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downloadSempre più spesso i nostri Tribunali sono chiamati a pronunciarsi sul riconoscimento dello status di figlio, in particolare nei confronti del padre biologico.

Al fine di comprendere meglio la questione è necessario preliminarmente ripercorrere la disciplina relativa allo stato di figlio, contenuta nel Libro I, Titolo VII, del codice civile, distinguendo a seconda che si parli di figlio nato dentro o fuori dal matrimonio (noti un tempo come figli legittimi e figli naturali).

Partendo proprio dai figli nati da genitori coniugati, l’art. 231 c.c. prevede come regola generale che “Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.

Al fine di superare detta presunzione gli articoli 243 bis e ss. c.c. disciplinano il c.d. disconoscimento di paternità, mediante il quale il marito, la madre e il figlio possono provare che non sussista il rapporto di filiazione.

Per quanto concerne invece i figli nati fuori dal matrimonio, gli artt. 250 e ss. c.c. prevedono la possibilità per i due genitori di procedere, congiuntamente o separatamente, al riconoscimento all’atto di nascita o successivamente, mediante dichiarazione dinnanzi all’ufficiale dello stato civile.

Detta dichiarazione può essere, tuttavia, impugnata per difetto di veridicità ai sensi degli articoli 263 c.c. e seguenti. Legittimati all’impugnazione saranno l’autore stesso del riconoscimento, colui che è stato riconosciuto o chiunque altro vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile solo riguardo al figlio, dovendo di contro essere esercitata entro i termini stringenti di cui all’art. 263 c.c., da parte degli altri soggetti.

La dichiarazione di paternità o maternità può inoltre avvenire giudizialmente ai sensi degli articoli 269 c.c. e ss. su domanda dello stesso figlio o dalla madre, se minore di 14 anni, o ancora dal tutore, qualora il figlio sia interdetto, previa autorizzazione da parte del giudice tutelare.

Proprio la mancanza di termini prescrizionali per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità su domanda del figlio sono stati oggetto di una recentissima pronuncia della Suprema Corte (sez. I^, sentenza del 29 novembre 2016, n°24292).

La vicenda trae origine dal ricorso promosso da un padre biologico avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Torino aveva accolto la domanda della figlia di veder dichiarata la sua paternità, nonostante fossero decorsi oltre 40 anni dal momento in cui la stessa era venuta a conoscenza della vera identità del padre, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. proposta dal padre.

Nella specie, il padre lamentava l’incostituzionalità dell’art. 270 c.c. a causa della mancata previsione di un termine prescrizionale per l’esercizio della relativa azione da parte della figlia. Ad avviso del padre, infatti, permettere ad una persona, che conosce da 40 anni la vera identità del padre naturale e che ha vissuto tutta la vita chiamando padre il marito della madre, avrebbe comportato il sacrificio ingiustificato del “…diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo…” imponendogli così “…un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessata avrebbe potuto richiedere decenni prima”.

La Corte, tuttavia, conferma la sentenza impugnata ritenendo prevalente il diritto della figlia alla c.d. “verità biologica” della procreazione, che costituisce una delle componenti più importanti del diritto all’identità personale, diritto inviolabile della persona tutelato tanto dall’art. 2 della Costituzione quanto dall’art. 8 CEDU. Ad avviso della Corte, infatti, conoscere la vera identità dei propri genitori biologici è “una componente essenziale dell’interesse della persona che si traduce nella esigenza di garantire ad essa il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico”.  (Corte cost. n. 7/2012, n. 322/2011, n. 216 e 112/1997).

Ad avviso della Corte, inoltre, la decisione di introdurre un termine di prescrizione o di decadenza per la dichiarazione di paternità non potrebbe essere assunta da un Tribunale, spettando unicamente al Legislatore.

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downloadLa Suprema Corte si è recentemente pronunciata sul ricorso promosso da un padre biologico avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Torino aveva accolto la domanda della figlia di veder dichiarata la sua paternità, nonostante fossero decorsi oltre 40 anni dal momento in cui la stessa era venuta a conoscenza della vera identità del padre, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. proposta dal padre.

