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(Cass. civ., Sez. Unite, 28 settembre 2020, n. 20443)

Esistono vari rimedi a disposizione del coniuge o dell’ex partner (nel caso di coppia di fatto) qualora l’altro non versi l’assegno per i figli stabilito dal giudice.

Un valido strumento di pressione per il genitore inadempiente, specie nel caso in cui questi, per motivi di lavoro o di piacere, sia solito recarsi all’estero. Infatti, la libertà “di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi” sancita dalla nostra Costituzione può trovare, in taluni casi, dei limiti, come quando ci si sottragga al proprio obbligo di assistenza economica nei confronti della prole.

Pertanto, qualora un genitore non adempia agli obblighi alimentari nei confronti della prole e scaturenti da una pronuncia del giudice, l’altro potrà decidere:

  • di non dare il proprio consenso al rilascio del passaporto; oppure (se l’abbia già fatto)
  • di revocare il consenso già prestato tramite una semplice dichiarazione in Questura.

Nel caso di specie, gli Ermellini hanno affermato che il ritiro del passaporto e l’annotazione “non valida per l’espatrio” sulla carta d’identità del genitore obbligato al mantenimento di figli minori sono provvedimenti vincolati per l’amministrazione. Il provvedimento amministrativo della Questura, dunque, «si limita a fotografare una situazione di fatto: quella del ritiro dell’assenso».

In questi casi, il genitore che si veda negare o revocare il consenso al passaporto sarà costretto a rivolgersi al giudice tutelare, il quale convocherà davanti a sé entrambi i genitori per valutare, sulla base delle loro dichiarazioni, se dare o meno la propria autorizzazione all’espatrio.

Avv. Claudia Romano

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classmates-snack-time-1465989-1279x1251A distanza di pochi mesi dal deposito della sentenza n°20504 del 30 luglio 2019, con cui le Sezioni Unite avevano ritenuto obbligatoria la fruizione della mensa scolastica da parte degli alunni in quanto rientrante nella finalità di “educazione alimentare” perseguita dal sistema scolastico italiano, il T.A.R. Lazio ritorna sull’annosa questione della legittima scelta da parte dei genitori di preferire il pranzo da casa.

In particolare, ad avviso del giudice amministrativo, non vi sarebbero ragioni per impedire ai genitori la facoltà di scegliere tra mensa scolastica e pranzo da casa:

  • essendo il servizio di ristorazione scolastica previsto dal D.M. 31 dicembre 1983 “…facoltativo sia per l’Ente Locale, libero anche di non erogarlo, sia per l’utenza, libera di non servirsene”;
  • dovendo essere “…riconosciuto agli studenti non interessati a fruire del servizio mensa il diritto a frequentare ugualmente il tempo mensa, senza essere costretti ad abbandonare i locali scolastici in pieno orario curriculare”;
  • essendo innecessario e sproporzionato, al fine di “…prevenire il rischio igienico-sanitario”, vietare agli studenti di portare il pranzo da casa in considerazione del fatto che gli stessi discenti sono ad ogni modo liberi di portare da casa le merende del mattino.

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facebookA molti sarà capitato di pubblicare contenuti sulla propria pagina Facebook, che vengono “segnalati” ingiustamente. Ad alcuni sarà anche capitato di veder sospeso o cancellato il proprio profilo, senza avere modo di giustificarsi al fine di evitare l’ingiusta sanzione.

Di recente, il Tribunale di Pordenone si è trovato a pronunciarsi su un ricorso ex art. 700 c.p.c. e ex art. 614 bis c.p.c. con cui un utente, lamentando la chiusura arbitraria del proprio profilo da parte del gigante dei social, ha chiesto l’immediato ripristino del proprio profilo personale e la fissazione “… di una somma di denaro da versarsi in favore del Ricorrente per ogni giorno di ritardo nell’eseuczione del provvedimento imposto in capo alla Resistente c.d. ‘astreintes’)”.

