Il Consiglio di Stato è stato recentemente chiamato ad interpretare la portata dell’art. 40, comma 1, lett. c) del d.lgs. n°151 del 26 marzo 2001, chiarendo se il riconoscimento di periodi di riposo al padre lavoratore dipendente di un figlio di minore di anni uno, di cui al precedente art. 39, debba intendersi limitato al solo caso espressamente previsto “in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, ovvero estendersi a “qualsiasi categoria di lavoratrice non dipendente, e quindi anche alla ‘casalinga’, ovvero solo alla lavoratrice autonoma o libero professionista, posizione che comporta diritto a trattamenti economici di maternità a carico dell’Inps o di altro ente previdenziale” e se “in caso di risposta affermativa, se il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri previsti dall’articolo 40 del d.lgs. n. 151 del 2011 abbia portata generale, ovvero sia subordinata alla prova che la madre ‘casalinga’, considerata alla stregua della lavoratrice non dipendente, sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero affetta da “infermità”, seppure temporanee e/o non gravi”.

La Corte, in sessione plenaria, con sentenza n°17/2022, depositata il 28 dicembre 2022, ripercorre i previgenti e contrastanti orientamenti giurisprudenziali e, operando un condivisibile “bilanciamento tra diritti’, connessi alla genitorialità ed al economico sacrificio imposto al datore di lavoro” enuncia il seguente condivisibile principio di diritto: “L’articolo 40, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente articolo 39, sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti, e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgono dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità”.

(Corte di Giustizia UE – Causa C-624/19 – sentenza del 3 giugno 2021)

L’uguaglianza tra le donne e gli uomini rappresenta uno dei principi fondamentali sanciti dal diritto comunitario.

L’interesse verso la parità di genere ha, infatti, radici profonde nella Comunità Europea e il desiderio di costruire una società basata sulla piena partecipazione dei generi alla vita economica, sociale, politica, culturale degli Stati membri sembrerebbe già iscritta nel Trattato istitutivo della Comunità Europea (TCE) con la previsione, all’art  119 TCE, del diritto alla parità di trattamento in materia retributiva.

Tale principio viene sancito anche dall’art. 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) il quale prevede che ciascuno Stato membro debba assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile «per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore».

Con la recentissima sentenza in commento la Corte di Giustizia Ue si è pronunciata proprio su una domanda di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione del suddetto articolo TFUE, sollevata nell’ambito di una controversia tra circa 6mila lavoratori e una società di rivendita al dettaglio inglese, in merito alla rivendicazione della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici.

Il Tribunale del lavoro nazionale aveva sospeso il procedimento in oggetto per chiedere alla Corte europea se tale disposizione potesse essere invocata quale norma ad efficacia diretta nelle controversie tra privati nelle quali è contestato il mancato rispetto del principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici per un “lavoro di pari valore”.

Preliminarmente, la Corte ha affermato la propria competenza, in applicazione dell’articolo 86 dell’accordo sul recesso, a pronunciarsi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale, nonostante il recesso del Regno Unito dall’Unione europea, in quanto la domanda era stata presentata prima della fine del periodo di transizione, fissata al 31 dicembre 2020.

Nel merito, la Corte ha quindi affermato la diretta applicabilità nelle cause nazionali tra aziende e dipendenti del disposto dell’articolo 157 del Tfue. Ma soprattutto ai fini dell’operatività della norma ha parificato la nozione di “stesso lavoro ” e di “lavoro di pari valore”.

Non solo.

Il giudice europeo ha anche tracciato La Corte la strada del ragionamento che deve seguire il giudice per operare il raffronto tra i trattamenti diversi ai fini di ristabilire la parità retributiva: il paragone è possibile se le diverse situazioni siano riconducibili a un'”unica fonte”.

E tale unicità è ravvisabile quando il datore di lavoro è il medesimo anche se i lavoratori posti a confronto sono assegnati a sedi o stabilimenti diversi dell’impresa.

Questo è il presupposto per l’applicazione diretta dell’articolo 157 del Tfue che, appunto, non è limitato alle situazioni in cui i lavoratori di sesso diverso messi a confronto svolgono uno «stesso lavoro», ma si estende anche a quelle relative a un «lavoro di pari valore».

La questione se i lavoratori interessati svolgano uno «stesso lavoro» o un «lavoro di pari valore» comporta una valutazione di fatto del giudice.

