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[:it]Cari colleghi, sono oramai in vigore le modiche introdotte al nostro codice deontologico, pubblicate in G.U. n°86 del 13 aprile 2018, come chiarito dal CNF con circolare n°7-C-2018. Esse hanno ad oggetto nello specifico due articoli, disciplinanti, rispettivamente, la responsabilità disciplinare (art. 20) e i doveri d’informazione (art. 27, limitatamente al solo co. 3).

La modifica dell’art. 20, in particolare, è volta a chiarire il valore solo tendenziale del prinicipio di tipicità degli illeciti, come evidente da un raffronto tra:

  • l’art. 20, nell’originaria formulazione: “La violazione dei doveri di cui ai precedenti articoli costituisce illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste nei titoli II, III, IV, V, VI di questo codice”;
  • e il testo novellato dell’art. 20, composto da due separati commi, che oggi recita come segue: “ La violazione dei doveri e delle regole di condotta di cui ai precedenti articoli e comunque le infrazioni ai doveri e alle regole di condotta imposti dalla legge o dalla deontologia costituiscono illeciti disciplinari ai sensi dell’art. 51, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247.
  1. Tali violazioni, ove riconducibili alle ipotesi tipizzate ai titoli II, III, IV, V e VI del presente codice, comportano l’applicazione delle sanzioni ivi espressamente previste; ove non riconducibili a tali ipotesi comportano l’applicazione delle sanzioni disciplinari di cui agli articoli 52 lettera c) e 53 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, da individuarsi e da determinarsi, quanto alla loro entità, sulla base dei criteri di cui agli articoli 21 e 22 di questo codice”.

In nuovo testo chiarisce, pertanto, rispetto alla precedente formulazione, che, in mancanza di espressa tipizzazione della figura di illecito, la stessa sarà ricostruita sulla base dei principi fondamentali e fondanti l’ordinamento forense. E ciò in quanto “Al giudice della deontologia è infatti rimessa in via esclusiva la valutazione del disvalore della condotta, della gravità del comportamento, del grado della colpa e dell’intensità del dolo, onde adattare, sempre e comunque, la sanzione alla fattispecie concreta, adeguandola nel rispetto del principio di proporzionalità”.

Con riferimento all’art. 27, rubricato “Doveri d’informazione”, la novella integra il comma 3° con la espressa previsione del dovere di informare per iscritto il cliente anche della possibilità di avvalersi della c.d. negoziazione assistita, procedimento che, come noto, riconosce all’avvocato un ruolo decisivo per il raggiungimento di una composizione stragiudiziale.

Ciò, appare evidente, da un mero raffronto:

  • tra il testo previgente: “ L’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve informare la parte assistita chiaramente e per iscritto della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione previsto dalla legge; deve altresì informarla dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge”
  • e quello attualmente in vigore: “3. L’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve informare chiaramente la parte assistita della possibilità di avvalersi del procedimento di negoziazione assistita e, per iscritto, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; deve altresì informarla dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge”.

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[:it]downloadLe Sezioni Unite – con sentenza n°22253 del 25 settembre 2017, pubblicata il 1° novembre 2017 – sono tornate in questi giorni a pronunciarsi sui limiti entro i quali la testimonianza dell’avvocato avverso il proprio cliente debba considerarsi pienamente legittima e conforme ai doveri deontologici del difensore.

La vicenda vede come protagonista un collega meneghino il quale, dopo aver difeso in un procedimento per possesso di stupefacenti una cliente, sig.ra C.B., instaura con quest’ultima un rapporto di amicizia. Conclusosi il mandato, tuttavia, l’ex cliente maturando una forte gelosia nei confronti della nuova collega di studio di quest’ultimo, avv. A.S., iniziava ad ossessionarla mediante continue telefonate. L’avv. A.S. decideva pertanto di querelare la sig.ra B. citando come testimone il collega, il quale riferiva che la sig.ra C.B. “…era affetta da ‘una sorta di compulsività maniacale’ e da ‘mania di persecuzione’, che aveva in passato oltraggiato un agente di custodia e che, infine, aveva gravemente e reiteratamente insultato il predetto avvocato A.S.”.

Il Consiglio dell’Ordine di appartenenza, con deliberazione del 1° luglio 2013, decideva di sospendere il collega dall’esercizio della professione per mesi due, addebitandogli di “Essere venuto meno ai doveri di lealtà per avere reso testimonianza, su fatti appresi nell’esecuzione del mandato, contro la ex cliente sig.ra C.B., in un procedimento penale…”. Detta decisione veniva confermata dal Consiglio Nazionale Forense con sentenza del 31 dicembre 2016.

Di diverso avviso si sono rivelate tuttavia le Sezioni Unite della Suprema Corte che, in accoglimento del ricorso dell’avvocato meneghino, cassa la sentenza in quanto affetta dal vizio di falsa applicazione della norme,  annullando la sanzione inflitta dal C.O.A. di Milano, sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • l’art. 58 del Codice Deontologico vigente ratione temporis statuisce che: “Per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto. L’avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo”;
  • detta norma deve essere letta alla luce delle disposizioni del codice di procedure penale in punto di testimonianza, ed in particolare dell’art. 200 c.p.p., ai sensi del quale è coperto dal segreto professionale esclusivamente quanto appreso dall’avvocato “…nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto”;
  • nel caso di specie, invece, la Suprema Corte ha ritenuto che la testimonianza resa dal collega non abbia integrato la violazione dell’art. 58 C.D.F. in quanto: a) esulante da fatti e circostanze apprese nel corso del mandato difensivo; b) si è trattato non di fatti o circostanze empiriche bensì di “…opinioni ed apprezzamenti circa la personalità dell’imputata, per nulla collegati al rapporto di mandato difensivo intercorso tra i due”; c) la sentenza del C.N.F., da ultimo, non ha escluso che detti apprezzamenti siano stati maturati, dopo la cessazione del mandato difensivo, nel successivo rapporto di amicizia e frequentazione instauratosi tra i due.

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