I fatti di cui è causa

Un utente di facebook condivideva sul proprio profilo il video del punto decisivo della finale del Torneo di Wimbledon, tratto dal profilo pubblico del torneo stesso, salvo poi venire segnalato da una società estera, la Star India Private Limited, per violazione del diritto d’autore. L’utente, in buona fede, rappresentava immediatamente di aver tratto il video dalla pagina ufficiale del torneo, inviava una lettera di scuse alla società segnalatrice e rimuoveva immediatamente il video oggetto di segnalazione.

Il ravvedimento e la buona fede dell’utente, tuttavia, non sortivano gli effetti sperati. Facebook, infatti, decideva unilateralmente e senza concedere la possibilità di giustificarsi, di chiudere il suo account.

Questi, lungi dal desistere, ricorreva al Tribunale di Pordenone citando l’azienda americana, la quale tuttavia non compariva in udienza.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale friulano, investito della questione, preliminarmente conferma la propria competenza quale foro del consumatore, richiamando sul punto la celebre sentenza Corte di Giustizia dell’Unione europea del 6 ottobre 2015, (caso C-362/14, c.d. Max Schrems).

Passando al merito, il Tribunale friulano, ravvisando la sussistenza di un vero e proprio contratto tra utente e social network, identifica tra le prestazione di Facebook quella dell’offerta “…di un preciso servizio telematico basato sul libero accesso ed utilizzo della propria piattaforma web” e ciò in conseguenza:

  • delle obbligazioni assunte da Facebook al momento dell’attivazione dell’account dell’utente, tra le quali è espressamente prevista quella di garantire all’utente la “…possibilità di esprimersi e comunicare in relazione agli argomenti di interesse…”;
  • di quanto sostenuto dallo stesso social network, alla punto secondo della sezione 1 delle condizioni di utilizzo: “…aiutando l’utente a trovare e a connettersi con persone, gruppi, aziende, organizzazioni e altri soggetti di interesse”.

Secondo il giudicante, Facebook, cancellando arbitrariamente il profilo dell’utente “…pur in assenza di una chiara, seria e reiterata violazione dell’utente delle condizioni contrattuali o della normativa”:

  • avrebbe adottato “…un rimedio del tutto sproporzionato rispetto agli addebiti mossi…”;
  • avrebbe pertanto violato “…non solo le regole contrattuali dalla stessa stabilite, ma anche il diritto di libera espressione del pensiero come tutelato dalla Costituzione”.

Il Tribunale ritiene altresì sussistenti i presupposti per l’adozione:

  • tanto delle misure richieste ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ritenendo ravvisabile la sussistenza del periculum in mora presupposto per l’adozione del provvedimento d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c. – nella circostanza “…che il prolungarsi del ‘congelamento’ della pagina Facebook determina l’assoluta perdita di interesse degli utenti nei confronti della stessa e, di conseguenza la vanificazione di tutto il tempo speso e l’attività svolta dal ricorrente per la sua implementazione, con l’irrimediabile perdita dei followers finora acquisiti”;
  • tanto delle c.d. “astreintes” ex art. 614 bis c.p.c., vale a dire di “…quello specifico ventaglio di strumenti di coartazione della volontà del debitore che si concretano della minaccia di sanzioni civili o penali, al fine di costringerlo ad adempiere ai suoi obblighi”, in quanto la richiesta di riattivazione dell’account utente, avrebbe natura di obbligazione incoercibile di facere – “…vale a dire da una quota di prestazione non attuabile mediante i mezzi di esecuzione forzata previsti dall’ordinamento, richiedendosi una non surrogabile attività di collaborazione o cooperazione ad opera del soggetto obbligato o di un soggetto terzo”.

Il Tribunale di Pordenone, pertanto, in accoglimento del predetto ricorso:

  • “…ordina[va] a Facebook Ireland Limited l’immediato ripristino del profilo personale del Ricorrente presso il proprio portale e, per l’effetto, l’immediata riattivazione del relativo accesso alla gestione della pagina;
  • “…ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. dispone[va] che Facebook Ireland Limited paghi al signor ___ una penale pari ad Euro 150,0 per ogni giorni di ritardo nell’esecuzione del presente procedimento…”.