La norma del Tfue è quindi un principio generale che non necessità del filtro di norme attuative nazionali. Esso però non è applicabile – conclude la Cgue – quando le diverse situazioni non possano essere ricondotte ad un’unica fonte: venendo a mancare il soggetto che possa ristabilire la parità di trattamento.

Ed è l’identità del datore che costituisce tale fonte unica anche in caso di dipendenti che lavorano in diversi stabilimenti della sua impresa.

Avv. Claudia Romano

Woman working on her laptop[:]

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Un lavoratore, dipendente di banca, viene collocato in una postazione tale da essere isolato rispetto ai colleghi, con conseguente aggravamento della sua già precaria condizione psichica.

La relazione del consulente tecnico di ufficio, disposta in corso di causa, accertava che l’isolamento in cui era stato posto il bancario poteva aver influito negativamente sul suo stato psichico. La condizione di isolamento, in altri termini, aveva comportato l’aggravamento della malattia, caratterizzata da crisi d’ansia, da cui era affetto l’uomo.

Di qui il risarcimento del danno biologico riconosciuto in primo e in secondo grado a favore del lavoratore a causa dalle scelte effettuate dall’istituto di credito.

La società datrice di lavoro ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte d’Appello, in Corte di Cassazione, sottolineando come gli accertamenti del C.T.U. avevano escluso che il luogo di lavoro in cui operava il dipendente potesse ritenessi una concausa del danno alla salute e che l’aggravamento della malattia era quindi da ricondurre esclusivamente alla decisione del lavoratore di sospendere la terapia medica.

La Cassazione, con sentenza del 13 maggio 2016,  n°9899, confermando la sentenza dei colleghi di merito, ha operato delle puntualizzazioni sul nesso di causalità fra l’emarginazione messa in atto nei confronti del lavoratore e l’evento della patologia.

Nel concetto di mobbing, afferma la Corte,  rientrano un insieme di condotte che consistono sia in continue critiche all’operato del lavoratore, nell’assegnazione di compiti dequalificanti, o che si estrinsecano in una emarginazione del lavoratore attraverso la non comunicazione e l’ostilità. Tutte queste forme di mobbing in definitiva tendono a mortificare la sua personalità, ledendone quindi l’integrità psicofisica. Ne può conseguire quindi l’insorgenza di una situazione di costante tensione e stress nel dipendente che può altresì causare la nascita di una patologia o l’aggravamento di una già preesistente.

Quando si procede alla liquidazione del danno (da mobbing, da infortunio, da malattia professionale), verificatosi nel luogo di lavoro, è necessario fare riferimento all’art. 41 del cod. pen. Detta norma enuncia il cosiddetto principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo cui deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che ha contribuito alla produzione dell’evento danno in via anche indiretta. In tal senso la presenza di altre cause ritenute idonee a determinare il danno (es. una malattia) non esclude il diritto al risarcimento. Deve applicarsi il principio di cui all’articolo 41 cod. pen. anche nel caso di danno biologico provocato dell’esclusione lavorativa in cui si è venuto a trovarsi il lavoratore; danno biologico che, come noto, si connota per essere un danno conseguenza, disfunzionale, che prescinde dalla capacità economica del danneggiato e che consiste nel risvolto negativo che la deminutio della salute determina sulla vita del soggetto.

Ad avviso dei giudici di legittimità è ben vero che la sospensione della terapia medica da parte del lavoratore poteva aver contribuito a determinare un peggioramento della malattia; tuttavia, l’isolamento cui quest’ultimo era stato posto aveva influito altresì negativamente sul suo stato psichico. La ratio sottesa a tale motivazione è da ricondurre quindi al presupposto dell’applicabilità al caso di specie – e in generale alla materia degli infortuni-malattie sul lavoro – del principio di equivalenza delle concause lavorative nella verificazione dell’evento dannoso. Inoltre, ad avviso della Suprema Corte il nesso causale fra l’evento e il danno non era stato interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento ed in particolare dalla circostanza della sospensione della terapia decisa dal lavoratore.

Di qui il rigetto del ricorso del datore di lavoro e la  conferma del risarcimento a favore del lavoratore per il danno biologico subito.

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[:it]Il nuovo testo dell’art. 18 Legge 300/1970, per espressa disposizione del D.Lgs. 165/2001, si applica anche al pubblico impiego “contrattualizzato”, cioè a tutti i dipendenti statali e locali tranne professori, magistrati e militari, senza distinzioni tra pubblico e privato impiego.

