Negli ultimi anni si sono registrate molteplici pronunce dei Tribunali di tutta Italia, originate dai ricorsi di genitori contrari alla presenza di immagini e video dei minori sui social, pubblicate dall’ex partner.

Ne è un chiaro esempio l’ordinanza del 30 agosto 2021 con cui il Tribunale di Trani – pronunciandosi in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato da un padre al fine di veder inibita la pubblicazione di immagini della figlia sul noto social network “Tik Tok” per mano (o meglio click) dell’ex moglie – ha giudicato ammissibile il reclamo e illegittima la condotta materna, alla luce della mancata contestazione della condotta addebitatale nonché della mancata prova del consenso paterno (non desumibile, ad avviso della Corte, dalla possibilità per il ricorrente di controllare e/o accedere al profilo dell’ex moglie):

  • condannando la madre della minore “…alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore … , inseriti su social networks, comunque denominati”;
  • inibendo “…dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso del padre”;
  • determinando “ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima”.

Ad avviso del Tribunale pugliese, infatti, la pubblicazione di video ed immagini di minori senza il consenso dell’altro genitore integra la “….violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali” ed in particolare:

  • dell’art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), che recita: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”;
  • del combinato disposto dell’art. 1 e dell’art. 16 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 1991 che prevedono rispettivamente:
    • l’art. 1 l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto;
    • l’art. 16 che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti“);
  • l’art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018)che considera l’immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.lgs. n. 196 del 2009 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633 del 1941)”;
  • l’art. 2 quinquies del D.lgs. n°101/2018 che recita: “il minore che ha compiuto i quattordici anni può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione. Con riguardo a tali servizi, il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a quattordici anni, fondato sull’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), del Regolamento, è lecito a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale”.

In merito da ultimo al requisito del periculum, il collegio, richiamando la nota pronuncia del 19 settembre 2017 del Tribunale civile di Mantova, ha condivisibilmente rilevato come “…il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network” e ciò in quanto “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati.

Quanto sopra è stato del resto ribadito in modo pressoché unanime nel corso degli anni da diverse autorità giudiziarie, tra cui il Tribunale civile di Rieti e di Mantova.

In particolare, il Tribunale laziale, con ordinanza del 7 marzo 2019, è giunto alle medesime conclusioni del Tribunale pugliese, affermando:

  • la sussistenza del requisito del fumus boni iuris, alla luce dell’illiceità del trattamento dei dati personali del minore di anni 14 in mancanza del consenso di chi esercita sullo stesso la responsabilità genitoriale, così come disposto dal già citato art. 2 quinques del Codice Privacy;
  • la sussistenza del requisito del periculum in mora, “…atteso che l’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet” e ciò in quanto “Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”;
  • la possibilità di richiedere altresì l’applicazione dell’astreinte ex art. 624 bis c.p.c., ritenuta “…pienamente giustificata dall’esigenza di tutelare l’integrità dei minori e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonchè, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti”.

Il Consiglio di Stato è stato recentemente chiamato ad interpretare la portata dell’art. 40, comma 1, lett. c) del d.lgs. n°151 del 26 marzo 2001, chiarendo se il riconoscimento di periodi di riposo al padre lavoratore dipendente di un figlio di minore di anni uno, di cui al precedente art. 39, debba intendersi limitato al solo caso espressamente previsto “in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, ovvero estendersi a “qualsiasi categoria di lavoratrice non dipendente, e quindi anche alla ‘casalinga’, ovvero solo alla lavoratrice autonoma o libero professionista, posizione che comporta diritto a trattamenti economici di maternità a carico dell’Inps o di altro ente previdenziale” e se “in caso di risposta affermativa, se il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri previsti dall’articolo 40 del d.lgs. n. 151 del 2011 abbia portata generale, ovvero sia subordinata alla prova che la madre ‘casalinga’, considerata alla stregua della lavoratrice non dipendente, sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero affetta da “infermità”, seppure temporanee e/o non gravi”.