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[:it]downloadDi recente, l’Avvocato Generale Wathelet, tra i massimi esperti di diritto internazionale privato dell’UE, ha presentato delle interessanti conclusioni all’interno della richiesta di rinvio pregiudiziale presentata dalla Corte Costituzionale della Romania, ritenendo gli Stati membri obbligati a concedere ai coniugi, anche dello stesso sesso, di cittadini UE il permesso a soggiornare permanentemente sul proprio territorio.

Il giudizio a quo

 La vicenda trae origine dalla diniego opposto dalle autorità rumene alla richiesta, presentata da parte di un cittadino rumeno, del rilascio in favore del proprio coniuge – cittadino statunitense con il quale aveva convissuto per 4 anni negli U.S.A., per poi sposarsi a Bruxelles e ritrasferirsi con quest’ultimo in Romania – dei documenti necessari affinché questi potesse ivi lavorare e soggiornare in modo permanente.

Detto diniego veniva motivato sulla scorta del mancato riconoscimento da parte della Romania dei matrimoni tra le persone dello stesso sesso, con conseguente impossibilità, ad avviso delle autorità rumene, di poter concedere al sig. Hamilton il diritto di soggiorno spettante, secondo la Direttiva 2004/38/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, al coniuge di un cittadino UE.

La coppia decide pertanto di proporre ricorso avverso detta decisione, sollevando un’eccezione di incostituzionalità relativa all’art. 277, paragrafi 2 e 4 del c.c. rumeno, ritenendo che “…il mancato riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso conclusi all’estero, ai fini dell’esercizio del diritto di soggiorno, costituisce una violazione delle disposizioni della Costituzione rumena che tutelano il diritto alla vita intima, familiare e privata nonché delle disposizioni relative al principio di uguaglianza”.

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE

La Corte costituzionale, investita della questione, decide pertanto di interrompere il giudizio, sottoponendo alla CGUE le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)   Se il termine “coniuge”, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si applichi a un cittadino di uno Stato che non è membro dell’Unione, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione con il quale egli è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante.

2)   In caso di risposta affermativa, se gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo [2], della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione.

3)     In caso di risposta negativa alla prima questione, se il coniuge dello stesso sesso, proveniente da uno Stato che non è membro dell’Unione, di un cittadino dell’Unione con il quale il cittadino si è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante, possa essere qualificato come “ogni altro familiare” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38 o “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2004/38, con il corrispondente obbligo dello Stato ospitante di agevolare l’ingresso e il soggiorno dello stesso, anche se lo Stato ospitante non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso né prevede qualsiasi altra forma alternativa di riconoscimento giuridico, come le unioni registrate.

4)     In caso di risposta affermativa alla terza questione, se gli articoli 3, paragrafo 2, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione».

Le conclusioni dell’A.G.

Sulla questione ha espresso le seguenti condivisibili valutazioni, l’avvocato Generale Watelet.

Partendo dal dato normativo, il prof. Watelet, afferma che:

