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teacher-and-studentEpisodi di bullismo e di violenza tra studenti e insegnanti sono aimè sempre più frequenti non solo nella cronaca quotidiana ma anche nelle aule di Tribunale. Di recente la Corte di Cassazione pronunciandosi su un delicato giudizio originato dal ricorso presentato da una docente – vittima di una serie di infanganti ed infondate diffamazioni da parte del padre di un suo alunno – ha colto detta occasione per inviare un importante monito non relegabile al solo mondo giuridico.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine, nel lontano 1998, da un ricorso con cui un’insegnante di una scuola elementare toscana conveniva dinnanzi al Tribunale di Pisa il padre di un suo alunno al fine di ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla “…condotta gravemente diffamatoria ripetutamente tenuta dal convenuto nei suoi confronti”, il quale, oltre ad averle data del “mostro” nel corso di una riunione, aveva inviato numerose lettere in cui l’accusava di gravi comportamenti nei confronti dei suoi alunni. In particolare, a seguito di dette azioni, la stessa docente era stata sottoposta a valutazione psichiatrica medico-legale, a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 572 e 582 c.p. dal Procuratore della Repubblica di Pisa (reati da cui è stata successivamente assolta, con piena formula, per insussistenza del fatto) nonché alla misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio. Il clamore mediatico, conseguente alle predette accuse, aveva poi spinto i suoi superiori a disporne il trasferimento d’ufficio in altra sede.

La domanda attorea veniva tuttavia rigettata in primo grado per carenza di prova in merito al “comportamento illecito, lesivo della reputazione dell’attrice, attribuito al convenuto” e confermata nel successivo grado d’appello dalla Corte territorialmente competente, la quale dichiarava l’insegnante decaduta dalla prova per testi a seguito della loro omessa intimazione in primo grado.

Il ricorso per cassazione

L’insegnante, lungi dal darsi per vinta, ricorreva avverso la decisione della Corte d’Appello sino in cassazione eccependo inter alia l’illegittimità della dichiarazione di decadenza dall’assunzione dei mezzi di prova sulla scorta delle seguenti motivazioni:

  • In caso di omessa intimazione dei testimoni ad opera della parte interessata, difatti, affinchè il giudice possa legittimamente dichiararla decaduta dalla relativa prova, sarebbe necessario, da un canto, che l’omessa intimazione sia eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce l’inattività, e, dall’altro, che tale udienza non sia di mero rinvio”;
  • di contro, nel caso di specie, “…non ricorrerebbe nessuna delle suddette condizioni: 1) l’udienza nella quale vi era stata la mancata intimazione dei testimoni era stata tenuta non dal giudice titolare del procedimento, bensì da un G.O.T., e pertanto celebrata al solo scopo di procedere ad un mero rinvio officioso della causa; 2) la controparte, nella medesima udienza, non aveva sollevato alcuna eccezione di decadenza”.

La Suprema Corte, riconoscendo la fondatezza della tesi della ricorrente, afferma due importanti principi.

In primis che: “…la mancata intimazione dei testi non comporta la decadenza dal diritto di assunzione della prova tutte le volte che la relativa udienza abbia avuto il solo scopo di rinviare ex officio la causa (nella specie, per assenza del giudice istruttore titolare del procedimento)” alla luce della seguente condivisibile argomentazione:

  • L’art. 104 disp. att. c.p.c., comma 1 nell’attuale formulazione (applicabile ai giudizi instaurati dopo la data di entrata in vigore della  18 giugno 2009, n. 69), prevede che “se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara, anche d’ufficio, decaduta dalla prova, salvo che l’altra parte dichiari di avere interesse all’audizione“;
  • prima della modifica legislativa esistevano due opposti orientamenti interpretativi del testo previgente, che recitava “se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara decaduta dalla prova“;
  • di questi, deve ritenersi preminente l’orientamento ad avviso del quale “…la norma andrebbe interpretata nel senso che il giudice dichiara la decadenza di ufficio, senza necessità di preventiva istanza della controparte, dovendosi, per ragioni di coerenza, ritenere applicabile a tale ipotesi lo stesso meccanismo previsto dall’art. 208 c.p.c.per l’ipotesi di non comparizione del difensore che ha intimato i testi.. 24/11/2004, n. 22146,13-08-2004, n. 15759, 09-081997, n. 7436, affermano che la sanzione di decadenza dalla prova di cui all’art. 104 disp. att. c.p.c. è predisposta non per ragioni di ordine pubblico ma nell’interesse delle parti, e la norma in esame, da interpretarsi in coordinazione sistematica con l’art. 250 c.p.c., deve essere intesa nel senso che la decadenza dalla prova, nel caso di omessa citazione dei testi, senza giusto motivo, per l’udienza fissata per il raccoglimento della prova, deve essere pronunziata quando tale omissione venga posta in essere in relazione all’udienza nella quale la prova deve essere assunta e deve essere eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce la inattività, che ne costituisce il presupposto di fatto, salvo che sussista un valido motivo per rinviare all’udienza successiva la proposizione dell’eccezione”.

