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Una società di assicurazioni conveniva in giudizio i due amministratori della società, già sindaci chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di comportamenti dagli stessi tenuti in violazione dei doveri inerenti alle cariche rivestite.
In corso di causa, il giudizio veniva dichiarato interrotto a seguito della sottoposizione della società ricorrente a liquidazione coatta amministrativa, per essere poi riassunto dal commissario liquidatore.
In primo grado Tribunale di Milano rigettava la domanda.
Di diverso avviso la Corte di Appello di Milano, che  condannava i due amministratori alla rivalsa di quanto dovuto dalla società all’ISVAP per le sanzioni irrogate a causa dell’esercizio non autorizzato di attività assicurativa nel ramo “auto rischi diversi”; e ciò, in considerazione del fatto che “la prova del danno risarcibile emergeva da una precedete sentenza, con cui il Pretore di Milano aveva confermato, riducendone l’ammontare, la sanzione irrogata alla società dall’ISVAP, essendo indubitabile che l’esercizio dell’attività assicurativa in un ramo non autorizzato costituisce un’evidente violazione degli obblighi gestori degli amministratori di una compagnia di assicurazioni”.
La Corte di Cassazione, con sentenza del 27 aprile 2011 n. 9384, ha confermato la decisione di secondo grado,  evidenziando:
– che il giudice di appello non ha inteso attribuire alla stessa efficacia di giudicato, ai fini dell’affermazione della responsabilità degli amministratori della società, ma si è limitata a desumerne la prova del danno subito da quest’ultima per effetto della condotta dei convenuti contraria agli obblighi inerenti alle cariche rivestite;
– che nel caso in esame, d’altro canto, il riconoscimento dell’efficacia di giudicato alla precedente sentenza si sarebbe posto in contrasto con la diversità non solo dei soggetti tra i quali si era svolto il precedente giudizio, ma anche dell’oggetto di quest’ultimo, riguardante esclusivamente l’inosservanza da parte della società delle disposizioni che disciplinano l’esercizio dell’attività assicurativa;
– che la riconducibilità di tale violazione alla condotta degli organi sociali aveva peraltro indotto il giudice, con un ragionamento immune da vizi logici, a individuare il danno risarcibile nel pregiudizio economico subito dalla società per effetto dell’irrogazione della sanzione, la cui prova è stata desunta dalla stessa sentenza prodotta, confermata in sede d’impugnazione, che ha accolto solo parzialmente l’opposizione;
– che pur essendo certo che, poiché le prove raccolte in un diverso giudizio non possono assurgere a fonte determinante per l’accertamento del fatto controverso, dette prove possono valere quali meri indizi, da porsi a confronto con le altre risultanze processuali;
– che il riconoscimento dell’efficacia indiretta di prova documentale alla sentenza pronunciala tra parti diverse postula che, nell’ambito della libera valutazione spettante al giudice di merito, la stessa sia posta in relazione con gli altri elementi acquisiti agli atti.
In altri termini:
– l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato, per legge, a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa;
– detta sentenza pur implicando, al contrario, l’esclusione dell’efficacia vincolante di tale accertamento nei confronti dei soggetti che non abbiano preso parte al giudizio, non ne comporta l’inutilizzabilità nei confronti dei terzi quale prova o elemento di prova in ordine alla situazione giuridica che abbia costituito oggetto dell’accertamento giudiziale;
– ai fini della formazione del proprio convincimento, il giudice è infatti libero di avvalersi, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche delle prove raccolte in un diverso processo svoltosi tra le stesse o altre parti, delle quali la sentenza pronunciata nel medesimo giudizio costituisce documentazione.

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[:it]L’abuso del processo causa un danno indiretto all’erario (per l’allungamento del tempo generale nella trattazione dei processi e, di conseguenza, l’insorgenza dell’obbligo al versamento dell’indennizzo ex lege 89/2001) e un danno diretto al litigante (per il ritardo nell’accertamento della verità) e va dunque contrastato.