  • l’art. 3, par. 1 della Direttiva 2004/38/CE, definisce gli aventi diritto come “…qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché [i] suoi familiari ai sensi dell’articolo 2, punto 2, che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo…”;
  • detta direttiva, di per sé, non consente “…di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore di cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possieda la cittadinanza”;
  • tuttavia, vi sono alcuni casi in cui “…un diritto di soggiorno derivato possa fondarsi sull’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e che, in tale contesto, la direttiva 2004/38 debba essere applicata per analogia...”;
  • ciò accade, in particolare, come già sottolineato dalla CGUE, «…quando, nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante, ai sensi e nel rispetto delle condizioni dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’efficacia pratica dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE impone che la vita familiare che detto cittadino abbia condotto nello Stato membro ospitante possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di un paese terzo. Difatti, in mancanza di un siffatto diritto di soggiorno derivato, tale cittadino dell’Unione sarebbe dissuaso dal lasciare lo Stato membro di cui possiede [la] cittadinanza al fine di avvalersi del suo diritto di soggiorno, ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, in un altro Stato membro, a causa della circostanza che egli non ha la certezza di poter proseguire nello Stato membro di origine una vita familiare con i propri stretti congiunti sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante…»;
  • l’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38/CE “…non contiene alcun rinvio al diritto degli Stati membri per determinare la qualifica di «coniuge”, con la conseguenza di dover dare una nozione di “coniuge”, ai sensi della predetta direttiva, che sia autonoma e uniforme per l’intera Unione, indipendentemente dalla definizione data dai singoli Stati membri;
  • la nozione “evolutiva” di coniuge, recepita dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha portato a ritenere inaccettabile una disparità di trattamento basata unicamente e/o prevalentemente su “…considerazioni relative all’orientamento sessuale delle persone interessate…”, con conseguente necessità di attribuire alla nozione di coniuge ai sensi dell’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38 “…autonoma indipendente dall’orientamento sessuale”.

Sulla stregua di dette premesse, l’avvocato generale conclude, pertanto, affermando che:

«1)  L’articolo 2, punto 2, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE dev’essere interpretato nel senso che la nozione di “coniuge” si applica a un cittadino di uno Stato terzo sposato con un cittadino dell’Unione europea dello stesso sesso.

2)   Gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 devono essere interpretati nel senso che il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione che accompagna detto cittadino nel territorio di un altro Stato membro beneficia in tale Stato di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi, purché quest’ultimo risponda alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettere a), b) o c), di tale direttiva.

L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione ha sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo in occasione di un soggiorno effettivo in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza, le disposizioni della direttiva 2004/38 si applicano per analogia se detto cittadino dell’Unione rientra, con il familiare interessato, nel proprio Stato membro d’origine. In tale ipotesi, le condizioni per la concessione di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo, coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione, non dovrebbero, in via di principio, essere più severe di quelle previste all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.

3)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che è applicabile alla situazione di un cittadino di uno Stato terzo, sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso conformemente alla legge di uno Stato membro, in qualità di “altro familiare” o come “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”.

4)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che:

  • non impone agli Stati membri di concedere un diritto di soggiorno nel loro territorio per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo legalmente sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso;
  • gli Stati membri sono tuttavia tenuti ad assicurarsi che la loro legislazione contenga criteri che consentano a detto cittadino di ottenere una decisione sulla sua domanda di ingresso e di soggiorno fondata su un esame approfondito della sua situazione personale e motivata in caso di rifiuto;
  • sebbene gli Stati membri abbiano un ampio potere discrezionale nella scelta di detti criteri, questi ultimi, tuttavia, devono essere conformi al significato comune del termine “agevola” e non devono privare tale disposizione del suo effetto utile, e
  • il rifiuto opposto alla domanda di ingresso e di soggiorno, in ogni caso, non può fondarsi sull’orientamento sessuale della persona interessata».

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[:it]_86135137_polizeiA distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore del Regolamento 679/2016/UE del Parlamento e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, il Tribunale di Mantova si è pronunciato su un’interessante questione che coinvolge sempre più genitori e figli: privacy e social media.

La vicenda trae origine da un ricorso dinnanzi al Tribunale civile di Mantova da un padre per la revisione delle condizioni di affido e mantenimento di due figli minori in tenera età (rispettivamente tre anni e mezzo e due anni e mezzo), entrambi residenti con la madre. Nelle more del giudizio i genitori raggiungevano un accordo, inserendo tra le condizioni l’espresso l’obbligo a carico della madre di cancellare le innumerevoli fotografie dalla stessa “postate” sul suo profilo Facebook e di non pubblicarne di nuove. A seguito della mancata cancellazione delle foto il padre si rivolgeva al giudice chiedendo di inibire l’ex compagna dall’inserire altre foto dei figli sui social network e di rimuovere immediatamente quelle già presenti.