La Suprema Corte, poi, riconoscendo la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. 5.3, afferma il seguente principio di diritto: “al cospetto di una pluralità di fatti storici, ciascuno portatore di una propria, singola valenza indiziaria, il giudice non può procedere alla relativa valutazione attraverso un procedimento logico di scomposizione atomistica di ciascuno di essi, per poi svalutarne, singolarmente e frammentatamente, la relativa efficacia dimostrativa”.

Nel caso di specie, gli Ermellini censurano il decisum del giudice di appello, ritenendo che qualora gli il giudice dell’impugnazione avesse di contro correttamente operato una “…valutazione necessariamente diacronica e complessivamente sintetica dei fatti di causa…” dalla stessa sarebbe emerso “…che la condotta denigratoria ascritta all’odierno resistente ebbe diacronicamente a dipanarsi attraverso una serie di atti e comportamenti univocamente e pervicacemente intesi a ledere l’onore, il prestigio e la stessa dignità dell’insegnante”, con conseguenze gravissime sull’insegnante, senza che dette azioni possano ritenersi “…scriminate né sminuite, come erroneamente mostra di ritenere il giudice d’appello, nella scia del convincimento del tribunale, né dalla circostanza che anche altri, insieme al M., avrebbero contribuito alla verificazione degli eventi (tale affermazione ponendosi in evidente e irredimibile contrasto con il dettato dell’art. 41 c.p., in tema di con-causalità dell’evento), né dalla accertata diacronia delle condotte – il cui dipanarsi nel tempo costituisce non una scriminante ma, di converso, un aggravante della condotta stessa – né tantomeno “dall’ormai conclamata dimensione collettiva e pubblica” dei fatti, ovvero dalla “autonoma risonanza” che la vicenda avrebbe assunto con lo scorrere del tempo”.

Rilevante, a sommesso avviso dello scrivente è altresì il messaggio etico e sociale con cui la Suprema Corte conclude il proprio iter argomentativo affermando che, sebbene con sia certamente “…compito della giurisdizione sindacare, sul piano etico e sociale, il comportamento dei consociati in una determinata epoca storica, poiché il processo civile (e in particolare quello avente ad oggetto vicende di responsabilità civile) è funzionale ad offrire precise risposte, rigorosamente circoscritte al piano del diritto, a singole vicende che riguardano singole persone che chiedono tutela al giudice”, dall’altro lato il “giudice civile, nella valutazione e liquidazione del quantum deleatur, non può e non deve ignorare, – quasi che la dimensione della giurisdizione si collochi entro un asettico territorio di pensiero tanto avulso dal reale, quanto insensibile ai mutamenti sociali e culturali in cui essa viene esercitata (in argomento, tra le altre, Cass. 21619/2007, che discorre di “dimensione storica” dei criteri di causalità; Cass. 5146/2018, che ricostruisce espressamente il risarcimento da perdita di chance in termini di scelta “di politica del diritto”) – il preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il processo educativo e formativo delle giovani e giovanissime generazioni”.

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downloadLa scelta della scuola, si sa, non è mai facile. Tra numeri chiusi, tempi stretti e la concorrenza tra istituti pubblici e privati, parificati o meno, sono sempre più frequenti i “ripensamenti” anche ad iscrizione ultimata. Aimè nella prassi, molte scuole “blindano” se non la frequenza effettiva, quanto meno il compenso per l’intero anno scolastico, attraverso contratti contenenti clausole, alcune delle quali di carattere vessatorio, che limitano e/o privano i genitori e il figlio della facoltà di recedere gratuitamente.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 5 maggio 2017, n°10910, trae origine proprio da uno di detti casi, venendo in soccorso di una madre che, dopo aver pagato per l’iscrizione del figlio in una scuola paritaria, si era vista notificato un decreto ingiuntivo di pagamento della retta dell’intero anno scolastico da parte dell’istituto, nonostante avesse comunicato la volontà di recedere e nonostante il figlio avesse poi frequentato un altro istituto.

La signora decideva pertanto di impugnare il decreto, deducendo la vessatorietà di alcune clausole contrattuali, che ponevano in una posizione di svantaggio i genitori-consumatori rispetto al professionista, chiedendo, in via principale, la revoca dello stesso, incidentalmente la restituzione della quota d’iscrizione già versate e, in subordine, la riduzione del suo importo alla sola quota d’iscrizione.

Il Tribunale di Busto Arsizio, tuttavia, respingeva detti motivi di opposizione ritenendo che non sarebbe vessatoria la clausola che prevedeva “…nel caso di abbandono o non frequenza della scuola, l’obbligo del genitore contraente di corrispondere l’intera retta…”, potendo ritenersi tale “… solo in caso di recesso dello stesso professionista, e non quando, come nella fattispecie, è il consumatore a recedere”.