Nella specie, il ricorrente si lamentava della costituzionalità della mancata previsione di un termine prescrizionale nell’art. 270 c.c. con conseguente effetto, qualora la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità sia proposta con notevole ritardo, “…di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo e di imporgli a distanza di molto tempo un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessata avrebbe potuto richiedere decenni prima”.

Ad avviso della Suprema Corte, tuttavia, la questione è da considerarsi manifestamente infondata, in quanto:

  • la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse della persona che si traduce nella esigenza di garantire ad essa il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico” (Corte cost. n. 7/2012, n. 322/2011, n. 216 e 112/1997);
  • A ciò consegue che “…l’incertezza sullo stato filiale può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità riferibile ad ogni stadio della vita”;
  • il diritto del figlio ad uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una delle componenti più rilevanti del diritto all’identità personale che accompagna senza soluzione di continuità la vita individuale e relazionale non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi” (sul punto Corte di Cassazione, Sezione 1 civile Sentenza 9 giugno 2015, n. 11887) e “…attiene al nucleo dei diritti inviolabili della persona (articolo 2 Cost. e articolo 8 CEDU) intesi nella dimensione individuale e relazionale”;
  • ad ogni modo, non si potrebbe comunque introdurre giudizialmente un termine prescrizionale o decadenziale per la dichiarazione di paternità poiché esclusivamente il legislatore “…potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità” (v., con riguardo all’articolo 263 c.c., Corte cost. n. 7/2012, n. 134/1985);
  • ciò, anche a prescindere dalle notevoli difficoltà pratiche che presenterebbe ad ogni modo l’individuazione di un razionale dies a quo.

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Di segDiffamazioneuito,

alcune illuminanti massime giurisprudenziali che individuano il limite oltre il quale il diritto di cronaca, critica o satira non possono e non possono e non devono andare, pena condanna per diffamazione e al risarcimento del danno.

Giurisprudenza della Suprema Corte:

Cass. civ., sez. I^, sent., 21-06-2016, n. 12813

  • “In tema di risarcimento del danno ex  2043 c.c., per lesione della reputazione personale, la condotta in tesi diffamatoria della persona non va valutata quam suis, e cioè in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione, bensì come lesione dell’onore e della reputazione che la persona goda tra i consociati (Cass. 22 ottobre 2010, n. 21740)”.

 

Cass. civ., sez. III^, sent., 11-09-2014, n. 19178

  • In tema di satira (che assume connotati certamente più aspri, pungenti ed irrisori rispetto a quelli che generalmente assume l’ordinaria critica letteraria) questa Corte ha raggiunto un consolidato approdo interpretativo, stabilendo che, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato; mentre non può essere riconosciuta la scriminante di cui all’art. 51 cod. pen., nei casi di attribuzione di condotte illecite o moralmente disonorevoli, di accostamenti volgari o ripugnanti, di deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo della persona e ludibrio della sua immagine pubblica”.

 

Cass. civ., sez. III^, sent., 22-03-2012, n. 4545

  • “In tema di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste una generica prevalenza del diritto all’onore sul diritto di critica, in quanto ogni critica alla persona può incidere sulla sua reputazione, e del resto negare il diritto di critica solo perché lesivo della reputazione di taluno significherebbe negare il diritto di libera manifestazione del pensiero; pertanto, il diritto di critica può essere esercitato anche mediante espressioni lesive della reputazione altrui, purché esse siano strumento di manifestazione di un ragionato dissenso e non si risolvano in una gratuita aggressione distruttiva dell’onore”.