Il Tribunale dà ragione al marito, ordinando alla madre la pronta rimozione di ogni foto, con un’interessante motivazione basata non solo sulla violazione dell’espresso accordo raggiunto sul punto dai genitori ma soprattutto sull’interesse superiore dei bambini e sui pregiudizi che potrebbero derivare loro dalla circolazione di detto materiale in rete.

Osserva, infatti il Tribunale che:

  • dal momento che le fotografie dei minori devono considerarsi dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 (normativa in punto di privacy) e la loro diffusione integra un’illecita “…interferenza nella loro vita privata”;
  • le continue fotografie dei figli postate dalla madre sui social, in violazione degli accordi raggiunti con il padre e contro la volontà di quest’ultimo, integrano la violazione:
    1. dell’art. 10 c.c., che tutela il diritto all’immagine;
    2. del combinato disposto degli articoli 4,7,8 e 145 del d.lgs. 196/2003 nonché degli articoli 1 e 16, co. 1, della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo;
    3. l’art. 8 del neo- adottato regolamento 679/2016/UE, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio 2018.
  • la presenza di foto dei minori sui social media costituisce altresì un comportamento potenzialmente pregiudizievole per gli stessi dal momento che “…determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia”.

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Risultati immagini per immagine danno affettivoL’alterazione della vita o danno esistenziale che dir si voglia (e cioè il cosiddetto “danno esistenziale”) è una categoria di danno che non può essere liquidata sulla base di cifre ridicole e non ancorate a criteri oggettivi che prendano in seria considerazione gli effettivi pregiudizi subìti. In tal senso si è pronunciata la sentenza n. 12470 del 18 maggio 2017, della Corte di Cassazione civile che nel riconoscere il danno da “alterazione del rapporto familiare” – quale quello sofferto dalla moglie dell’infortunato gravemente invalido che vede compromessa la vita familiare, sessuale e sociale – ha affermato che lo stesso dev’essere risarcito secondo i criteri delle tabelle di Milano  e più non sulla mera applicazione di un criterio equitativo puro.

Nella fattispecie in esame un uomo, a causa di un grave sinistro stradale, riportava gravi lesioni permanenti, valutate nella misura del 70%.

Agiva in giudizio anche la moglie, al fine di ottenere il ristoro dei pregiudizi riportati a causa della completa alterazione della vita familiare, determinata dalla necessità di una continua assistenza al marito e dal deterioramento dei rapporti con lo stesso, il quale riportava postumi di carattere psichico tali da compromettere la relazione personale e affettiva con il coniuge.

Ritenendo non adeguata la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale operata dal Tribunale, giudice di primo grado, la donna promuoveva appello, chiedendo, tra l’altro, che la liquidazione del danno venisse effettuata attraverso il riferimento alle tabelle di Milano, essendo in gioco un danno talmente grave da essere equiparabile a quello derivante dalla perdita del rapporto parentale.

La Corte di Appello, giudice di secondo grado, accoglieva parzialmente l’impugnazione: – dava atto del fatto che il marito aveva riportato in conseguenza del sinistro, oltre a una grave invalidità (70%), anche alterazioni caratteriali, caratterizzate da comportamenti aggressivi con improvvisi scoppi d’ira, con conseguente deterioramento dei rapporti personali e affettivi compresi quelli di natura sessuale tra i due coniugi, oltre che nei confronti del mondo esterno; – dava atto dell’inidoneità della somma liquidata in prima istanza a coprire interamente il danno; provvedeva a rideterminare detto danno nella somma di € 60.000, sulla base di due parametri equitativi puri e cioè attribuendo un determinato valore economico a ciascun anno di futura durata della convivenza per i successivi vent’anni; e riconoscendo un valore annuo alla perdita della sfera affettiva sessuale (pari a € 2.500)  e altro valore (€ 2.500 euro) per gli oneri di assistenza.