In tale contesto, si comprende perché il Legislatore del 2009 (legge n. 69) abbia introdotto un danno tipicamente punitivo nell’art. 96 comma III c.p.c. al fine di scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia.

La norma introdotta dalla Legge 18 giugno 2009 n. 69 nel terzo comma dell’art. 96 c.p.c. non ha natura meramente risarcitoria ma “sanzionatoria” ed introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema Giustizia, traducendosi, dunque, in “una sanzione d’ufficio”.

Nel caso di specie, l’attrice aveva proposto opposizione a decreto ingiuntivo pur consapevole delle ragioni della controparte, e la lite traeva giustificazione essenziale dal fatto di essere le parti marito e moglie in fase di separazione litigiosa.

Il giudice dott. Buffine del Tribunale di Varese, con sentenza 21 – 22 gennaio 2011 n. 98, ha ritenuto per le suesposte ragioni di condannare d’ufficio l’opponente ad una pena di 10.000,00 euro.

Tribunale di Varese21 – 22 gennaio 2011 n. 98

FATTO E DIRITTO

La parte opposta, assumendo di essere proprietaria dell’impianto per cui è lite, ingiungeva alla opponente la consegna dello stesso, sulla base di un dedotto contratto di comodato senza termine e, dunque, suscettibile di scioglimento ad nutum.
Proponeva opposizione la società opponente deducendo l’insussistenza di un rapporto di comodato ed allegando diverse notazioni difensive, tutte rimaste sfornita di valida prova.
La tesi del contratto di comodato è provata.
In primis, già nei documenti di traporto del 2008, si indicava espressamente la voce “comodato d’uso”.
Ciò che, però, più conta è la dichiarazione di YY, amministratrice della società opponente, la quale in data 22 luglio 2009, espressamente dichiarava alla società opposta:
“Riconosce (…) in capo alla R. la proprietà della macchina linea taglio cavi che sta attualmente utilizzando, in forza di accordi con il proprietario, a titolo di comodato per la produzione a favore del Gruppo X..”.
Ai sensi dell’art. 1810 c.c., se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede o, tutt’al più, entro il termine indicato dal giudice, in analogia con la disposizione di cui all’art. 1183 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. III, sentenza n. 4921 del 10 agosto 1988). Nel caso di specie, su intervento del giudice e accordo delle parti, come intervenuto all’udienza dell’8 gennaio 2010 (e dunque un anno fa), i litiganti si sono accordati nel senso di non portare ad esecuzione l’ingiunzione (già provvisoriamente esecutiva ex art. 642 c.p.c.) se non al termine della lite, come definita per sentenza. Vi è, dunque, che il comodatario ha avuto un anno per predisporre, secondo diligenza professionale richiesta nel caso di specie, quanto necessario per la sostituzione del macchinario richiesto; e, allora, non appare giustificata l’apposizione di un termine ex art. 1183 c.c., differente da quello da individuare nella data della sentenza. Alla luce delle considerazioni che precedono, la domanda dell’opponente va respinta. Questo giudice, non può non rilevare che le parti in causa (i rappresentanti legali delle compagini societarie in lite) sono già marito e moglie, nella fase della separazione giudiziale (v. documenti in atti). Vi è, poi, che il notorio giudiziario interno al Tribunale, conosciuto ex officio da questo giudice e noto alle parti, consegna dei dati allarmanti, quanto ai procedimenti instaurati dalle parti in lite, YY e ZZ, in nemmeno due anni giudiziari:
1) Separazione giudiziale, dr.ssa Chiara Delmonte
2) Procedimento ex art. 615 c.p.c., dr. Giuseppe Buffone
3) Recupero credito, dr. Stefano Sala
4) Opposizione a decreto ingiuntivo, dr. Giuseppe Buffone
Vi è, di fatto, che la facoltà di disporre di buone risorse economiche, da un lato, e la natura litigiosa dei rapporti dall’altro, hanno indotto i litiganti a trasferire nel contesto giudiziario il loro terreno di scontro: come accade nel caso di specie. YY, perfettamente a conoscenza della natura del contratto e del suo impegno a restituire il bene oggetto di cd. prestito d’uso, di fronte alla richiesta del marito, interpone opposizione a decreto ingiuntivo, qui rivelatasi manifestamente infondata e, per di più, sorretta da un elemento soggettivo di rimproverabilità (colpa).
Alla luce dei rilievi sin qui illustrati, la opponente va condannata ai sensi dell’art. 96 comma III c.p.c.