La Corte, in sessione plenaria, con sentenza n°17/2022, depositata il 28 dicembre 2022, ripercorre i previgenti e contrastanti orientamenti giurisprudenziali e, operando un condivisibile “bilanciamento tra diritti’, connessi alla genitorialità ed al economico sacrificio imposto al datore di lavoro” enuncia il seguente condivisibile principio di diritto: “L’articolo 40, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente articolo 39, sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti, e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgono dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità”.

Il caso arrivato sino alle Sezioni Unite è quello di due padri gay, entrambi italiani, che avevano avuto un figlio facendo ricorso alla maternità surrogata in Canada, dove è consentita anche alle coppie dello stesso sesso la surrogazione a titolo gratuito. Quando il bambino era venuto alla luce, le autorità canadesi avevano formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, senza menzionare né il padre intenzionale né la madre surrogata, né la donatrice.

Accogliendo il ricorso della coppia, la Corte Suprema della British Columbia aveva dichiarato che entrambi i ricorrenti dovevano figurare come genitori, e aveva disposto la rettifica dell’atto di nascita in Canada. Sulla base del provvedimento, i due padri italiani avevano quindi chiesto all’Ufficiale di Stato Civile italiano di modificare anche l’atto di nascita nel nostro Paese, ma si erano visti rifiutare la richiesta.

Con ricorso ex art. 702-bis Cod. Proc. Civ., i due uomini chiedevano alla Corte d’Appello di Venezia, a norma dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995, il riconoscimento del provvedimento canadese, sottolineandone la non contrarietà all’ordine pubblico italiano e la liceità del ricorso alla maternità surrogata secondo le leggi del Paese in cui erano state poste in essere.

La Corte d’Appello di Venezia, rilevato che “la tutela del superiore interesse del minore rientra tra i diritti fondamentali, … lordine pubblico internazionale impone di assicurare al minore la conservazione dei legami familiari ed il mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto un ruolo genitoriale… non può ricondursi allordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è prevista la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell’attribuzione del sesso”, riconosceva i requisiti per la trascrizione del provvedimento canadese.

Avverso tale decisone, però, ricorrevano il Ministero dell’Interno e il Sindaco di Verona, in qualità di ufficiale del Governo, e la prima Sezione della Cassazione, investita dell’importante questione, chiedeva l’intervento delle Sezioni Unite.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n°38162/2022, pubblicata il 30 dicembre 2022, ha stabilito che i bambini nati all’estero con la maternità surrogata potranno e dovranno essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori tramite l’adozione in casi particolari che richiede l’approvazione da parte di un giudice; e ciò in quanto non è automaticamente trascrivibile il loro atto di nascita estero.

Ad avviso della Suprema Corte, infatti:Cass.-SS.UU-n.-38162-2022

  • Il provvedimento giudiziario straniero non è trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni. In primo luogo, perché nella non trascrivibilità si esprime la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale. ….omissis….In secondo luogo, perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo (Corte cost., sentenza n. 79 del 2022)….omissis….In terzo luogo, perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale”.
  • L’esclusione della automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero non cancella, né affievolisce l’interesse superiore del minore. Il nostro ordinamento conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base dell’accoglienza o dell’impegno in un condiviso disegno di genitorialità sociale. Appartiene all’istituto dell’adozione particolare la valutazione in concreto dell’interesse alla identità filiale del minore che vive di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico. L’adozione in casi particolari non dà rilevanza al solo consenso e non asseconda attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità; dimostra, piuttosto, una precisa vocazione a tutelare l’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto anche con colui che, insieme al padre biologico, ha condiviso e attuato il progetto del suo concepimento e, assumendosi la responsabilità della cura e dell’educazione, ha altresì concorso in fatto a instaurare quella organizzazione di vita comune diretta alla crescita e allo sviluppo della personalità che è la famiglia. L’adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del bambino e un accertamento sulla idoneità dell’adottante. Il riconoscimento della pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato postula che ne sia accertata la corrispondenza all’interesse del minore. Il riconoscimento della genitorialità è quindi ancorato a una verifica in concreto dell’attualità del disegno genitoriale e della costante cura in via di fatto del bambino. La filiazione riguarda un profilo basilare dell’identità stessa del minore. Proprio in ragione di ciò è essenziale la ricerca, anche nel caso della maternità surrogata, della soluzione ottimale del superiore interesse del minore.
  • Va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner. L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte cost., sentenza n. 230 del 2020).
  • Attraverso l’adozione in casi particolari, l’ordinamento italiano assicura tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico, ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, del suo rapporto con il genitore d’intenzione. Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinché l’accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosità tipica della responsabilità genitoriale.