Di diverso avviso la Corte di Cassazione, secondo cui:

– la sentenza di secondo grado non ha tenuto adeguato conto, da un punto di vista teorico-ricostruttivo, di tutte le conseguenze non patrimoniali patite dalla moglie, a seguito dell’incidente stradale che aveva coinvolto il consorte: ciò sia sotto al profilo degli obblighi assistenziali, che dello sconvolgimento della vita personale, relazionale e sessuale della ricorrente e, ancora, della sofferenza morale;

– si è consumata una violazione di legge in punto di liquidazione del danno non patrimoniale in quanto la ricorrente si è concretamente doluta in appello della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed ha versato in atti le stesse; inoltre i giudici d’appello hanno provveduto ad integrare la somma liquidata in primo grado con una cifra ulteriore, mentre “il giudice è tenuto a riconsiderare unitariamente benché nella sua articolata complessità il danno a riliquidarlo nella sua interezza, non potendosi limitare ad aggiungere una cifra per un aspetto non adeguatamente considerato dal giudice di primo grado, perché ciò contrasta con la valutazione unitaria del danno non patrimoniale, finalizzata al suo risarcimento integrale”;

– nella liquidazione del danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso a una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri obiettivi, i soli idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto e a consentire la verifica “ex post” del ragionamento seguito dal giudice in ordine all’apprezzamento della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo, dovendosi ritenere preferibile, per garantire l’adeguata valutazione del caso concreto e l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, l’adozione del criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, al quale la stessa Cassazione riconosce la valenza, in linea generale e nel rispetto dell’art. 3 Cost., di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salva l’emersione di concrete circostanze che ne giustifichino l’abbandono.

In altri termini la Cassazione rigetta il ricorso al criterio equitativo puro, osservando che “la sentenza quantifica l’importo dovuto alla ricorrente per il risarcimento del danno non patrimoniale da alterazione del rapporto parentale discostandosi dalle tabelle per far ricorso ad un criterio equitativo puro, senza giustificare in alcun modo la necessità di farvi ricorso e senza precisare per quale motivo sia impossibile, nel caso di specie, utilizzare altri più omogenei e verificabili criteri di quantificazione del danno”. E infine: il riconoscimento di un importo fisso da corrispondere alla danneggiata in relazione a ciascun anno di futura convivenza, agganciato a due diversi profili di affettività, viene circoscritto ad un periodo di vent’anni: restrizione del tutto arbitraria, considerato che tale alterazione irreversibile del rapporto non appare destinata ad evolversi positivamente con l’avanzare dell’età dei coniugi e tenuto conto che la limitazione non risulta parametrata né alle aspettative di vita della vittima diretta, né a quelle della consorte.

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downloadDi recente giornali specialistici e non hanno posto in evidenza la scelta coraggiosa operata dal Tribunale di Brindisi di riformare le Linee guida per la sezione famiglia, operando una nuova lettura delle norme in tema di affidamento dei figli, maggiormente orientata a modelli paritetici di affidamento e ad un’effettiva bigenitorialità.

Punto di partenza di tale rivoluzione è stata la presa di coscienza della mai avvenuta applicazione dei principi portanti della riforma introdotta con legge n°54 del 2006, in primis il principio della c.d. bigenitorialità, nonché del pregiudizio che il collocamento prevalente ha non solo sul legame figlio – genitore non collocatario ma anche sulla serena e corretta crescita dei figli.

A sostegno di tale inversione di tendenza, il Tribunale brindisino richiama una copiosa dottrina internazionale che ha da tempo dimostrato l’esistenza di effetti pregiudizievoli sui bambini derivanti dalla “…frequentazione di uno dei genitori per un tempo inferiore a un terzo del tempo totale”, come abitudinariamente avviene nei casi di affidamento condiviso con collocamento prevalente presso un genitore, in cui al genitore non collocatario viene di solito concesso un diritto di visita da esercitarsi per 1 o 2 pomeriggi alla settimana e nei fine settimana alternati.

