[:it](Cass. civ., sez. III, sent. 23 dicembre 2020, n. 29469)

Il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte.

Tale principio, ormai radicato nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Civ. 23676/2008), ha comunque un limite: il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure.

Sulla base di tale principio, con l’ordinanza in oggetto, è stato riconosciuto il diritto di un paziente, testimone di Geova, di rifiutare la terapia trasfusionale anche in presenza precedente consenso al trattamento sanitario.

La pronuncia è scaturita dal ricorso di una donna, Testimone di Geova, che aveva agito in giudizio per chiedere il risarcimento danni e la restituzione di quanto corrisposto per l’opera professionale dei medici. In particolare, la domanda è sorta in quanto, in occasione del parto effettuato con taglio cesareo, a seguito di un’emorragia erano state eseguite trasfusioni di sangue, nonostante la contrarietà manifestata dalla donna.

Nei primi due gradi di giudizio, Tribunale e Corte d’Appello avevano ritenuto che non vi fosse stato un espresso, inequivoco e attuale dissenso all’emotrasfusione e ciò poiché, l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa, implicava – secondo i giudici di merito – l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità di trasfusioni in caso di pericolo di vita.

La Suprema Corte ha invece ritenuto che la paziente aveva il diritto di rifiutare l’emotrasfusione anche con dichiarazione formulata prima del trattamento sanitario e che l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non avesse implicato anche l’accettazione dell’emotrasfusione.

La Suprema Corte ha dunque fissato il seguente principio di diritto: «Il paziente Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita».

La pronuncia impugnata è stata pertanto annullata con rinvio alla Corte d’ Appello di Milano.

Quanto alla responsabilità dei sanitari, dato uno sguardo a quanto stabilito dalla Legge n. 219/2017, la sentenza chiarisce che «la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie».

In pratica, «prestare il consenso a un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologica professionale». Dunque, spiega la Cassazione, a fronte di tale determinazione del paziente, il medico non ha obblighi professionali.

Avv. Claudia Romano

 

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