 

Cass. civ., sez. III^, sent., 31-03-2010, n. 7798

  • “Del resto, già questa Corte (tra le altre, Cass. n. 10495/2009) ha nettamente distinto tali tipi di forme di estrinsecazione del pensiero, affermando l’esistenza di una profonda diversità tra le notizie giornalistiche e le opere artistiche (letterarie, teatrali o cinematografiche), nel senso che le prime (che hanno la principale norma di riferimento nell’art. 21 Cost.) svolgono la funzione di “offrire” informazioni, notizie, fatti e vicende (cronaca), anche con valutazioni soggettive di ordine etico-politico (critica), mentre le seconde (fondate soprattutto sull’art. 9 Cost.e sulla configurazione del nostro ordinamento come dello “Stato di cultura”) sono connotate dalla creatività o comunque da un’attività intellettiva tendente all’affermazione di ideali e valori, che l’autore, facendoli propri, intende trasmettere agli altri. Ed è per questo che l’attività letteraria, in quanto artistica, può avere toni a volte elegiaci, altre volte comici o drammatici, ed anche fortemente critici (come nel caso in esame); pertanto, perché un’opera letteraria (artistica in senso lato) sia effettivamente lesiva dell’altrui reputazione non basta (come ritenuto dalla decisione impugnata) ritenere e accertare che l’opera artistica non sia veritiera, perché “l’arte” non deve svolgere la funzione di descrivere la realtà nel suo obiettivo e concreto verificarsi ma quella, come detto, della estrinsecazione di un modo di pensare e di essere dell’artista, in base ai suoi valori”.
  • “In proposito illogica, oltre che estremamente laconica, è su tale specifico punto la motivazione dell’impugnata decisione, nell’affermare che “il carattere meramente letterario ed astratto della prefazione è escluso dal fatto che, sia per la metodologia espositiva, sia per i concreti contenuti, lo scritto si riferisce, dichiaratamente, al concreto caso giudiziario”: infatti, non possono di certo essere la forma dell’esposizione e il riferimento a un caso giudiziario realmente avvenuto elementi valutativi di per sé sufficienti ad escludere la natura letterariadi uno scritto.”
  • “L’estrinsecazione del pensiero che si realizza mediante un’opera letteraria è diversa rispetto a quella che si compie tramite l’attività giornalistica; mentre quest’ultima, che trova il proprio fondamento nell’art. 21 Cost., svolge la funzione di offrire informazioni, notizie, fatti e vicende, anche se con l’aggiunta di valutazioni soggettive, l’opera letteraria, tutelata innanzitutto dall’art. 9 Cost., si connota per la creatività o, comunque, per l’affermazione di ideali e valori che l’autore intende trasmettere agli altri; ne consegue che, affinché un’opera letteraria assuma carattere diffamatorio, non basta che essa non sia veritiera, perché compito dell’arte non è quello di descrivere la realtà nel suo obiettivo e concreto verificarsi”.

