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Dopo due anni, è giunta finalmente in discussione alla Camera la proposta di legge n°2669 del 2014, avente ad oggetto i c.d. “prenuptial agreements”, o accordi prematrimoniali, noti da tempo nel mondo anglosassone ma sino ad oggi banditi nel nostro ordinamento per nullità della causa.

Cosa sono gli accordi prematrimoniali?

Gli accordi prematrimoniali sono dei contratti sottoscritti dai coniugi con cui gli stessi disciplinano i loro rapporti patrimoniali in vista di un’eventuale separazione o divorzio. Funzione di tali accordi è quello di predeterminare le conseguenze patrimoniali della separazione o del divorzio in un momento antecedente, scongiurando altresì anni di costose battaglie giudiziarie.

Perché erano banditi in Italia?

In Italia, la Suprema Corte di Cassazione già da diversi decenni orsono aveva dichiarato la nullità di tali accordi, per illiceità della loro causa, incompatibili con l’indisponibilità dello status di coniuge e di alcuni diritti spettanti a seguito della separazione o del divorzio, in primis il diritto all’assegno divorzile, attesa la sua natura assistenziale. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, tali accordi erano reputandoli “rischiosi” in quanto idonei a limitare tanto la libera disponibilità dello status di coniuge nonché a pregiudicare la funzione alimentare dell’assegno divorzile.

Riportiamo di seguito un passaggio della nota sentenza n°3777 dell’11 giugno 1981, una delle prime ad affrontare la questione degli accordi prematrimoniali e a dichiararne la nullità nel nostro ordinamento, anche per ragioni di ordine pubblico: “ In tema di divorzio, il preventivo accordo con cui gli interessati stabiliscono, in costanza di matrimonio, il relativo regime giuridico, anche in riferimento ai figli minori, convenendone l’immodificabilità per un dato periodo di tempo, è invalido, nella parte riguardante i figli, per l’indisponibilità dell’assegno dovuto ai sensi dell’art. 6 l. 1dicembre 1970, n. 898, nella parte riflettente l’assegno spettante all’ex coniuge a norma del precedente art. 5, per contrasto sia con l’art. 9 della stessa legge, che non consente limitazioni di ordine temporale alla possibilità di revisione del suindicato regime, sia con l’art. 5 cit., che, fissando i criteri per il riconoscimento e la determinazione di un assegno all’ex coniuge, configura un diritto insuscettibile, anteriormente al giudizio, di rinunzia o di transazione, attesa l’illiceità della causa di un negozio siffatto, perché sempre connessa, esplicitamente o implicitamente, all’intento di viziare, o quanto meno di circoscrivere, la libertà di difendersi in detto giudizio, con irreparabile compromissione di un obiettivo d’ordine pubblico come la tutela dell’istituto della famiglia. Pertanto, in tale giudizio, non può una delle parti impedire all’altra di provare la verità delle condizioni di fatto alle quali la legge subordina e commisura l’assegno di divorzio e quello di mantenimento dei figli, eccependo l’intangibilità dell’accordo intervenuto in merito prima dell’inizio del giudizio medesimo”.

In epoca più recente, la Suprema Corte, in una serie di pronunce (ex multis nn°8109/2000 e 5302/2006), ha affermato che i suddetti patti, qualora volti a quantificare preventivamente l’assegno di divorzio, non erano affetti da nullità assoluta bensì relativa, precludendo così al solo coniuge economicamente più forte di invocarne la nullità.

Di fondo, dietro le declaratorie di nullità di tali accordi, si cela anche un pregiudizio evidente nei confronti dell’autonomia privata dei coniugi, ai quali non era concesso di predeterminare contrattualmente le sorti, anche economiche, del naufragio del loro matrimonio. A partire dal 2012, tuttavia, si sono segnalate alcune pronunce volte a riconoscere una pur limitata valenza all’autonomia delle parti. È il caso della sentenza n°23713 del 21 dicembre 2012, con cui la Suprema Corte ha dichiarato la validità di un contratto con cui la futura moglie si era obbligata, in caso di fallimento del proprio matrimonio, a trasferire gratuitamente al marito un immobile, quale indennizzo per le somme dallo stesso sborsate per ristrutturare la loro casa familiare.