È quanto  stabilito la Corte di Cassazione, con sentenza 26 novembre 2015 n. 24157

Infatti, l’articolo 51 del d.lgs. n. 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego) stabilisce che lo Statuto dei lavoratori, con le sue “successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.

Il nuovo testo dell’art. 18 Legge 300/1970, così come novellato dall’art. 1 Legge n. 92/2012 trovi “applicazione ratione temporis al licenziamento di cui al processo in corso, e ciò a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione (tra l’altro successive ai fatti) di cui alla legge c.d. Fornero”.[:]

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La malattia del lavoratore costituisce situazione diversa dalla sua inidoneità al lavoro.

Infatti, pur essendo entrambe cause di impossibilità della prestazione lavorativa, esse hanno natura e disciplina diverse, poiché mentre la prima ha carattere temporaneo e implica la totale impossibilità della prestazione – che determina la legittimità del licenziamento, ex art. 2110 c.c., quando abbia causato l’astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto – la seconda ha carattere permanente o, quantomeno, durata indeterminata o indeterminabile e non implica necessariamente l’impossibilità totale della prestazione.

Più dettagliatamente, la inidoneità al lavoro consente la risoluzione del contratto, ex artt. 1256 e 1463 c.c., eventualmente previo accertamento di essa con la procedura di cui all’art. 5 della legge n°300/1970 dello Statuto dei Lavoratori, indipendentemente dal superamento del periodo di comporto.

Nel caso in esame il datore di lavoro, senza richiedere il controllo pubblico delle assenze per infermità, ex art. 5, comma 2 della legge n. 300/70 citata, attivava la verifica prevista dall’art. 5, comma 3, finalizzata ad accertare la sussistenza o meno dell’idoneità al lavoro.

Di qui la risposta positiva fornita dalla Commissione medica presso la A.S.L., che non escludeva di per sé la sussistenza della inabilità temporanea, certificata dal medico curante del lavoratore.

Ne consegue l’illegittimità del licenziamento irrogato al lavoratore sul rilievo che, avendo la struttura pubblica rilevato la idoneità al lavoro del prestatore, non sussisteva la infermità dedotta a giustificazione della protratta assenza dal lavoro, pertanto ingiustificata con conferma della gravata pronuncia.

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[:it]La Corte di Cassazione,  con la sentenza 2 settembre 2015 n.17433, afferma che è lecito licenziare la colf o la badante rimasta incinta non è illecito.

E ciò in quanto l’art. 62 del D.lgs.151/01, nel richiamare le varie norme applicabili al lavoro domestico, omette di citare quella in tema di divieto di licenziamento durante la maternità. Conseguentemente le lavoratrici domestiche non godono degli stessi diritti riconosciute alle altre lavoratrici madri e possono essere licenziante anche in gravidanza.

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Atto costitutivo e statuto della società a responsabilità limitata semplificata – MINISTERO DELLA GIUSTIZIA DECRETO 23 giugno 2012, n. 138

Regolamento sul modello standard di atto costitutivo e statuto della società a responsabilità limitata semplificata e individuazione dei criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci in attuazione dell’articolo 2463-bis, secondo comma, del codice civile e dell’articolo 3, comma 2, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, recante Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività. Gazzetta n. 189 del 14 agosto 2012 – MINISTERO DELLA GIUSTIZIA DECRETO 23 giugno 2012, n. 138

IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA di concerto con IL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE e con  IL MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO

Visto l’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400;

Viste le disposizioni contenute nel libro V, titolo V, capo VII del regio decreto 16 marzo 1942, recante Approvazione del testo del codice civile ed in particolare l’articolo 2463-bis, aggiunto dall’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, recante Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività;

Visto l’articolo 3, comma 2, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, recante Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività;

Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso dalla sezione consultiva per gli atti normativi nell’adunanza del 7 giugno 2012;

Vista la comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri in data 20 giugno 2012 Prot. N. 5117;

Adotta

il seguente regolamento:

Art. 1 Modello standard dell’atto costitutivo e dello statuto della società a responsabilità limitata semplificata

  1. L’atto costitutivo, recante anche le norme statutarie, della società a responsabilità limitata semplificata di cui all’articolo 2463-bis del codice civile é redatto per atto pubblico in conformità al modello standard riportato nella tabella A allegata al presente decreto.
  2. Si applicano, per quanto non regolato dal modello standard di cui al comma 1, le disposizioni contenute nel libro V, titolo V, capo VII del codice civile, ove non derogate dalla volontà delle parti.