 Cass. civ., sez. III^, sent., 07-05-2009, n. 10495

  • “Occorre innanzitutto rilevare la profonda diversità esistente tra la notizia giornalistica, l’attività saggistica o documentaristica, da una parte, e l’opera artistica, sia essa teatrale, letteraria o cinematografica, dall’altra. Le prime hanno lo scopo di offrire al lettore o allo spettatore informazioni, notizie, fatti, vicende, esposte nel loro nudo contenuto o ricostruite attraverso collegamenti e riferimenti vari, al solo scopo di rendere edotto il lettore o lo spettatore di determinati avvenimenti, oppure di ricostruire attraverso di essi un discorso che abbia un tessuto politico, narrativo, giornalistico o storico. L’opera artistica se ne differenzia per l’essenziale connotato della creazione, ossia di quella particolare capacità dell’artista di manipolare materiali, cose, fatti e persone per offrirli al fruitore in una visione trascendente gli stessi, tesa all’affermazione di ideali e di valori che possano trovare riscontro in una molteplicità di persone. Per raggiungere questo fine l’opera artistica si sviluppa attraverso toni a volta elegiaci, altre volte drammatici o comici, ed adopera gli strumenti della metafora, del paradosso, dell’iperbole; comunque, esagera nella descrizione della realtà tramite espressioni che l’amplificano, per eccesso o per difetto. Siffatta peculiare caratteristica dell’opera artistica e soprattutto l’imprescindibile deformazione della realtà in essa impressa, impone al giudice, chiamato a delibare la pretesa risarcitoria come conseguenza della diffamazione, un accertamento diverso rispetto a quello comunemente svolto con riguardo all’esercizio dell’attività giornalistica e documentaristica. Diverso sia quanto alla reale volontà, da parte dell’artista, di ledere l’altrui dignità, sia, soprattutto, quanto all’effettiva verificazione del c.d. danno – evento. 
  • Con ciò si intende dire che, per considerare effettivamente leso l’altrui onore, non è sufficiente accertare che l’opera artistica non sia veritiera, in quanto l’arte non è affatto interessata, né deputata ad esprimere la realtà nella sua verità fenomenica; così come il lettore o lo spettatore di un opera artistica teatrale o cinematografica non s’aspetta d’essere posto al corrente di notizie vere, attendendo, piuttosto, la manipolazione della realtà, finalizzata al raggiungimento di mete ulteriori ed ideali. Diversamente, si banalizza il tema e si finisce con il disconoscere affatto il diritto al libero esercizio dell’arte. Allora, perché possa dirsi verificata la diffamazione è necessario accertare che l’offesa sia arrecata al di fuori di ogni sforzo creativo e che l’espressione sia percepita dal fruitore (lettore o spettatore che sia) come vera e, dunque, offensiva della dignità, dell’onore e dell’altrui reputazione. Diversamente, vien meno l’esistenza stessa dell’illecito aquiliano.
  • Di queste esigenze s’è già accorta la giurisprudenza di legittimità, la quale, pur non essendosi finora espressa in ordine al generale problema della diffamazione da opera d’arte, ha specificamente trattato della satira, definendola una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, che può realizzarsi anche mediante l’immagine artistica, come accade per la vignetta o per la caricatura, consistenti nella consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali delle persone ritratte. Ed ha ritenuto che, nell’esercizio del diritto di satira e, dunque, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive dell’immagine altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato (Cass. 28 novembre 2008, n. 28411; 8 novembre 2007, n. 23314).
  • In questa occasione, ampliando il tema e sulla base di quanto premesso, può essere affermato il seguente principio: Perché possa dirsi concretata la diffamazione a mezzo d’opera teatrale, cinematografica o letteraria non è sufficiente che il giudice accerti la natura non veritiera di fatti o circostanze attinenti una persona menzionata, che possano potenzialmente arrecare offesa alla sua dignità, ma è necessario che accerti, altresì, che non si tratti di un’opera artistica, in quanto tale caratterizzata dalla idealizzazione della realtà ed espressa mediante le più varie figure retoriche tendenti ad una trasfigurazione creativa; che, pertanto, l’espressione diffamatoria sia stata effettivamente percepita dal pubblico dei fruitori non solo come veritiera, ma soprattutto come gratuitamente offensiva.”

Cass. civ., sez. III^, sent. 28-11-2008, n. 28411

  • “In tema di diffamazione a mezzo stampa, la satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica e può realizzarsi anche mediante l’immagine artistica come accade per la vignetta o per la caricatura, consistenti nella consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali delle persone ritratte. Diversamente dalla cronaca, la satira è sottratta al parametro della verità in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto ma rimane assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato. Non può, invece, essere riconosciuta la scriminante di cui all’art. 51 c.p. nei casi di attribuzione di condotte illecite o moralmente disonorevoli, di accostamenti volgari o ripugnanti, di deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo della persona e ludibrio della sua immagine pubblica”.

 Cass. civ., sez. V^, sent., 25-09-2008, n. 41283

  • “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto alla creazione letteraria non può scriminare offese gratuitamente rivolte ad un soggetto identificato o, comunque, facilmente identificabile e privo di rilievo nella dimensione storica e sociale rappresentata, in quanto non è mai lecita la rappresentazione negativa di persone che non abbiano significative responsabilità individuali; né detta individuazione è necessaria ai fini del risultato d’espressione artistica o di critica sociale, conseguibile anche con riferimenti generici o di fantasia; d’altro canto, l’esercizio del diritto di critica scrimina l’offesa, altrimenti illecita, solo nei limiti in cui essa sia indispensabile per l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21, con la conseguenza che rimangono ugualmente punibili le espressioni “gratuite”, cioè non necessarie all’esercizio del diritto, in quanto inutilmente volgari, umilianti o dileggianti”.