In conclusione “l’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983, che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita”.

Avv. Marzia Capomagi

 

É illegittimo e va disapplicato per eccesso di potere il decreto del Ministero dell’interno che, nel disciplinare le modalità di produzione, emissione e rilascio della carta di identità elettronica, non consente di indicare con la qualifica neutra di “genitore” la madre naturale e la madre adottiva di una minore, figlia di una coppia omosessuale. Lo stabilisce il Tribunale di Roma, con l’allegata ordinanza del 9 settembre 2022.
Il caso oggetto di questa interessante pronuncia del Tribunale capitolino – del quale hanno dato ampio conto le cronache nazionali delle ultima settimane – riguarda una minore figlia adottata in forza di sentenza resa ai sensi dell’art. 44, c. I , lett. d), L. n. 184/1983.
In data 28 maggio 2019, a seguito della trascrizione della sentenza di adozione, le due madri avevano congiuntamente richiesto agli uffici di Roma Capitale l’emissione di una carta d ‘identità elettronica, valida per l’espatrio, a nome della figlia minore, con l’indicazione dei propri nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di «genitore» per entrambe.
Con comunicazione in pari data, tuttavia, gli uffici aditi avevano evidenziato l’impossibilità di accogliere la richiesta, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro dell’interno del 31 gennaio 2019, il quale prevedeva esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Le ricorrenti hanno quindi impugnato il citato decreto ministeriale prima dinanzi al Tar del Lazio, dichiaratosi incompetenti, e poi innanzi al Tribunale Civile di Roma, il quale invece in accoglimento del ricorso, ha disapplicato il decreto e ordinato al Ministro dell’Interno, e per esso al Sindaco di Roma Capitale, quale ufficiale del Governo, di indicare sulla carta d’identità elettronica della minore la qualifica neutra di «genitore».
Ciò che rileva – osserva il Tribunale capitolino – «è che, nella fattispecie in oggetto, esiste una situazione giuridica e di fatto incontrovertibile, perché coperta dal giudicato e risultante dagli atti dello stato civile – consistente nel rapporto di filiazione (naturale e adottiva) della minore con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile e costitutiva di una famiglia».
Questo è, per il Tribunale di Roma, il punto di partenza per discutere dell’esistenza o meno di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina a vedersi identificate nella carta d’identità della figlia in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere o, comunque, in termini neutri e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della situazione familiare come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due madri o comunque di due genitori.
Sull’esistenza di tali diritti – afferma il Tribunale – non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Per quanto riguarda la madre adottiva, l’indicazione, nel documento d’identità della figlia, con una qualifica «padre», difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU, priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla.
Identica violazione si riscontra anche nei confronti della minore, la quale ha un analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri.
Con riguardo alla minore, peraltro, il diritto alla corretta rappresentazione delle sue origini familiari trova conferma anche in altri strumenti internazionali ai quali l’Italia ha aderito, primo fra tutti la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva con L. n. 176/ 1991, il cui art. 8, in particolare, impegna le Alte Parti Contraenti a «rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», comprendente «le sue relazioni famigliari», ed il cui art. 3 prescrive che «tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Quanto alla scelta alternativa proposta dalle ricorrenti tra l’indicazione della doppia dicitura ” madre” e ‘madre” ovvero della dicitura neutra “genitore”, il Tribunale ha opinato che questa seconda opzione sia la più idonea a soddisfare il legittimo interesse delle ricorrenti bilanciandolo con l’esigenza di rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali.
La pronuncia in esame si segnala perché si pone nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale favorevole a valorizzare le nuove forme di genitorialità – diverse da quella tradizionale basata sul fatto procreativo – che vanno emergendo nel nostro ordinamento.
Si tratta di un orientamento che ha trovato conferma anche in seno alla giurisprudenza di legittimità, ad esempio, nella sentenza Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, secondo cui «è riconoscibile in Italia un atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due donne atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali».
Avv. Claudia Romano

Gli embrioni creati e crioconservati da una coppia che nel frattempo si è separata potranno essere impiantati nella donna anche contro la volontà dell’ex partner.