L’abuso del processo causa un danno indiretto all’erario (per l’allungamento del tempo generale nella trattazione dei processi e, di conseguenza, l’insorgenza dell’obbligo al versamento dell’indennizzo ex lege 89/2001) e un danno diretto al litigante (per il ritardo nell’accertamento della verità) e va dunque contrastato (v. Trib. Varese, sez. Luino, ord. 23 gennaio 2010 in Foro Italiano, 2010, 7–8, I, 2229). In tale contesto, si comprende perché il Legislatore del 2009 (legge n. 69) abbia introdotto un danno tipicamente punitivo nell’art. 96 comma III c.p.c. al fine di scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia (v. Trib. di Piacenza, sez. civ., sentenza 22 novembre 2010, est. Morlini in Guida al dir., 2011, 3). Infatti, la norma introdotta dalla Legge 18 giugno 2009 n. 69 nel terzo comma dell’art. 96 c.p.c. non ha natura meramente risarcitoria ma “sanzionatoria” (Tribunale di Piacenza, sez. civile, sentenza 7 dicembre 2010, est. Coderoni) come la prevalente giurisprudenza di merito ha ritenuto (v. anche Trib. Verona, ord. 1 ottobre 2010; Trib. Verona, ord. 1 luglio 2010; Trib. Verona, sez. III civ., sentenza 20 settembre 2010) là dove ha statuito che essa introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo (Tribunale di Roma, sez. XI civile, sentenza 11 gennaio 2010 in Giur. Merico, 2010, 9) e preservare la funzionalità del sistema Giustizia (in questi termini, Trib. Prato 6 novembre 2009, Trib. Milano 29 agosto 2009), traducendosi, dunque, in “una sanzione d’ufficio” (Tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, sentenza 9 dicembre 2010). Nella medesima direttrice ermeneutica si colloca la giurisprudenza di questo Tribunale (v. Trib. Varese, sez. I civ., sentenza 30 ottobre 2009 in Giur. di Merito, 2010, 2, 431 e in Resp. civ., 2010, 387 ss.; Trib. Varese, sez. dist. Luino, ordinanza 23 gennaio 2010 cit.).
La giurisprudenza sin qui richiamata merita di essere riproposta e condivisa. Come hanno rilevato in tempi recenti le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza del 16 luglio 2008 n. 194991), nell’attuale realtà storico-sociale, le istituzioni del Paese annoverano “le inefficienze e le lunghezze del sistema giudiziario civile tra le cause del rallentamento dello sviluppo economico dell’Italia”; in particolare, il Supremo Giudice afferma che “tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la inappagante funzionalità della giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto indipendente del numero delle cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello possibile, segnatamente sotto il profilo dell’abbassamento della propensione agli investimenti”. E’ dunque certo che le liti temerarie contribuiscono ad un danno all’intera collettività, poiché il carico del lavoro giudiziario rallenta inevitabilmente la trattazione di tutti i procedimenti sul Ruolo con riflessi negativi di impatto elevatissimo (si pensi ai costi ingenti che lo Stato versa per i ritardi ex lege 89/2001).
Il Tribunale di Milano, in tal senso, ha ritenuto che la ratio della nuova disposizione di cui all’art. 96, 3° comma c.p.c. può essere individuata nello scoraggiare comportamenti strumentali alla funzionalità del servizio giustizia e in genere al rispetto della legalità. Ebbene, alla luce delle considerazioni espresse, la opponente va condannata ad una pena pecuniaria da liquidare in favore della parte opposta, nella cui sfera giuridica soggettiva, peraltro, è evidente un danno subito (quantomeno per il mancato uso del bene di proprietà da novembre del 2009 all’attualità). Per i motivi sin qui illustrati, l’opponente va condannata alla pena pecuniaria in favore della controparte, liquidata coma da dispositivo. Le spese di lite vanno poste a carico della parte opponente risultata soccombente.
Quanto all’ammontare della liquidazione, va ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite dell’11 settembre 2007 n. 19014: le spese di lite vanno liquidate giusta la natura ed il valore della controversia, l’importanza ed il numero delle questioni trattate, nonché la fase di chiusura del processo. Il principio di adeguatezza e proporzionalità impone, peraltro, una costante ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’attività professionale svolta. Il decisum prevale quindi, di regola, sul disputatum (Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 11 settembre 2007, n. 19014) salvo il caso in cui vi sia rigetto integrale della domanda attorea ove consegue che il valore della controversia è quello corrispondente alla somma domandata dall’attore (Cass. civ., Sez. I, 11 marzo 2006, n. 5381). Trattasi di principi confermati di recente dalla giurisprudenza di Cassazione (v. Cass. Civ., Sez. II, sent. 5 gennaio 2011, n. 226: anche in considerazione dei principi di effettività e proporzionalità cui sono, nel loro complesso, improntate le regole delle Tariffe Forensi, in tema di determinazione degli onorari dovuti dal cliente al proprio difensore, ai fini dell’individuazione dello scaglione tariffario applicabile assume decisiva rilevanza il criterio dell’effettivo valore della controversia, desumibile dal decisum”. Tenendo conto del giudizio, atteso il valore della causa e, per tali indici, applicati i barèmes tariffari, le spese del giudizio vanno liquidate come da dispositivo, sulla base della nota spese del difensore, da ridurre negli onorari perché non conforme ai principi sin qui illustrati. Vanno aggiunte le spese forfetarie, giusta l’art. 14 DM 8.4.2004 n. 127, nonché il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576.
1 In Responsabilità civile e previdenza, 2009, 9, 1862
2 Tribunale di Milano, ordinanza 20 agosto 2009 in www.judicium.it Pagina 3 di 4