 

Cass. civ., sez. V^, sent., 23-09-2008, n. 40359

  • “In tema di diffamazione, integra la lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della “communis opinio”.

Giurisprudenza di Merito

Trib. Mondovì, 08-03-2002:

  • “In tema di diffamazione mediante opera letteraria, con riferimento all’ipotesi di pubblicazione di un romanzo di ambientazione contemporanea, non si ritiene esorbitante dal diritto di cronaca, quanto al limite della verità dei fatti, l’attribuzione, ad un personaggio nominalmente e storicamente individuato, di una condotta di vita che, pur discostandosi eventualmente per qualche aspetto dalla realtà dei fatti, sia peraltro conforme alle ricostruzioni giornalistiche e giudiziarie”.

 Trib. Piacenza, 16-05-1997

  • Lede la memoria di defunti (senza poter essere considerato legittimo esercizio del diritto di critica storica o di espressione artistica) la pubblicazione di un romanzo (dal titolo “Il bastardo di Mautana”) in cui, con modalità conclamatamente diffamatorie e senza alcuna fedeltà a fonti storiche, sono attribuite connotazioni molto negative a personaggi facilmente identificabili in persone realmente vissute, nonostante l’uso di nomi di fantasia (nella specie, la scrittrice è stata condannata alla pena di un milione di lire di multa, al risarcimento dei danni morali nella misura di lire 20.000.000, nonché al pagamento di lire 10.000.000 a titolo di riparazione pecuniaria, ex art. 12  8 febbraio 1948 n. 47, in favore di ciascuna delle due costituite parti civili).”

Trib. Piacenza, 18-04-1997

  • “Un romanzo può integrare gli estremi del reato di diffamazione a mezzo stampa nel caso in cui, dimostrata la coincidenza tra due figure rappresentate e due personaggi realmente vissuti e defunti, le modalità di rappresentazione letteraria risultino offensive della loro memoria e i personaggi in questione siano riconoscibili da una cerchia indiscriminata di lettori”.

Tribunale di Cagliari, 01-03-1989:

  • È noto, infatti, che la giurisprudenza è costantemente orientata nel senso che, nel delitto di diffamazione, non sia necessario che la persona cui è diretta l’offesa sia nominativamente indicata. È infatti sufficiente che vi siano chiari e sintomatici elementi di fatto che consentano con certezza di individuarla, e di ritenerla così ben determinabile”.
  • Commette il reato di diffamazione col mezzo della stampa l’autore di un romanzo storico-sociale i cui personaggi, ancorché indicati con nomi di fantasia, siano identificabili con fatti e persone esistenti e siano attribuiti loro comportamenti disonorevoli”.
  • All’autore di un romanzo storico-sociale di ambientazione contemporanea è imposto l’obbligo – ove non voglia incorrere nella lesione dell’altrui reputazione – di adottare le cautele necessarie a confondere il riconoscimento o a rendere quanto meno equivoca la riconoscibilità dei personaggi.”

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[:it]Risultati immagini per immagine adozione coppia omosessualeUna coppia di donne, che vive a Roma dal 2003, ha avuto una bimba all’estero anni fa con procreazione assistita eterologa per realizzare un progetto di genitorialità condivisa.

Il Tribunale dei Minorenni di Roma aveva accolto il ricorso presentato per ottenere l’adozione della figlia da parte della mamma non biologica,  la c.d. “stepchild adoption”, già consentita in altri Paesi.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 23 dicembre 2015  ha confermato la sentenza di primo grado, la prima in Italia che riconosceva la “stepchild adoption”, cioè l’adozione di una bimba da parte della compagna e convivente della madre.

Come già per la decisione sentenza del Tribunale per i Minori di Roma n. 299 del 30 giugno 2014, anche sentenza, che ne conferma il contenuto e con questo respinge il ricorso del pubblico ministero, presenta elementi su cui discutere:

il nocciolo della decisione ruota attorno alla interpretazione da dare all’articolo 44 della legge sulle adozioni, la n. 184 del 1983, che indica le eccezioni alla regola secondo cui i bambini possono essere adottati solo da un uomo e da una donna uniti in matrimonio; e, in particolare, alla lettera d) di tale articolo che permette l’adozione “quando vi sia la constatata impossibilità di un affidamento preadottivo”.

