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É illegittimo e va disapplicato per eccesso di potere il decreto del Ministero dell’interno che, nel disciplinare le modalità di produzione, emissione e rilascio della carta di identità elettronica, non consente di indicare con la qualifica neutra di “genitore” la madre naturale e la madre adottiva di una minore, figlia di una coppia omosessuale. Lo stabilisce il Tribunale di Roma, con l’allegata ordinanza del 9 settembre 2022.
Il caso oggetto di questa interessante pronuncia del Tribunale capitolino – del quale hanno dato ampio conto le cronache nazionali delle ultima settimane – riguarda una minore figlia adottata in forza di sentenza resa ai sensi dell’art. 44, c. I , lett. d), L. n. 184/1983.
In data 28 maggio 2019, a seguito della trascrizione della sentenza di adozione, le due madri avevano congiuntamente richiesto agli uffici di Roma Capitale l’emissione di una carta d ‘identità elettronica, valida per l’espatrio, a nome della figlia minore, con l’indicazione dei propri nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di «genitore» per entrambe.
Con comunicazione in pari data, tuttavia, gli uffici aditi avevano evidenziato l’impossibilità di accogliere la richiesta, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro dell’interno del 31 gennaio 2019, il quale prevedeva esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Le ricorrenti hanno quindi impugnato il citato decreto ministeriale prima dinanzi al Tar del Lazio, dichiaratosi incompetenti, e poi innanzi al Tribunale Civile di Roma, il quale invece in accoglimento del ricorso, ha disapplicato il decreto e ordinato al Ministro dell’Interno, e per esso al Sindaco di Roma Capitale, quale ufficiale del Governo, di indicare sulla carta d’identità elettronica della minore la qualifica neutra di «genitore».
Ciò che rileva – osserva il Tribunale capitolino – «è che, nella fattispecie in oggetto, esiste una situazione giuridica e di fatto incontrovertibile, perché coperta dal giudicato e risultante dagli atti dello stato civile – consistente nel rapporto di filiazione (naturale e adottiva) della minore con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile e costitutiva di una famiglia».
Questo è, per il Tribunale di Roma, il punto di partenza per discutere dell’esistenza o meno di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina a vedersi identificate nella carta d’identità della figlia in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere o, comunque, in termini neutri e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della situazione familiare come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due madri o comunque di due genitori.
Sull’esistenza di tali diritti – afferma il Tribunale – non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Per quanto riguarda la madre adottiva, l’indicazione, nel documento d’identità della figlia, con una qualifica «padre», difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU, priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla.
Identica violazione si riscontra anche nei confronti della minore, la quale ha un analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri.
Con riguardo alla minore, peraltro, il diritto alla corretta rappresentazione delle sue origini familiari trova conferma anche in altri strumenti internazionali ai quali l’Italia ha aderito, primo fra tutti la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva con L. n. 176/ 1991, il cui art. 8, in particolare, impegna le Alte Parti Contraenti a «rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», comprendente «le sue relazioni famigliari», ed il cui art. 3 prescrive che «tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Quanto alla scelta alternativa proposta dalle ricorrenti tra l’indicazione della doppia dicitura ” madre” e ‘madre” ovvero della dicitura neutra “genitore”, il Tribunale ha opinato che questa seconda opzione sia la più idonea a soddisfare il legittimo interesse delle ricorrenti bilanciandolo con l’esigenza di rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali.
La pronuncia in esame si segnala perché si pone nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale favorevole a valorizzare le nuove forme di genitorialità – diverse da quella tradizionale basata sul fatto procreativo – che vanno emergendo nel nostro ordinamento.
Si tratta di un orientamento che ha trovato conferma anche in seno alla giurisprudenza di legittimità, ad esempio, nella sentenza Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, secondo cui «è riconoscibile in Italia un atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due donne atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali».
Avv. Claudia Romano

[:it]Risultati immagini per immagini nonni e bambiniLa legge non prevede limiti di età per chi intende generare un figlio.

Per tale ragione la Cassazione, con sentenza 30 giugno 2016 n. 13435, ha accolto il ricorso straordinario di una coppia di coniugi ai quali la figlia era stata tolta a poche settimane della nascita per abbandono di minore.

Alla base dell’accusa, oggetto anche di  un processo penale, l’aver lasciato la bambina da sola in macchina.