Perché ora questa nuova apertura del Parlamento?

Recentemente, tanto in ambito internazional-privatistico, a livello europeo, tanto nel diritto interno, si sta progressivamente assistendo ad una valorizzazione dell’autonomia privata, come mai successo in precedenza, anche nel settore del diritto di famiglia.

In particolare, il regolamento n°1259/2010 UE, in punto di giurisdizione e legge applicabile alla separazione e divorzio, ha introdotto la facoltà per i coniugi di scegliere, attraverso appositi accordi, ancor prima della separazione/divorzio, la legge applicabile alla stessa, proprio al fine di garantire la certezza del diritto, da un lato, e una deflazione del contenzioso giudiziario dall’altro.

Nel diritto interno, invece, l’autonomia privata è stata presa in considerazione dalla recente legge “Cirinnà” n°76/16, attraverso l’introduzione nel nostro ordinamento dei c.d. “contratti di convivenza”, con cui le coppie non sposate possono regolamentare la propria vita comune.

Qual è la proposta attualmente in discussione alla Commissione della Camera?

Il D.D.L., datato 2014, attualmente in discussione, si pone l’obiettivo di “riconoscere ai futuri coniugi nel momento che precede il matrimonio una più ampia autonomia al fine di disciplinare i loro rapporti patrimoniali e personali anche relativamente all’eventuale fase di separazione e di divorzio, attraverso accordi contenuti in un’apposita convenzione”.

Il D.D.L., in particolare, mira ad introdurre nel codice civile l’art. 162-bis c.c., rubricato “accordi prematrimoniali”, attraverso cui sarà permesso, salvo probabili modifiche all’attuale testo del D.D.L., di sottoscrivere, ricorrendo alternativamente alle convenzioni matrimoniali ex art. 162 c.c. ovvero alla negoziazione assistita tra avvocati, a contratti prematrimoniali, attraverso cui regolamentare gli aspetti patrimoniali del fallimento della loro unione.

Andiamoli ad analizzare.

Nell’accordo i coniugi possono regolamentare gli aspetti patrimoniali:

  • attribuendo ad uno di essi, alternativamente una somma di denaro periodica ovvero una somma di denaro una tantum (in unica soluzione);
  • attribuendo ad uno di essi, un diritto reale su uno o più immobili “anche con il vincolo di destinare, ai sensi dell’articolo 2645-ter, i proventi al mantenimento dell’altro coniuge o al mantenimento dei figli fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica degli stessi”;
  • rinunciando al mantenimento, fatto salvo in questo caso il diritto agli alimenti, ex articoli 433 e ss. c.c.;
  • trasferendo all’altro ovvero ad un terzo “beni o diritti destinati al mantenimento, alla cura o al sostegno di figli disabili per la durata della loro vita o fino a quando permane lo stato di bisogno, la menomazione o la disabilità”.

Ad ogni modo, le predette attribuzioni, specifica il disegno, non possono superare “più della metà del proprio patrimonio”.

In oltre, al fine di “adattare” le attribuzioni al momento in cui l’accordo produrrà effetti, il legislatore ha previsto altresì la possibilità per le stesse di “stabilire un criterio di adeguamento automatico del valore delle attribuzioni patrimoniali predisposte con gli accordi prematrimoniali”.

Qualora poi gli accordi abbiano ad oggetto il mantenimento anche dei figli minori o non ancora economicamente autosufficienti, il testo prevede la necessaria autorizzazione del procuratore della Repubblica, il quale, qualora non la conceda, dovrà indicarne i motivi, invitando le parti ad una riformulazione. In caso di bocciatura anche della proposta riformulata, poi, il diniego sarà definitivo.

Il disegno di legge prevede anche una deroga rispetto al divieto di patti successori, consentendo, nei limiti del rispetto dei diritti dei legittimari, di regolamentare anche quanto ricevuto dagli stessi coniugi per successione.