Per la Corte di appello di Roma, invece,  detta impossibilità deve intendersi non solo come “di fatto” (e cioè che per il minore non si sia stato possibile trovare alcun aspirante all’affidamento), ma anche come impossibilità “di diritto”. Cioè a dire, dato che nel caso in esame era “impossibile” l’affidamento preadottivo della bambina perché la legge italiana lo permette solo a coppie coniugate, e quindi non alla convivente della madre biologica, deve ritenersi possibile l’adozione da parte della compagna della madre.

In tal modo viene garantita alla bambina e alla famiglia di questa il pieno esercizio dei diritti conseguenti dall’intreccio dei rapporti familiari esistenti. E ciò non comporta alcuna contrarietà all’ordine pubblico internazionale, dal momento che aggiunge diritti e possibilità alla bambina, soprattutto in materia alimentare, preservando altresì ogni legame con la madre biologica.

Si noti bene:

  • la 1^ sezione civile della Cassazione, con sentenza 27 settembre 2013 n°22292, ha ritenuto che la nozione di “impossibilità di affidamento preadottivo” “attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella del contrasto con l’interesse del minore (che viene ampiamente richiamato nella pronuncia del TM Roma), essendo le fattispecie previste dalla norma tassative e di stretta interpretazione”.
  • Svariate sentenze della Corte di Cassazione e della Corte europea dei diritti umani hanno, invece, riconosciuto la piena dignità giuridica delle famiglie omogenitoriali, vuoi ricomposte, vuoi originarie; e cioé ove il progetto procreativo è iniziato e si è esaurito in seno alla coppia mediante accesso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, o anche di maternità surrogata. Si cita, a titolo esemplificativo: 11 gennaio 2013, n. 601, in tema di asserita dannosità dell’ambiente familiare incentrato su una coppia omossessuale; Corte eur. dir. um., 26 giugno 2014, ric. n. 65192/11 e 65941/11, risp. Labassee v. France e Mennesson v. France; 27 gennaio 2015, ric. n. 25358/12, Paradiso et Campanelli c. Italie.
  • L’Italia infatti insieme a Polonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Bulgaria, è uno degli otto Paesi (su ventotto) dell’Unione europea che non riconosce in nessuna forma le coppie gay, né i loro figli.

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[:it]Risultati immagini per immagine vecchiettaIl Giudice tutelare, ai fini dell’apertura dell’amministrazione di sostegno, deve effettuare il seguente triplice accertamento concernente:

– la sussistenza o meno di una infermità e/o di una menomazione;

– la verifica di una effettiva impossibilità, anche parziale, della persona beneficiaria di attendere ai propri interessi;

– il riscontro di un nesso causale tra le circostanze sopraesposte.

In tale ottica, il Giudice tutelare ritiene la misura di limitazione della capacità di agire, determinata dalla nomina di un Amministratore di Sostegno, come “iniqua e superflua” a fronte: – della presenza di una rete familiare attenta alle esigenze della persona beneficianda, priva al suo interno di conflittualità, o tacciabile di un qualche, pur recondito, sospetto in ordine a velleità di approfittamento; – dell’intervento mirato dei soggetti istituzionali, primo su tutti, il servizio sociale, deputati all’ausilio delle persone variamente bisognose; – della disponibilità, in termini di piena e sufficientemente informata accettazione, da parte del soggetto bisognoso, ad avvalersi dell’aiuto proveniente dai predetti soggetti; – della limitata difficoltà di compimento delle “attività di protezione”, in riferimento ad una agevole sormontabilità delle problematiche di natura pratica, burocratica e giuridica che via via si vadano a presentare.

Si deve infatti escludere l’impossibilità, in capo al beneficiando, di attendere ai propri interessi, rendendo superflua ed inutilmente gravatoria l’apertura della misura di protezione, ed inducendo pertanto il Giudice tutelare al rigetto del ricorso.

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