Lo ha stabilito il Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere con l’ordinanza del ordinanza del 27 gennaio 2021 che, per la prima volta in Italia, riconosce il diritto assoluto della donna di utilizzare gli embrioni creati con il coniuge e poi congelati.

La soluzione adottata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere valorizza il consenso al trattamento procreativo prestato dal marito, consenso che diventa irrevocabile dopo che l’embrione si è formato (art. 6, comma 3 l. n. 40/2004).

Per giungere a questa conclusione, i giudici hanno chiamato in causa l’articolo 6, comma 3, della legge 40 del 2004, per cui “la volontà [di diventare genitori attraverso la procreazione medicalmente assistita, ndr] può essere revocata da ciascuno dei soggetti […] fino al momento della fecondazione dell’ovulo”. Dopo non più.

Il problema, sotto il profilo oggettivo, ha iniziato a esistere con la sentenza 151/2009 della Corte Costituzionale, che – modificando la legge 40 – ha iniziato a permettere il congelamento degli embrioni. Fino a quel momento, infatti, la norma prevedeva che si potessero fecondare fino a un massimo di tre ovociti, i quali avrebbero dovuto essere simultaneamente impiantati nell’utero della donna. Era infatti questo il principio vigente prima della decisione della Consulta: una volta ottenuto, ogni embrione avrebbe dovuto essere messo nelle condizioni di nascere.

La scelta interpretativa si fonda sulla rilevanza che assume la discendenza biologica, della quale il ricorrente ha specificamente fornito ampia prova, avendo comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ed autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato.  Ciò premesso, il Tribunale ha ordinato il trasferimento intrauterino degli embrioni crioconservati.

Poco più di 20 anni fa, con una pronuncia del 9 maggio 2000, il Tribunale di Bologna aveva deciso un caso simile a quello campano in modo diametralmente opposto. Alla base del ragionamento seguito dai giudizi emiliani c’erano due presupposti: il fatto che “gli ovuli umani fecondati ma non impiantati” sarebbero […] entità ben diversa dagli embrioni già allocati nell’utero materno”, e quello per cui essi non godrebbero in ogni caso “della stessa tutela legale […] della persona nata viva”. Così, sulla scorta di ciò, “considerato […] che il diritto di procreare o di non procreare è costituzionalmente garantito, specie qualora non vi sia in atto una gravidanza, sarebbe in netto contrasto con il diritto di non procreare riconosciuto anche al genitore di sesso maschile la concessione alla sola donna di decidere se procedere nell’impianto in utero degli embrioni”.

Avv. Claudia Romano

 

Il cognome è il nome che indica a quale famiglia appartiene una persona e, insieme al prenome, o “nome proprio di persona”, forma l’antroponimo.

Ma nel nostro ordinamento esiste l’obbligo del cognome paterno?

La legge in Italia preferisce il cognome del padre a quello della madre, anche quando al figlio vengono dati entrambi i cognomi, quello del padre viene prima di quello della madre.

Il motivo dovrebbe essere ricercato nella volontà di attribuire un riconoscimento formale alla paternità, visto che la maternità è sempre sicura.

Tuttavia non si può affermare che esista una vera e propria regola che imponga di dare ai figli il cognome del padre.

L’articolo 6 del codice civile, che disciplina il diritto al nome, dispone infatti soltanto che «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome».

A tale conclusione era giunta anche la Cassazione con l’ordinanza n. 13298/2004 con la quale aveva evidenziato che non esiste nel nostro ordinamento una disposizione diretta ad attribuire ai figli legittimi il cognome paterno.

Tanto che la Corte Costituzionale sulla questione del cognome dei figli, si è espressa con la storica sentenza n. 286/2016, con la quale ha dichiarato incostituzionali le norme che disciplinano il cognome, nella parte nella quale, quando nasce un figlio, non consentono ai genitori di comune accordo, di attribuire allo stesso anche il cognome materno.

