Quanto conta la volontà del bambino per decidere il genitore collocatario?
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Non basta la volontà del figlio “di stare con la mamma” per determinare il genitore presso il quale sarà disposto il suo collocamento abitativo. A dirlo è la Suprema Corte di Cassazione, sez. VI^-1, con ordinanza del 5 luglio 2016 n°23324, pubblicata il 16 novembre 2016.
La vicenda trae origine da una “classica” separazione all’italiana. Una giovane coppia si sposa e ha un figlio. Dopo poco i litigi aumentano sino a portare ad una situazione di inconciliabile conflitto, che sfocia a sua volta in un giudizio di separazione. Il conflitto aimè travolge anche il figlio, conteso dai due genitori che ne chiedono il collocamento presso di loro.
Il giudice, investito della causa, dispone una consulenza tecnica, al fine di verificare la capacità genitoriale dei coniugi e la volontà del bambino. In quella sede, il bambino, ascoltato da un’esperta psicologa, manifesta senza esitazione la volontà di rimanere con la madre. Ad avviso dell’esperta, tuttavia, sarebbe opportuno procedere al collocamento del minore presso il padre, una volta terminato l’anno scolastico. Tale trasferimento, infatti, appariva necessario per garantire “un suo equilibrato sviluppo, ovvero per allentare il rapporto ‘quasi simbiotico e di eccessiva dipendenza’ che lo lega alla madre e per evitare un diradamento degli incontri con il padre in un momento in cui ha invece bisogno di rafforzare il rapporto con tale figura genitoriale”.
Il giudice di primo grado, seguendo il parere dell’esperta, decide pertanto di disporre l’affidamento congiunto del minore e la sua collocazione presso il padre una volta terminato l’anno scolastico in corso.
La madre decide allora di presentare appello avverso la sentenza, ritenendo necessario procedere al collocamento presso di lei del figlio anche alla luce dell’avvenuto trasferimento per motivi di lavoro del padre a Roma – lontano dai parenti, dalla scuola e dagli amichetti del figlio – chiedendo di procedere nuovamente all’audizione del figlio.
La Corte d’appello, tuttavia, non accoglie le doglianze della moglie, respingendo la sua impugnazione.
Presentano allora ricorso per cassazione avverso il provvedimento tanto il padre quanto la madre, il primo al fine di ottenere l’affidamento esclusivo del figlio e l’esonero dall’obbligo di contribuire al mantenimento della moglie, la seconda al fine di ottenere il suo collocamento presso di lei nonché l’aumento della cifra disposta per il suo mantenimento.
In particolare, la giovane madre si duole del fatto che i giudici di merito non avrebbero dato il giusto rilievo alla volontà manifestata dal figlio durante la C.T.U. di primo grado di restare a vivere con la madre, illegittimamente negando il suo ascolto diretto nel giudizio d’Appello, senza tenere in debito conto il sopravvenuto trasferimento del padre a Roma.
Ad avviso della Suprema Corte, tuttavia, l’operato dei giudici di I^ e II^ grado è esente da censure alla luce delle seguenti condivisibili osservazioni:
- il sopravvenuto trasferimento per lavoro del padre è circostanza inidonea ad incidere di per sé sul regime di affidamento del minore, assumendo “…rilievo solo con riguardo alle modalità di collocazione abitativa del minore e di sua frequentazione con il coniuge non collocatario”, con conseguente non necessarietà di una nuova audizione del minore;
- la sentenza impugnata aveva dato atto del desiderio espresso dal figlio di restare a vivere con la madre, condividendo tuttavia la necessità, evidenziata nella C.T.U., di disporre il collocamento dello stesso presso il padre “…al fine di garantire un suo equilibrato sviluppo, ovvero per allentare il rapporto ‘quasi simbiotico e di eccessiva dipendenza’ che lo lega alla madre e per evitare il diradamento degli incontri con il padre in un momento in cui ha invece bisogno di rafforzare ed identificare il rapporto con tale figura genitoriale”;
- conseguentemente ben avevano fatto il Tribunale e la Corte d’Appello a ritenere che la volontà espressa dal bambino non corrispondesse al suo vero interesse e che, conseguentemente, il collocamento del bambino presso la madre avrebbe determinato un ulteriore deterioramento dei rapporti con il padre, ponendosi in contrasto con il principio di bigenitorialità.
Dalla sentenza in esame è possibile trarre un’importante conclusione, in linea con le principali convenzioni europee ed internazionali a tutela del superiore interesse del minore. Il giudice ha l’obbligo sì di procedere all’ascolto del minore. Tale obbligo tuttavia non è assoluto, potendosi escludere lo stesso esclusivamente sulla base della sua età, della sua maturità e del pregiudizio che ne possa derivare. La volontà che il bambino esprime, però, non può considerarsi vincolante in termini assoluti per il giudice. Quando, infatti, il giudice ritiene che questa contrasti con il suo superiore interesse, egli è e deve essere libero di decidere ciò che ritiene maggiormente confacente al suo superiore interesse, debitamente motivando nel provvedimento tale sua convinzione.
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