Per quanto attiene alla dimensione temporale, è importante evidenziare come tali patti possono essere stipulati e anche modificati sia prima che durante il matrimonio, purché prima del deposito del ricorso per separazione personale/la sottoscrizione della convenzione assistita o dell’accordo ex art. 6 e 12 D.lgs. n°132/14.

Ma ad oggi sono validi questi patti?

Che tali patti siano tuttora nulli è tuttavia da considerarsi pacifico alla luce anche della recente sentenza n°2224 del 30 gennaio 2017 della Suprema Corte di Cassazione. Non ci resta, pertanto, che aspettare fiduciosi nell’approvazione del D.D.L.

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[:it]unmarriedLa Suprema Corte, sez. III^ civile, con sentenza n°10377 del 27 aprile 2017, si è pronunciata su un’annosa questione, oggi disciplinata normativamente dalla legge c.d. “Cirinnà”: il godimento dell’immobile da parte del convivente more uxorio del proprietario, dopo il decesso di quest’ultimo.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una convivente more uxorio a cui, dopo la morte del compagno proprietario dell’immobile, era stato intimato, da parte della moglie separata e della figlia dello stesso, il rilascio di quest’ultimo.

I giudici di primo e secondo grado, non condividendo le motivazioni addotte dalla difesa della ricorrente, rigettavano la domanda della stessa, ritenendo che “…il prolungato rapporto di convivenza ‘more uxorio’ (…) non attribuisse alla prima alcun titolo idoneo a possedere o detenere l’immobile, né il diritto di abitazione ex art. 540 co. 2 e 1022 c.c. riservato al coniuge”.

L’ex compagna, lungi dal darsi per vinta, ricorreva per cassazione sostenendo, inter alia, che l’evoluzione del concetto di famiglia avrebbe portato la giurisprudenza di legittimità e costituzionale a ritenere l’affectio derivante dalle convivenze “more uxorio”, caratterizzate da apprezzabile stabilità, come interesse meritevole di tutela, “…riconoscendo al convivente non titolare di diritti reali o relativi sull’immobile destinato ad abitazione della coppia, la titolarità di una relazione con il bene qualificata come detenzione autonoma, tale da legittimare il godimento del bene anche dopo il decesso del convivente”.

Di diverso avviso sono tuttavia gli Ermellini, distinguendo a seconda che il convivente proprietario sia o meno in vita. Secondo la Suprema Corte, pertanto:

  • in costanza di convivenza, il convivente non proprietario avrebbe un interesse proprio avente i connotati di una detenzione qualificata dell’immobile, in virtù del quale sarebbe legittimato ad esperire l’azione di spoglio, in caso di sua estromissione violenta o clandestina, non solo nei confronti dei terzi ma dello stesso convivente proprietario;
  • a seguito della morte del convivente proprietario (o semplicemente a seguito di una scelta libera delle parti), tuttavia, il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata dell’immobile verrebbe meno e non sarebbe più esercitabile nei confronti dei terzi, non potendo la rilevanza sociale e giuridica della convivenza di fatto incidere sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sul bene immobile.

Pertanto, secondo la Suprema Corte, una volta deceduto il convivente proprietario, nel regime anteriore a quello introdotto dalla legge Cirinnà, la protrazione della relazione tra convivente superstite e bene potrebbe legittimamente sussistere unicamente in due ipotesi:

  1. a) qualora il convivente superstite sia istituito coerede o legatario dell’immobile, in virtù di disposizione testamentaria;
  2. b) qualora sia costituito un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario.

La Corte chiarisce altresì l’inapplicabilità ratione temporis al caso di specie della disposizione dell’art. 1, co. 42, della l. 76/2016, “…che conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo (non oltre i cinque anni) modulato diversamente in relazione alla durata della convivenza ed alla presenza di figli minori o disabili”.

Unico rimedio, seppur parziale, nel regime anteriore all’introduzione della legge Cirinnà, rimane, ad avviso degli Ermellini, il ricorso al principio di buona fede e di correttezza…che impone al soggetto che legittimamente intende rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva disponibilità del bene, di concedere all’ex convivente un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione” (sul punto Cass. 7214/13).

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