata dall’esigenza di tutelare l’integrità dei minori e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonchè, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti”.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. III^, con sentenza n°5353 del 21 febbraio 2023, ha offerto preziosi chiarimenti circa la validità e i limiti, anche ratione temporis, delle c.d. “side letters”, ovvero le scritture private sottoscritte dai coniugi (o da genitori non sposati) integranti le condizioni dei provvedimenti in materia familiare.

Gli Ermellini, in particolare:

  • riconoscono, in virtù del principio di autonomia consacrato nell’art. 1322 c.c., l’astratta possibilità per le parti di sottoscrivere le c.d. “side letters”, “…con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare” (Cass. civ., Sez. I^, sent. 20 agosto 2014, n. 18066, Rv. 632256-01);
  • le predette scritture possono anche integrare il contenuto dei provvedimenti separatizi e/o divorzili, ad esempio mediante la modifica della “…disciplina della modalità di corresponsione dell’assegno di mantenimento, che preveda il versamento da parte del genitore obbligato direttamente al figlio di una quota del contributo complessivo di cui risulta beneficiario l’altro genitore” (Cass. Sez. 1, ord. 24 febbraio 2021, n. 5065, Rv. 660758-01).;
  • il contenuto delle predette può anche consistere nell’interpretazione extra-testuale di un titolo esecutivo purchè: a) “…che non sovrapponga la propria valutazione in diritto a quella del giudice del merito” (Cass. Sez. 3, sent. 5 giugno 2020, n. 10806, Rv. 658033-02)”; B), “…l’esito non sia tale da attribuire al titolo una portata contrastante con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione“;
  • la validità temporale delle statuizioni ivi contenute, qualora concluse “a latere” del ricorso per separazione, può permanere anche successivamente al divorzio tra le parti.

Con la recente ordinanza interlocutoria n°6025 del 28 febbraio 2023, la Suprema Corte, pronunciandosi sulla nullità di una notificazione eseguita all’Avvocatura di Stato ad un indirizzo pec diverso da quello risultante da ReGIndE, ha offerto ulteriori chiarimenti, ribadendo, in linea con il precedente orientamento:

  • che “…a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, la notificazione dell’impugnazione va eseguita all’indirizzo PEC del difensore costituito risultante dal ReGIndE … “poiché solo quest’ultimo è qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l’organizzazione preordinata all’effettiva difesa, non è idonea a determinare la decorrenza del termine breve di cui all’art. 326 c.p.c. la notificazione della sentenza effettuata ad un indirizzo di PEC diverso da quello inserito nel ReGIndE”;
  • il seguente principio di diritto: “Il domicilio digitale previsto dall’art. 16-sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. in I. n. 221 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, -3- Ric. 2018 n. 35767 sez. M2 – ud. 18-09-2019 conv., con modif., in I. n. 114 del 2014, corrisponde all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza e che, per il tramite di quest’ultimo, è inserito nel Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (ReGIndE) gestito dal Ministero della giustizia. Solo questo indirizzo è qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l’effettiva difesa, sicché la notificazione di un atto giudiziario ad un indirizzo PEC riferibile – a seconda dei casi — alla parte personalmente o al difensore, ma diverso da quello inserito nel ReGIndE, è nulla, restando del tutto irrilevante la circostanza che detto indirizzo risulti dal/’l’Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INIPEC)” (cfr Cass. n. 3709 del 2019)”.

Gli Ermellini, facendo applicazione dei predetti principi al caso di specie hanno pertanto:

  • concluso ritenendo inidonea ad una corretta istaurazione del contraddittorio la notificazione del ricorso presso un indirizzo di posta elettronica dell’Avvocatura dello Stato diverso da quello inserito nel ReGIndE;
  • disposto la rinnovazione della notifica all’indirizzo pec risultante dal ReGIndE.

Ad avviso del Tribunale Civile di Roma, ordinanza del 21 Dicembre 2021, deve ritenersi inammissibile l’opposizione all’esecuzione fondata sulla nullità della fideiussione sottesa all’emissione del decreto ingiuntivo costituente il titolo esecutivo dell’esecuzione quando il decreto è divenuto definitivo per mancata opposizione, in quanto il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito e il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione.

D’altro canto non può ritenersi contraria ai principi del diritto comunitario e non deve, pertanto, essere disapplicata la disciplina del codice di rito civile secondo cui, nel giudizio di opposizione all’esecuzione, iniziata in base ad un titolo esecutivo giudiziale, non possono essere sollevate eccezioni che si fondino su fatti anteriori alla formazione del titolo medesimo.

Si riporta di seguito il testo completo dell’ordinanza.

Avv. Maria Martignetti 

Tribunale Civile di Roma, ordinanza del 21 Dicembre 2021

Il Giudice, sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 23.11.2021, osserva quanto segue.

Banca Popolare di Sondrio agisce in via esecutiva, con pignoramento presso terzi, nei confronti di Mario, allo scopo di pervenire alla riscossione di un credito di € 82.802,20, spettante in forza di decreto ingiuntivo n. 5136/2015 del Tribunale di Roma.

