Cass. 18 maggio 2017 n. 12470 – Il danno non patrimoniale da “alterazione della vita” va risarcito secondo le tabelle di Milano e non con criterio equitativo puro. I pregiudizi esistenziali alla vita sessuale e familiare devono essere liquidati con riferimento alle tabelle per il danno parentale
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L’alterazione della vita o danno esistenziale che dir si voglia (e cioè il cosiddetto “danno esistenziale”) è una categoria di danno che non può essere liquidata sulla base di cifre ridicole e non ancorate a criteri oggettivi che prendano in seria considerazione gli effettivi pregiudizi subìti. In tal senso si è pronunciata la sentenza n. 12470 del 18 maggio 2017, della Corte di Cassazione civile che nel riconoscere il danno da “alterazione del rapporto familiare” – quale quello sofferto dalla moglie dell’infortunato gravemente invalido che vede compromessa la vita familiare, sessuale e sociale – ha affermato che lo stesso dev’essere risarcito secondo i criteri delle tabelle di Milano e più non sulla mera applicazione di un criterio equitativo puro.
Nella fattispecie in esame un uomo, a causa di un grave sinistro stradale, riportava gravi lesioni permanenti, valutate nella misura del 70%.
Agiva in giudizio anche la moglie, al fine di ottenere il ristoro dei pregiudizi riportati a causa della completa alterazione della vita familiare, determinata dalla necessità di una continua assistenza al marito e dal deterioramento dei rapporti con lo stesso, il quale riportava postumi di carattere psichico tali da compromettere la relazione personale e affettiva con il coniuge.
Ritenendo non adeguata la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale operata dal Tribunale, giudice di primo grado, la donna promuoveva appello, chiedendo, tra l’altro, che la liquidazione del danno venisse effettuata attraverso il riferimento alle tabelle di Milano, essendo in gioco un danno talmente grave da essere equiparabile a quello derivante dalla perdita del rapporto parentale.
La Corte di Appello, giudice di secondo grado, accoglieva parzialmente l’impugnazione: – dava atto del fatto che il marito aveva riportato in conseguenza del sinistro, oltre a una grave invalidità (70%), anche alterazioni caratteriali, caratterizzate da comportamenti aggressivi con improvvisi scoppi d’ira, con conseguente deterioramento dei rapporti personali e affettivi compresi quelli di natura sessuale tra i due coniugi, oltre che nei confronti del mondo esterno; – dava atto dell’inidoneità della somma liquidata in prima istanza a coprire interamente il danno; provvedeva a rideterminare detto danno nella somma di € 60.000, sulla base di due parametri equitativi puri e cioè attribuendo un determinato valore economico a ciascun anno di futura durata della convivenza per i successivi vent’anni; e riconoscendo un valore annuo alla perdita della sfera affettiva sessuale (pari a € 2.500) e altro valore (€ 2.500 euro) per gli oneri di assistenza.
Di diverso avviso la Corte di Cassazione, secondo cui:
– la sentenza di secondo grado non ha tenuto adeguato conto, da un punto di vista teorico-ricostruttivo, di tutte le conseguenze non patrimoniali patite dalla moglie, a seguito dell’incidente stradale che aveva coinvolto il consorte: ciò sia sotto al profilo degli obblighi assistenziali, che dello sconvolgimento della vita personale, relazionale e sessuale della ricorrente e, ancora, della sofferenza morale;
– si è consumata una violazione di legge in punto di liquidazione del danno non patrimoniale in quanto la ricorrente si è concretamente doluta in appello della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed ha versato in atti le stesse; inoltre i giudici d’appello hanno provveduto ad integrare la somma liquidata in primo grado con una cifra ulteriore, mentre “il giudice è tenuto a riconsiderare unitariamente benché nella sua articolata complessità il danno a riliquidarlo nella sua interezza, non potendosi limitare ad aggiungere una cifra per un aspetto non adeguatamente considerato dal giudice di primo grado, perché ciò contrasta con la valutazione unitaria del danno non patrimoniale, finalizzata al suo risarcimento integrale”;
– nella liquidazione del danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso a una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri obiettivi, i soli idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto e a consentire la verifica “ex post” del ragionamento seguito dal giudice in ordine all’apprezzamento della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo, dovendosi ritenere preferibile, per garantire l’adeguata valutazione del caso concreto e l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, l’adozione del criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, al quale la stessa Cassazione riconosce la valenza, in linea generale e nel rispetto dell’art. 3 Cost., di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salva l’emersione di concrete circostanze che ne giustifichino l’abbandono.
In altri termini la Cassazione rigetta il ricorso al criterio equitativo puro, osservando che “la sentenza quantifica l’importo dovuto alla ricorrente per il risarcimento del danno non patrimoniale da alterazione del rapporto parentale discostandosi dalle tabelle per far ricorso ad un criterio equitativo puro, senza giustificare in alcun modo la necessità di farvi ricorso e senza precisare per quale motivo sia impossibile, nel caso di specie, utilizzare altri più omogenei e verificabili criteri di quantificazione del danno”. E infine: il riconoscimento di un importo fisso da corrispondere alla danneggiata in relazione a ciascun anno di futura convivenza, agganciato a due diversi profili di affettività, viene circoscritto ad un periodo di vent’anni: restrizione del tutto arbitraria, considerato che tale alterazione irreversibile del rapporto non appare destinata ad evolversi positivamente con l’avanzare dell’età dei coniugi e tenuto conto che la limitazione non risulta parametrata né alle aspettative di vita della vittima diretta, né a quelle della consorte.
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