P.Q.M.

IL TRIBUNALE DI VARESE, SEZIONE PRIMA CIVILE, in composizione monocratica, in persona del giudice dott. Giuseppe Buffone, definitivamente pronunciando nel giudizio civile iscritto al n. … dell’anno 2009, disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa, così provvede:
RIGETTA, per i motivi di cui in parte motiva, l’opposizione della parte opponente e per l’effetto CONFERMA il decreto ingiuntivo n. …/2009 emesso dal Tribunale di Varese in data 12 novembre 2009 e notificato in data 20 novembre 2009.
CONDANNA l’opponente al rimborso delle spese del giudizio di opposizione in favore della controparte che
LIQUIDA
come segue, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. Spese €. 170,00, Diritti €. 2.046,00, Onorari €. 4.800,00
Vanno aggiunti il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576. Va anche aggiunto il rimborso forfetario ex art. 14 D.M. 8 aprile 2004 n. 127. CONDANNA l’opponente, YY, titolare della società N s.r.l., ai sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c., ad una pena pecuniaria in favore della controparte, che LIQUIDA in complessivi Euro 10.000,00 oltre interessi legali dalla sentenza e sino al soddisfo. MANDA alla cancelleria per i provvedimenti di competenza.
Varese, lì 21 gennaio 2011 Il Giudice DOTT. GIUSEPPE BUFFONE