Propone opposizione parte esecutata, deducendo la nullità originaria del contratto di fideiussione all’origine del decreto ingiuntivo emesso nei confronti dell’esecutato, stante l’abusività delle clausole inserite all’interno dello stesso in violazione degli articoli 6 e 7 della Direttiva CE 93/13, non ostando al rilievo di tale nullità la circostanza che il titolo in questione non sia stato fatto oggetto di opposizione e sia ormai divenuto definitivo. Ha depositato propria memoria parte opposta, deducendo la sicura correttezza del proprio operato. Ha reso dichiarazione di parziale capienza la terza pignorata

L’istanza di sospensione non può essere accolta.

Deve innanzi tutto osservarsi come il titolo posto a base dell’esecuzione sia costituito da decreto ingiuntivo non opposto.  A riguardo, la Cassazione ha osservato che “il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito e il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione” (Cass. n. 19113 del 2018).

Né, poi, sembra che le argomentazioni svolte nel ricorso in opposizione, finalizzate come sono ad evidenziare la contrarietà di tale orientamento alla normativa comunitaria dettata in tema di clausole abusive nei contratti tra professionista e consumatore, siano idonee a far ritenere superato detto orientamento. In primo luogo, deve osservarsi come parte opponente si limiti ad allegare la propria qualità di consumatore, la quale viene invece puntualmente contestata da parte esecutante, con l’effetto che deve ritenersi esclusa la applicabilità nel caso di specie della normativa posta a tutela consumatore. In secondo luogo, deve osservarsi come il caso esaminato dalla Corte di Giustizia nella sentenza resa all’esito del procedimento C-49/14, citata da parte opponente nel proprio ricorso, non fosse affatto sovrapponibile a quello in esame, essendo sensibilmente diverso, stando a quanto può evincersi da tale pronuncia, il meccanismo processuale che presiede all’emissione del decreto ingiuntivo nell’ordinamento spagnolo da quello vigente nell’ordinamento interno italiano: in quest’ultimo, infatti, non è affatto preclusa la possibilità per il giudice chiamato ad emettere il decreto ingiuntivo di rigettare la domanda ove la stessa non risulti sufficientemente giustificata sulla base della documentazione dimessa in atti dal ricorrente (art. 640 c.p.c.).

Deve conclusivamente respingersi l’istanza di sospensione, con ogni conseguente effetto in merito alla condanna di parte opponente alla rifusione delle spese della presente fase, sia pur quantificate sulla base del valore effettivo della procedura e ridotte entro i minimi consentiti dal D.M. n. 55/14 attesa la particolare concentrazione della presente fase.

P.Q.M.

Respinge l’istanza di sospensione, assegnando termine di giorni dalla comunicazione del presente provvedimento. Condanna Mario alla rifusione delle spese di lite in favore di Banca Popolare di Sondrio, che si quantificano in € 1.050,00, oltre spese generali, iva e cpa. Provvede ad assegnazione come da separato provvedimento.

Si comunichi. Roma, 20.12.2021. Il G.E.[:]

Qui di seguito i principi esposti dalla Corte di Cassazione con la recente sentenza 12 febbraio 2021 n. 3685:

«in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza – ex art. 16-sexies del d.l. n. 179/2011, conv. con mod. in l. n. 221/2012, come mod. dal d.l. n. 90/2014, conv. con mod. in l. n. 114/2014 – la notificazione dell’atto, nella specie di appello, va eseguita all’indirizzo PEC del difensore costituito risultante dal ReGIndE, pur non indicato in atti dal difensore medesimo». Inoltre, alla luce della modifica della notificazioni telematiche (d.l. n. 90/2014, convertito con l. n. 114/2014) l’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo PEC del difensore è stato soppresso.

Il d.l. cit. poi ha aggiunto al d.l. n. 179/2012 l’art. 16-sexies sul «domicilio digitale», ai sensi del quale «salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui all’art. 6-bis del d.lgs. n 82/2005 (INI–PEC) delle imprese e dei professionisti -, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della Giustizia (ReGIndE)».

Alla luce di questo, essendo l’indirizzo PEC collegato in modo univoco al codice fiscale del titolare, oggi l’unico indirizzo di posta elettronica certificata rilevante ai fini processuali è quello che il difensore ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza.

Il difensore inoltre non ha più l’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo di posta elettronica certificata, né la facoltà di indicare un indirizzo diverso da quello comunicato al Consiglio dell’Ordine o di restringerne l’operatività alle sole comunicazioni di cancelleria.

Il difensore deve indicare, piuttosto, il proprio codice fiscale, valendo questo come criterio di univoca individuazione dell’utente SICID e consentendo questo di risalire all’indirizzo di posta elettronica del professionista.

Precisa infine la Suprema Corte che resta invece fermo il contenuto dell’art. 366, comma 2, c.p.c. che, limitatamente al giudizio di Cassazione, prevede la domiciliazione ex lege del difensore presso la cancelleria della Corte nel caso in cui non abbia eletto domicilio nel comune di Roma, né abbia indicato il proprio indirizzo di posta elettronica.

Avv. Luigi Romano

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