Nel processo si era però chiarito che la bimba non aveva corso, in realtà, alcun pericolo perché la strada, di paese, era illuminata e chiusa al transito.

I giudici civili di merito avevano però insistito  sull’età della coppia: la mamma aveva concepito la figlia a 57 anni, quando il marito ne aveva 69.

Tuttavia per i Giudici di legittimità detta circostanza, in assenza d’altro, non basta per spezzare i legami familiari.

Infatti, in tema di adozione, il prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia, sancito dall’art. 1 della l. n. 184 del 1983, impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, ai fini del perseguimento del suo superiore interesse, potendo quel diritto essere limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono – la cui dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia, come “extrema ratio” – a causa dell’irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per loro totale inadeguatezza.

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[:it]Risultati immagini per immagine adozione coppia omosessualeUna coppia di donne, che vive a Roma dal 2003, ha avuto una bimba all’estero anni fa con procreazione assistita eterologa per realizzare un progetto di genitorialità condivisa.

Il Tribunale dei Minorenni di Roma aveva accolto il ricorso presentato per ottenere l’adozione della figlia da parte della mamma non biologica,  la c.d. “stepchild adoption”, già consentita in altri Paesi.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 23 dicembre 2015  ha confermato la sentenza di primo grado, la prima in Italia che riconosceva la “stepchild adoption”, cioè l’adozione di una bimba da parte della compagna e convivente della madre.

Come già per la decisione sentenza del Tribunale per i Minori di Roma n. 299 del 30 giugno 2014, anche sentenza, che ne conferma il contenuto e con questo respinge il ricorso del pubblico ministero, presenta elementi su cui discutere:

il nocciolo della decisione ruota attorno alla interpretazione da dare all’articolo 44 della legge sulle adozioni, la n. 184 del 1983, che indica le eccezioni alla regola secondo cui i bambini possono essere adottati solo da un uomo e da una donna uniti in matrimonio; e, in particolare, alla lettera d) di tale articolo che permette l’adozione “quando vi sia la constatata impossibilità di un affidamento preadottivo”.

Per la Corte di appello di Roma, invece,  detta impossibilità deve intendersi non solo come “di fatto” (e cioè che per il minore non si sia stato possibile trovare alcun aspirante all’affidamento), ma anche come impossibilità “di diritto”. Cioè a dire, dato che nel caso in esame era “impossibile” l’affidamento preadottivo della bambina perché la legge italiana lo permette solo a coppie coniugate, e quindi non alla convivente della madre biologica, deve ritenersi possibile l’adozione da parte della compagna della madre.

In tal modo viene garantita alla bambina e alla famiglia di questa il pieno esercizio dei diritti conseguenti dall’intreccio dei rapporti familiari esistenti. E ciò non comporta alcuna contrarietà all’ordine pubblico internazionale, dal momento che aggiunge diritti e possibilità alla bambina, soprattutto in materia alimentare, preservando altresì ogni legame con la madre biologica.

Si noti bene:

  • la 1^ sezione civile della Cassazione, con sentenza 27 settembre 2013 n°22292, ha ritenuto che la nozione di “impossibilità di affidamento preadottivo” “attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella del contrasto con l’interesse del minore (che viene ampiamente richiamato nella pronuncia del TM Roma), essendo le fattispecie previste dalla norma tassative e di stretta interpretazione”.
  • Svariate sentenze della Corte di Cassazione e della Corte europea dei diritti umani hanno, invece, riconosciuto la piena dignità giuridica delle famiglie omogenitoriali, vuoi ricomposte, vuoi originarie; e cioé ove il progetto procreativo è iniziato e si è esaurito in seno alla coppia mediante accesso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, o anche di maternità surrogata. Si cita, a titolo esemplificativo: 11 gennaio 2013, n. 601, in tema di asserita dannosità dell’ambiente familiare incentrato su una coppia omossessuale; Corte eur. dir. um., 26 giugno 2014, ric. n. 65192/11 e 65941/11, risp. Labassee v. France e Mennesson v. France; 27 gennaio 2015, ric. n. 25358/12, Paradiso et Campanelli c. Italie.
  • L’Italia infatti insieme a Polonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Bulgaria, è uno degli otto Paesi (su ventotto) dell’Unione europea che non riconosce in nessuna forma le coppie gay, né i loro figli.

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