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La vicenda riguardava una richiesta di risarcimento, sulla base della legge Pinto, per i danni subiti a causa dell’eccessiva lunghezza di un processo amministrativo davanti al Tar del Lazio, nel quale tutte le parti avevano proposto, attraverso una pluralità di ricorsi (riuniti nella fase di merito), con identico patrocinio legale, contenenti domande connesse per l’oggetto e per il titolo (in punto di adeguamento triennale dell’indennità giudiziaria).
La Corte di Cassazione, con ordinanza 3 maggio 2010 n°10634, applicando per la prima volta il principio dell’abuso dello strumento processuale in tema di spese giudiziali, ha motivatamente ritenuto che – non potendosi dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi, visto che non è illegittimo lo strumento processuale ma le modalità di utilizzo dello stesso – l’onere delle spese di lite va valutato come se il procedimento fosse stato unico sin dall’origine, dovendosi eliminare gli effetti distorsivi dell’abuso.
I ricorrenti, in altri termini, hanno visto riconosciute le loro ragioni, ma l’avere presentato un pluralità di ricorsi con la stessa motivazione ha costretto l’amministrazione giudiziaria, già in grave difficoltà, a sprecare risorse importanti come tutte le risorse scarse o scarsissime.
Una misura di «salute pubblica», quella di non riconoscere il pagamento indiscriminato delle spese legali, che la Corte ritiene coerente con il principio costituzionale del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Queste le ragioni della decisione della Corte: «Pur essendo la domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata di tale procedura basata sullo stesso presupposto giuridico e fattuale, hanno proposto nello stesso ristretto arco temporale dieci distinti ricorsi alla Corte d’appello competente con il patrocinio del medesimo difensore».  In passato, spiega l’ordinanza, alla Cassazione, a sezioni unite (sentenza 23726 del 2007), è capitato di doversi occupare dell’utilizzo del processo con modalità tali da provocare un danno al debitore senza necessità o vantaggio per il creditore, ma anche con una possibile ricaduta sull’efficienza dell’apparato giudiziario: la moltiplicazione dei processi infatti provoca un effetto di inflazione con la conseguenza di confliggere con l’obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata del processo.  Si tratta di principi, ricorda ora la Cassazione, che, anche se enunciati nell’ambito dei rapporti negoziali, possono trovare applicazione anche in altri casi come quello preso in esame dalla Corte, dove l’evento che ha provocato il danno è lo stesso, come identico è il soggetto che se ne è reso responsabile e diversi sono solo i danneggiati. Questi ultimi hanno poi agito in maniera unitaria nel processo presupposto (quello amministrativo), dimostrando così una evidente carenza di interesse alla diversificazione delle posizioni e hanno sostanzialmente tenuto la stessa condotta nella fase di richiesta dell’indennizzo agendo contemporaneamente con identico patrocinio legale. Gli stessi, con domande connesse per oggetto e titolo, hanno poi instaurato singolarmente procedimenti diversificati.  Si tratta di una condotta che, sottolinea la Cassazione, è priva di «alcuna apprezzabile motivazione e incongrua rispetto alle rilevate modalità di gestione sostanzialmente unitaria delle comuni pretese». Una condotta che contrasta inoltre con «l’inderogabile dovere di solidarietà sociale che osta all’esercizio di un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell’agente». Ma l’elemento più forte è quello del conflitto con l’articolo 111 della Costituzione sulla ragionevole durata del processo, visto che la proliferazione « oggettivamente non necessaria» dei procedimenti incide negativamente sull’organizzazione giudiziaria e rischia di allungare i tempi di svolgimento dei giudizi.
L’abuso del processo si ripercuote così sulle spese legali che la Cassazione si guarda bene dal moltiplicare per dieci e liquida una sola volta, anticipando, in un certo senso, quanto potrebbe avvenire a pieno regime tra un anno.
Le misure sulla conciliazione, infatti, prevedono che si possa venire meno al principio della soccombenza e quindi le spese le possa pagare anche la parte vincente se ha rifiutato una proposta di intesa identica o molto vicina a quanto poi ottenuto in sede giudiziaria

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