La previsione della Corte Costituzione si riferisce sia alle coppie sposate che a quelle di conviventi, nonché ai figli avuti in adozione.

Ma cosa accade se il riconoscimento dei figli naturali non è contemporaneo?

L’art. 262, I co, c.c. stabilisce che il figlio nato fuori dal matrimonio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, senza alcun accenno alla maternità o alla paternità, ma richiamando un criterio temporale. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio naturale assume il cognome del padre.

Sulla scorta di queste considerazioni, il 14 gennaio scorso, attraverso un comunicato, la Corte Costituzionale ha informato che è stata sollevata davanti alla stessa, dal Tribunale di Bolzano, una questione di costituzionalità in relazione formulazione del predetto articolo 262 comma 1 del codice civile «là dove non prevede, in caso di accordo tra i genitori, la possibilità di trasmettere al figlio il cognome materno invece di quello paterno».

La Consulta, con l’ordinanza 18/2021, relatore Giuliano Amato, però è andata oltre, rimettendo a se stessa la questione di legittimità dell’articolo 262, nella parte in cui, in mancanza di accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori.

A sostegno della decisione di auto rimessione della questione di legittimità (pregiudiziale rispetto a quella sollevata dal Tribunale di Bolzano), la Corte ha osservato che, qualora venisse accolta la prospettazione del Tribunale di Bolzano, in tutti i casi in cui manchi l’accordo dovrebbe essere ribadita la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno. E poiché si tratta dei casi verosimilmente più frequenti, verrebbe ad essere così riconfermata la prevalenza del patronimico, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata riconosciuta, ormai da tempo, dalla stessa Corte, che ha più volte invitato il legislatore a intervenire.

Si è ancora in attesa della pronuncia di costituzionalità da parte della Corte, la cui rilevanza è evidente, in un momento storico nel quale si sta facendo molto per contrastare qualsiasi forma di discriminazione di genere.

Avv. Claudia Romano

[:it](Cass. civ., sez. III, sent. 23 dicembre 2020, n. 29469)

Il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte.

Tale principio, ormai radicato nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Civ. 23676/2008), ha comunque un limite: il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure.

Sulla base di tale principio, con l’ordinanza in oggetto, è stato riconosciuto il diritto di un paziente, testimone di Geova, di rifiutare la terapia trasfusionale anche in presenza precedente consenso al trattamento sanitario.

La pronuncia è scaturita dal ricorso di una donna, Testimone di Geova, che aveva agito in giudizio per chiedere il risarcimento danni e la restituzione di quanto corrisposto per l’opera professionale dei medici. In particolare, la domanda è sorta in quanto, in occasione del parto effettuato con taglio cesareo, a seguito di un’emorragia erano state eseguite trasfusioni di sangue, nonostante la contrarietà manifestata dalla donna.

Nei primi due gradi di giudizio, Tribunale e Corte d’Appello avevano ritenuto che non vi fosse stato un espresso, inequivoco e attuale dissenso all’emotrasfusione e ciò poiché, l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa, implicava – secondo i giudici di merito – l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità di trasfusioni in caso di pericolo di vita.

La Suprema Corte ha invece ritenuto che la paziente aveva il diritto di rifiutare l’emotrasfusione anche con dichiarazione formulata prima del trattamento sanitario e che l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non avesse implicato anche l’accettazione dell’emotrasfusione.

La Suprema Corte ha dunque fissato il seguente principio di diritto: «Il paziente Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita».

La pronuncia impugnata è stata pertanto annullata con rinvio alla Corte d’ Appello di Milano.

Quanto alla responsabilità dei sanitari, dato uno sguardo a quanto stabilito dalla Legge n. 219/2017, la sentenza chiarisce che «la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie».

In pratica, «prestare il consenso a un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologica professionale». Dunque, spiega la Cassazione, a fronte di tale determinazione del paziente, il medico non ha obblighi professionali.

Avv. Claudia Romano

 

Clear plastic bottle on white metal frame

 

 

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[:it]

(Cassazione Civile ordinanza n. 28723 del 16 dicembre 2020)

L’evoluzione del diritto di famiglia, allo stato dell’arte, si deve ancora occupare della portata e dei confini entro i quali circoscrivere il concetto di bigenitorialità, introdotto dalla legge n. 54 del 2006.