Il Tribunale, accoglieva tuttavia la domanda riconvenzionale della madre, volta alla restituzione quanto meno della quota d’iscrizione.

La signora e il suo avvocato, tuttavia, non si perdevano d’animo e impugnavano la sentenza di primo grado dinnanzi alla Corte d’Appello di Milano, eccependo nuovamente la vessatorietà della clausola che escludeva il diritto di recesso del genitore, oltre alla “…mancanza di conoscenza del regolamento, la mancata considerazione di una testimonianza e la asserita incompetenza territoriale del Tribunale di Busto Arsizio”.

La Corte milanese, pur disattendendo tali ultime rimostranze, dando ragione alla signora, riconosceva la vessatorietà della clausola contrattuale che poneva in capo al genitore l’obbligo di corrispondere l’intera quota nonostante la mancanza di frequenza dell’alunno, in quanto:

  • era pacifico che il relativo contratto non era stato oggetto di trattativa individuale (essendo “intonso” il modello contrattuale redatto dal professionista;
  • tale obbligo si poneva in contrasto con l’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, rubricato “Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore”, che sul punto dispone: “ Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: (…) g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;”
  • tale vessatorietà risultava ancor più evidente se raffrontata con un’ulteriore clausola che consentiva all’istituto di “…sottrarsi all’obbligo di rendere le proprie prestazioni nel caso di mancato raggiungimento del numero idoneo per la formazione delle classi”, da considerarsi anch’essa vessatoria, atteso che tale circostanza impedirebbe al consumatore di verificarne la sussistenza, e non integrerebbe una condizione oggettiva in quanto la sua mancanza non renderebbe materialmente impossibile la prestazione promessa ma unicamente il riconoscimento dell’istituto come paritario.

Avverso tale decisione, proponeva ricorso in Cassazione l’istituto sulla base di tre motivi, tutti disattesi dalla Suprema Corte.

In particolare, con il primo motivo il ricorrente deduceva la mancanza di vessatorietà della clausola contrattuale che permetterebbe all’istituto di recedere in caso di mancato raggiungimento di un numero idoneo di studenti, in quanto la stessa avrebbe “…in realtà il carattere di condizione sospensiva, collegata ad un obbligo imposto alla stessa Acof dalla legge”, condizione che si sarebbe poi avverato facendo acquistare al contratto efficacia ex tunc. Ad avviso del ricorrente, in altri termini, una volta raggiunto il numero degli studenti per avviare il corso, né il professionista né il consumatore avrebbero potuto recedere, con conseguente assenza di qualsiasi squilibrio tra consumatore e professionista.

Di diverso avviso sono i giudici transtiberini, ad avviso dei quali la Corte milanese aveva giustamente ritenuto sussistente una presunzione di vessatorietà della suddetta clausola, ai sensi dell’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, essendo assente un obbligo di legge che ne giustificasse l’esistenza ed essendo indubbio che la stessa clausola riconosceva “…al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto”. Ad avviso della Corte, inoltre, la presunzione di vessatorietà risultava nel caso di specie ancor più evidente, atteso che detta clausola consentiva “…al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto” senza prevedere “analoga sanzione a carico del professionista” (sul punto si veda anche Cass. civ., Sez. III^, sentenza del 17 marzo 2010, n°6481, ad avviso del quale la somma dovuta dall’allievo nel caso di recesso integra una penale).

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello:

  • avrebbe erroneamente qualificato l’istituto come asilo e non come scuola materna che, “pur non essendo obbligatoria, a differenza del nido è inserita nel sistema scolastico educativo nazionale”;
  • avrebbe errato nel ritenere irrilevante la qualifica di scuola paritaria dell’istituto, come dimostrato dalla successiva iscrizione dell’alunno presso altra scuola paritaria;
  • avrebbe dovuto applicare una circolare ministeriale che dettava regole per le iscrizioni degli alunni nell’anno accademico di riferimento.

La Suprema Corte, ancora una volta, disattende le suddette eccezioni, ritenendo indimostrata l’influenza che la corretta applicazione della normativa statale avrebbe avuto sull’esito del giudizio.

Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, l’istituto si doglie della mancata applicazione “…dell’art. 34, comma 4, Codice del Consumo, il quale esclude la vessatorietà delle clausole che siano state oggetto di trattativa individuale”, ritenendo che dall’istruttoria sarebbe emersa non solo la possibilità ma anche l’effettiva contrattazione delle clausole contrattuali.

Anche detto ultimo motivo veniva tuttavia dichiarato inammissibile per violazione dei limiti di deducibilità del vizio ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 6, n. 5 nonché per difetto di autosufficienza.

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