A ben vedere, tale scelta coraggiosa trova altresì conforto in una precisa presa di posizione in ambito internazionale da parte del governo italiano, firmatario della risoluzione n°2079/15 del Consiglio d’Europa, contenente espresso invito agli Stati membri ad assicurare l’effettiva eguaglianza tra genitori anche attraverso la promozione della c.d. “shared residence”, definita quale “…forma di affidamento in cui i figli dopo la separazione della coppia genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre”.

Ma in cosa consistono i principali aspetti operativi di questa rivoluzione?

In primis nella soppressione della figura del genitore collocatario, con conseguente venir meno delle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare. La casa familiare, pertanto, ritornerà nella disponibilità del suo proprietario esclusivo, ovvero, qualora sia in comproprietà, “…si valuterà quale sia il costo della locazione di un appartamento di caratteristiche simili e al genitore che ne esce verrà scontato il 50% di tale cifra nel calcolo del mantenimento”.

La residenza dei figli, inoltre, avrà valenza meramente anagrafica, con conseguente domiciliazione degli stessi presso ambedue i genitori. La scelta invece della c.d. “residenza abituale” sarà definita unicamente con riferimento alla regione o stato, al solo fine di definire la competenza giurisdizionale in caso di allontanamento unilaterale di uno dei genitori insieme ai figli.

In secondo luogo, la frequentazione dei figli da parte dei genitori dovrà ispirarsi “…al principio che ciascun genitore dovrà partecipare alla quotidianità dei figli”. I genitori pertanto dovrebbero trascorrere tempi tendenzialmente paritetici con i figli, ferma la possibilità che casuali esigenze dei figli e/o oggettive e dimostrate condizioni di impossibilità materiale possano determinare una maggiore presenza di un genitore rispetto all’altro. Proprio la presa di coscienza della difficoltà che potrebbero incontrare i genitori-lavoratori a poter disporre di sufficiente tempo libero ha spinto, inoltre, il Tribunale a chiarire che non vi è alcun pregiudizio che possa derivare dall’aiuto dei familiari nell’accudimento della prole, così come in passato nulla poteva essere eccepito alla madre collocataria nell’ipotesi in cui la stessa fosse stata costretta a giovarsi dell’aiuto di una baby-sitter.

In conseguenza della ripartizione più equilibrata tra i genitori dei compiti genitoriali e del tempo da trascorrere con i figli, cambieranno anche le modalità di mantenimento dei figli. Di fatti, salvo casi di evidenti disparità economiche tra i genitori (come nel caso di famiglie monoreddito), sarà sempre da preferire il c.d. mantenimento diretto al posto della forma indiretta, consistente nel tradizionale assegno da versare al coniuge collocatario.

Per quanto attiene poi alle c.d. spese straordinarie, il Tribunale, adottando il criterio suggerito dalla Suprema Corte, con sentenza n°16664/12, predilige la distinzione non già tra spese straordinarie e non, bensì tra stese prevedibili e imprevedibili, assegnando “…in partenza le spese prevedibili all’uno o all’altro genitore per intero in funzione del reddito e stabilire che le imprevedibili verranno divise a momento in proporzione delle risorse”.

Da ultimo, il Tribunale si sofferma sull’ascolto del minore nel processo, evidenziando l’incompatibilità della discrezionale valutazione a priori, riservata dall’art. 337 octies c.c. al giudicante, circa la superfluità dell’ascolto dello stesso, prediligendo la prescrizione dell’art. 315 bis c.c.

Ci sono pronunce in senso contrario?