Art. 2 Individuazione dei criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci della società a responsabilità limitata semplificata

  1. Il notaio, nel ricevere l’atto di cui all’articolo 1, accerta, con le modalità di cui all’articolo 49 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, che l’età delle persone fisiche che intendono costituire una società a responsabilità limitata semplificata é quella prevista dall’articolo 2463-bis del codice civile.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. É fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a Roma, addi’ 23 giugno 2012

Il Ministro della giustizia Severino

Il Ministro dell’economia e delle finanze Grilli

Il Ministro dello sviluppo economico Passera

Visto, Il Guardasigilli: Severino

Registrato alla Corte dei conti il 13 agosto 2012 Registro n. 7, foglio n. 371

TABELLA A

(art. 1, comma 1)

Parte di provvedimento in formato grafico

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L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n°02/2012 del 9 gennaio, ha chiarito che l’equa indennità liquidata ad un avvocato che svolga la funzione di amministratore di sostegno costituisce reddito da lavoro autonomo.

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Il caso

Un giovane immigrato, «soggiornante in Italia, privo di adeguata formazione scolastica e professionale, in cerca di occupazione», dopo essere stato investito da un motociclo, conviene in giudizio il conducente e la compagnia assicurativa di quest’ultimo, al fine di essere risarcito.

Il giovane:

–   in primo grado, ottiene la condanna al risarcimento del danno alla salute, avendo riportato lesioni ad una gamba, con postumi permanenti pari al 10% sotto il profilo del danno biologico;

–   ricorre in appello per ottenere anche il risarcimento del danno da lucro cessante, in virtù della diminuzione della capacità lavorativa generica e specifica, ma il suo gravame viene respinto;

–   si rivolge quindi alla Cassazione, dolendosi del fatto che – a suo avviso  – il giudice di merito avesse erroneamente inquadrato il danno da incapacità lavorativa generica nell’ambito del danno biologico, mentre quest’ultimo, in realtà, atteneva non tanto alla capacità di produrre reddito quanto piuttosto alla lesione dell’integrità psico-fisica, idonea ad incidere negativamente sulle attività quotidiane e sulla vita di relazione del danneggiato.

I Giudici di legittimità, con la sentenza 24 febbraio 2011, n. 4493, in esame, hanno affermato:

–   che la categoria concettuale della incapacità lavorativa generica, elaborata prima dell’individuazione di quella del danno alla salute al fine di evitare che il danneggiato privo di redditi di lavoro non conseguisse alcun risarcimento (diverso da quello connesso al danno morale), non può essere utilizzata – ammesso che ancora conservi un’utilità individuante – per riconoscere in modo sostanzialmente automatico un danno patrimoniale da lucro cessante come conseguenza delle lesioni, che possono non essere suscettibili di incidere sulla concreta attitudine del soggetto leso a produrre un reddito sia nel caso che egli già svolga un determinato lavoro, sia nel caso che ancora non eserciti un’attività lavorativa; in tale secondo caso, la valutazione prognostica del giudice è tanto più agevole quanto maggiore è la gravità dei postumi, posto che un elevato grado di invalidità permanente è tendenzialmente idoneo ad incidere negativamente sulla capacità di guadagno del soggetto in relazione a pressochè ogni genere di lavoro;

–   che è quindi necessario tenere distinti il danno biologico e il danno che incide sul piano economico reddituale, «dovendosi avere riguardo per il primo, prevalentemente, alla gravità della inabilità e per il secondo alla riduzione della capacità di guadagno»;

–   che, pertanto i postumi permanenti di piccola entità, non essendo idonei ad incidere sulla capacità di guadagno, non pregiudicano la capacità lavorativa e “rientrano” invece nel danno biologico come menomazione della salute psicofisica della persona.

In conclusione quindi:  allorquando il grado di invalidità non consenta, per la sua entità o per il non attuale esercizio di attività lavorativa da riparte del soggetto leso, una valutazione prognostica e dunque l’apprezzamento del lucro cessante, va privilegiato un meccanismo di liquidazione, (quello del danno alla salute) capace di cogliere nella sua totalità il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica.

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