In cosa consiste il principio di bigenitorialità?

Il principio di bigenitorialità è il principio etico in base al quale un bambino ha una legittima aspirazione, vale a dire, un legittimo diritto a mantenere un rapporto stabile e tendenzialmente paritetico con entrambi i genitori, anche se gli stessi siano separati o divorziati.

Questo diritto si basa, in questa impostazione, sul fatto che essere genitori è un impegno che si prende nei confronti dei figli e non dell’altro genitore, per il quale non può e non deve essere condizionato da un’eventuale separazione e su questo diritto non si può fare ricadere la responsabilità di scelte separative dei genitori.

In altre parole la bigenitorialità non implica che si trascorra uguale tempo con entrambi i genitori, ma significa partecipazione attiva da parte di entrambi i genitori nel progetto educativo, di crescita, di assistenza della prole, in modo da creare un rapporto equilibrato che in nessun modo risenta dell’evento della separazione.

Il principio di bigenitorialità, in presenza di separazione e di divorzio dei coniugi, si trasforma nel dovere del giudice di preferire sempre l’affido condiviso della prole anziché quello esclusivo.

Il compito dell’organo giudicante diventa particolarmente difficile quando sul piano pratico si verifica l’esistenza di una situazione di conflitto tra i genitori, alimentata da una competitività esasperata, tesa a distorcere le finalità dell’istituto attraverso sopraffazioni di carattere egoistico idonee a sacrificare le aspirazioni di esistenza dei figli.

In un simile contesto si pone un’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con ordinanza n. 28723 del 2020), con la quale la Corte ha affermato che gli atteggiamenti ostruzionistici di un genitore che ostacolano il rapporto padre-figlio ledono il diritto alla bigenitorialità del minore e possono comportare una decadenza dalla responsabilità genitoriale.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un padre innanzi al Tribunale per i Minorenni di Firenze affinchè fosse dichiarata la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre del figlio minore in comune e l’allontanamento di quest’ultimo dall’abitazione materna.

Ciò in quanto la stessa ostacolava i rapporti padre-figlio, generando una situazione di alienazione parentale (cd. PAS, Parental Alienation Syndrome).

Il Tribunale rigettava, tuttavia, le richieste, inducendo l’uomo ad impugnare tale decisione davanti alla Corte d’Appello. Ma anche in questa sede, l’uomo vedeva rigettate le sue domande.

Il padre proponeva dunque ricorso per Cassazione, lamentando – in particolare – l’erroneità della decisione della Corte d’appello, che si era focalizzata sull’incapacità del padre di relazionarsi con il figlio senza prendere in considerazione i comportamenti posti in essere dalla madre per allontanare la figura paterna dal figlio.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza in oggetto ha invece accolto i motivi principali del ricorso di un padre, ribadendo l’importanza della tutela del diritto dei minori alla bigenitorialità, da intendersi, come più volte interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu, anche come rigoroso controllo, delle autorità giudiziali nazionali, sulle restrizioni supplementari, ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori.

Avv. Claudia Romano

Man woman and girl walking near trees[:]

[:it](Cass. Civ., Sez. I, Ord., 11 dicembre 2020, n. 28330)

L’azione di riconoscimento di paternità (articolo 269 c.c.) è un’azione attribuita al figlio naturale nei confronti del presunto genitore, volta ad ottenere un provvedimento giudiziale che produca gli stessi effetti del riconoscimento.

L’oggetto dell’accertamento è il dato biologico della procreazione e la paternità può essere provata con ogni mezzo.

Tale prova sarà, essenzialmente, per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre.

Grande importanza, ormai, viene riconosciuta alle prove ematologiche e genetiche, che permettono di individuare la paternità con un’attendibilità superiore al 99,9%.

La parte – che può essere anche un parente (pure collaterale) del preteso genitore ormai defunto – resta libera di sottrarsi ai prelievi necessari per l’esperimento probatorio ma dalle motivazioni di tale rifiuto il giudice potrà trarre un elemento di prova, il quale, sebbene di valore indiziario, quasi sempre supporterà, anche da solo, adeguatamente la dichiarazione di paternità (o maternità) naturale.