La Suprema Corte è di recente intervenuta sulla questione, con ordinanza n°4060 del 15 febbraio 2017, prendendo spunto dalla richiesta di un genitore di modificare il regime di affidamento alternato, originariamente concordato, con un affidamento condiviso con collocazione prevalente. La Cassazione, in particolare, ha dato atto del limitato utilizzo in Italia dell’affidamento alternato, riconoscendo che lo stesso “…tradizionalmente previsto come possibile dal diritto di famiglia italiano, è rimasto una soluzione di limitate applicazioni, essendo stato ripetutamente affermato che esso assicura buoni risultati quando non vi è un accordo tra i genitori e tutti i soggetti coinvolti, anche il figlio, condividono la soluzione”. Ad avviso della Corte, inoltre, l’affidamento alternato, comportando una modifica continua della propria casa di abitazione, potrebbe avere “…un effetto destabilizzante per molti minori”.

In conclusione, pertanto, la Suprema Corte appare voler limitare l’affidamento alternativo ad un accordo in tal senso tra i genitori e ad una volontà favorevole del minore, manifestando un evidente pregiudizio al ricorso privilegiato alla c.d. “shared residence” ogni qualvolta vi sia tensione e difficoltà di cooperazione trai genitori.

Di segno opposto appare invece l’orientamento del Tribunale di Salerno che, ispirandosi alle linee guida del Tribunale di Brindisi, sta coraggiosamente invertendo la rotta in favore di un più ampio ricorso all’affidamento alternato e paritetico tra i genitori. Emblematica, a riguardo, è la recente iniziativa del Coordinatore della I^ sez. civile del Tribunale Salernitano, dott. Jachia, pubblicata su Ilcaso.it e rubricata inequivocamente “Dall’affido condiviso dalla residenza privilegiata alla partecipazione dei genitori alla quotidianità dei figli”. Segnali favorevoli all’affidamento alternato si rinvengono anche nel Tribunale di Milano che, già due anni orsono, nella persona del noto magistrato dott. Buffone affermava in un articolo pubblicato sul sito Altalex il 13 luglio 2015 che “…salvo diversi accordi dei genitori, i figli minori hanno diritto a trascorrere pari tempi di permanenza presso l’uno e l’altro genitori a prescindere dalla residenza”.

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Welpe im ScheidungskriegIl Tribunale civile di Roma, con sentenza n°5322 del 12/15 marzo 2016, ha applicato per la prima volta la disciplina dell’affidamento condiviso ad un cane conteso da due ex conviventi more uxorio.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno, il quale le avrebbe sottratto il suo cane dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”. Di fatti, ad avviso del Tribunale, “dal punto di vista del cane, che è l’unico che conta ai fini della tutela del suo interesse, non ha assolutamente alcuna importanza che le parti siano state sposate o meno”.

Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;

condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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[:it]

Le SezioRisultati immagini per immagine cicognani unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).

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Cass. S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946 sul diritto a conoscere le proprie origini

le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).
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Cass. S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946 sul diritto a conoscere le proprie origini

le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).
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Cass. S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946 sul diritto a conoscere le proprie origini

le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).
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[:it]Risultati immagini per immagini nonni e bambiniLa legge non prevede limiti di età per chi intende generare un figlio.

Per tale ragione la Cassazione, con sentenza 30 giugno 2016 n. 13435, ha accolto il ricorso straordinario di una coppia di coniugi ai quali la figlia era stata tolta a poche settimane della nascita per abbandono di minore.

Alla base dell’accusa, oggetto anche di  un processo penale, l’aver lasciato la bambina da sola in macchina.

Nel processo si era però chiarito che la bimba non aveva corso, in realtà, alcun pericolo perché la strada, di paese, era illuminata e chiusa al transito.

I giudici civili di merito avevano però insistito  sull’età della coppia: la mamma aveva concepito la figlia a 57 anni, quando il marito ne aveva 69.

Tuttavia per i Giudici di legittimità detta circostanza, in assenza d’altro, non basta per spezzare i legami familiari.

Infatti, in tema di adozione, il prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia, sancito dall’art. 1 della l. n. 184 del 1983, impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, ai fini del perseguimento del suo superiore interesse, potendo quel diritto essere limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono – la cui dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia, come “extrema ratio” – a causa dell’irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per loro totale inadeguatezza.

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