In particolare, la Suprema Corte ha più volte ribadito che «nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò nè una restrizione della libertà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, nè una violazione del diritto alla riservatezza, essendo rivolto l’uso dei dati nell’ambito del giudizio solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto dalla disciplina in materia di protezione dei dati personal» (Cass. Sentenza n. 11223 del 21/05/2014).

Da tale premessa, con l’ordinanza in esame che Corte trae l’effetto che il comportamento processuale della parte può costituire anche unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice e non solo elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo.

I giudici di legittimità hanno inoltre, ricordato i principi di diritto applicabili nelle ipotesi di promovimento, da parte del figlio non riconosciuto, dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità, con contestuale richiesta di condanna della parte convenuta al risarcimento del danno da privazione della figura genitoriale.

L’ordinanza infatti precisa che «l’accertamento dello status di figlio naturale costituisce il presupposto per l’esercizio dei diritti connessi a tale status, perché prima di tale momento non vi è pronuncia sullo status».

Pertanto, la domanda risarcitoria da parte del figlio e quella di rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del figlio da parte del genitore coobbligato presuppongono tale accertamento e non sono utilmente azionabili se non dal momento in cui diviene definitiva la sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.

Avv. Claudia Romano

 

Man and boy runs on shore[:]

[:it](Cass. Civ. ordinanza n° 26383 del 19 novembre 2020)

Di regola, la separazione con colpa (il cosiddetto “addebito”) non implica anche il risarcimento del danno. Le conseguenze patrimoniali per chi viola i doveri del matrimonio sono generalmente costituite dalla perdita di due diritti: quello all’assegno di mantenimento e quello a succedere all’ex coniuge in caso del suo decesso.

Più volte, è stato chiesto alla giurisprudenza se il tradimento possa comportare anche il risarcimento danni. E ciò per via dell’indubbio impatto psicologico ed emotivo che la scoperta di un adulterio può avere sul coniuge tradito.

La questione è stata riproposta proprio di recente alla Corte di Cassazione che, con l’ordinanza in oggetto, ha ribadito la linea interpretativa “tradizionale”, secondo la quale il tradimento non è di per sé risarcibile, salvo che non vi sia la prova concreta che abbia determinato una lesione a uno dei diritti costituzionali della persona.

Tra questi diritti viene sicuramente in mente l’onore – si pensi a una relazione extraconiugale consumata dinanzi agli occhi di tutti, in società – ma anche la salute.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, la richiesta di risarcimento per lesione del diritto alla salute, non può essere fondata sul semplice turbamento per il fallimento del matrimonio. Occorrere invece comprovare una condizione di afflizione che si traduca in uno sconvolgimento fisico-psicologico che superi, per gravità, le normali soglie di tollerabilità.

Quindi, non è la semplice infedeltà a determinare il diritto a ottenere il pagamento dei danni morali sofferti, ma quel “qualcosa in più” che, come detto, è costituito da una sofferenza insopportabile, la lesione di un diritto fondamentale della persona che trova nella costituzione la sua proclamazione.

In questo senso – aggiunge la Corte – è addirittura possibile ottenere il risarcimento dei danni morali anche senza una pronuncia di addebito. Si pensi al caso di chi tradisce il coniuge, con modalità umilianti, quando ormai il matrimonio è naufragato per altre ragioni. In un caso del genere, infatti, non è l’infedeltà la causa della separazione e ciò implica l’assenza di addebito; ma non bisogna neanche sottostimare le modalità con cui è avvenuto l’adulterio che, avendo leso la dignità della vittima, consentirà di ottenere il risarcimento dei danni.

Dalla sintesi di questi principi esce fuori la massima che la Cassazione, nella sentenza in commento, ha così sintetizzato: «la natura giuridica del dovere di fedeltà derivante dal matrimonio implica che la sua violazione non sia sanzionata unicamente con le misure tipiche del diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, ma possa dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali, senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a ciò preclusiva». A patto, però, che «la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore o alla dignità personale».

Avv. Claudia Romano

Grayscale photo of person covering face

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