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Con la recente ordinanza n°9226/2020, depositata lo scorso 20 maggio 2020, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità dell’esercizio del diritto di recesso del promissario acquirente dal contratto preliminare di compravendita a seguito dell’assenza del certificato di agibilità dell’immobile al momento della stipula del contratto definitivo.

La vicenda

La controversia origina dal ricorso ex art. 702 bis c.p.c. con cui i promittenti venditori di un immobile avevano convenuto in giudizio il promissario acquirente al fine di:

  • accertare il legittimo esercizio del loro diritto di recesso dal contratto preliminare sottoscritto;
  • accertare il conseguente diritto a trattenere la caparra versata venditori;
  • ottenere la cancellazione della trascrizione del predetto contratto preliminare.

A sostegno della loro pretesa i promittenti venditori rappresentavano che:

  • nel contratto preliminare era stato fatto espresso riferimento all’assenza del certificato di agibilità dell’immobile (anteriore al 1967) e al mancato completamento della pratica di condono edilizio;
  • prima della data della stipula del contratto definitivo il promissario acquirente aveva illegittimamente preteso il differimento della data del rogito nonché il dimezzamento del prezzo di vendita sulla base dell’assenza del predetto certificato di agibilità e il mancato completamento della pratica di condono edilizio;
  • il promissario acquirente non si era successivamente presentato per la stipula del contratto definitivo nel termine convenuto, così dimostrandosi inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte con il contratto preliminare.

Il convenuto, costituitosi in giudizio chiedeva il rigetto della domanda nonché, in via riconvenzionale, l’accertamento della legittimità del suo recesso, esercitato a mezzo r.a.r, e la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra.

Il Tribunale di Roma, investito della questione, mutato il rito, “…rigettava la domanda principale ed accoglieva quella riconvenzionale, dichiarando, conseguentemente, la legittimità del recesso operato dal promissario acquirente in considerazione dell’interesse del medesimo ad acquistare l’immobile dotato del certificato di agibilità ed in regola con la normativa urbanistica, con la derivante condanna degli attori al pagamento del doppio della caparra”.

La sentenza veniva confermata anche in Appello sulla scorta della mancata prova da parte degli appellanti della “…rinuncia del promissario acquirente al requisito dell’agibilità dell’immobile oggetto del contratto preliminare e per il quale avrebbe dovuto essere stipulato quello definitivo sia confermando – nella valutazione complessiva dei reciproci inadempimenti per i quali erano stati esercitati i rispettivi recessi – la non scarsa importanza di quello imputabile ai promittenti venditori”.

Il ricorso per Cassazione

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in oggetto, rigetta le doglianze dei promittenti venditori, alla luce dei seguenti condivisibili chiarimenti:

  • la mera previsione della formula ‘non c’è il certificato di abitabilità’ non è idonea – come accertato dalla Corte d’Appello, attraverso una sua valutazione di merito – a configurare una rinuncia da parte del promissario acquirente a subordinare la conclusione del contratto definitivo al preventivo rilascio del certificato di abitabilità;
  • come da tempo chiarito da un’univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 15969/2000 e Cass. n. 10820/2009), “…il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia (anche ove il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune, nei cui confronti è obbligato ad attivarsi il promittente venditore) è da ritenersi giustificato perché l’acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene, per cui i predetti certificati devono ritenersi essenziali” (v. anche Cass. n. 16216/2008, Cass. n. 30950/2017 e Cass. n. 23265/2019).
  • “…ai fini della legittimità del recesso di cui all’art. 1385 c.c., come in materia di risoluzione contrattuale, non è sufficiente l’inadempimento, ma occorre anche la verifica circa la non scarsa importanza prevista dall’art. 1455 c.c., dovendo il giudice tenere conto dell’effettiva incidenza dell’inadempimento sul sinallagma contrattuale e verificare se, in considerazione della mancata o ritardata esecuzione della prestazione, sia da escludere per la controparte l’utilità del contratto alla stregua dell’economia complessiva del medesimo” (cfr. Cass. n. 409/2012 e Cass. n. 21209/2019), verifica nel caso di specie effettuata e motivata dalla Corte di merito;
  • da ultimo, il termine indicato nel contratto preliminare per la stipula del definitivo non poteva considerarsi essenziale, in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza “…in tema di contratto preliminare di compravendita, il termine stabilito per la stipulazione del contratto definitivo non costituisce normalmente un termine essenziale, il cui mancato rispetto legittima la dichiarazione di scioglimento del contratto, precisandosi, tuttavia, che tale termine può ritenersi essenziale, ai sensi dell’art. 1457 c.c., solo quando, all’esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto (e, quindi, insindacabile in sede di legittimità se logicamente ed adeguatamente motivata in relazione a siffatti criteri), risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di considerare ormai perduta l’utilità economica del contratto con l’infruttuoso decorso del termine.”

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[:it]unmarriedLa Suprema Corte, sez. III^ civile, con sentenza n°10377 del 27 aprile 2017, si è pronunciata su un’annosa questione, oggi disciplinata normativamente dalla legge c.d. “Cirinnà”: il godimento dell’immobile da parte del convivente more uxorio del proprietario, dopo il decesso di quest’ultimo.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una convivente more uxorio a cui, dopo la morte del compagno proprietario dell’immobile, era stato intimato, da parte della moglie separata e della figlia dello stesso, il rilascio di quest’ultimo.

I giudici di primo e secondo grado, non condividendo le motivazioni addotte dalla difesa della ricorrente, rigettavano la domanda della stessa, ritenendo che “…il prolungato rapporto di convivenza ‘more uxorio’ (…) non attribuisse alla prima alcun titolo idoneo a possedere o detenere l’immobile, né il diritto di abitazione ex art. 540 co. 2 e 1022 c.c. riservato al coniuge”.

L’ex compagna, lungi dal darsi per vinta, ricorreva per cassazione sostenendo, inter alia, che l’evoluzione del concetto di famiglia avrebbe portato la giurisprudenza di legittimità e costituzionale a ritenere l’affectio derivante dalle convivenze “more uxorio”, caratterizzate da apprezzabile stabilità, come interesse meritevole di tutela, “…riconoscendo al convivente non titolare di diritti reali o relativi sull’immobile destinato ad abitazione della coppia, la titolarità di una relazione con il bene qualificata come detenzione autonoma, tale da legittimare il godimento del bene anche dopo il decesso del convivente”.

Di diverso avviso sono tuttavia gli Ermellini, distinguendo a seconda che il convivente proprietario sia o meno in vita. Secondo la Suprema Corte, pertanto:

  • in costanza di convivenza, il convivente non proprietario avrebbe un interesse proprio avente i connotati di una detenzione qualificata dell’immobile, in virtù del quale sarebbe legittimato ad esperire l’azione di spoglio, in caso di sua estromissione violenta o clandestina, non solo nei confronti dei terzi ma dello stesso convivente proprietario;
  • a seguito della morte del convivente proprietario (o semplicemente a seguito di una scelta libera delle parti), tuttavia, il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata dell’immobile verrebbe meno e non sarebbe più esercitabile nei confronti dei terzi, non potendo la rilevanza sociale e giuridica della convivenza di fatto incidere sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sul bene immobile.

Pertanto, secondo la Suprema Corte, una volta deceduto il convivente proprietario, nel regime anteriore a quello introdotto dalla legge Cirinnà, la protrazione della relazione tra convivente superstite e bene potrebbe legittimamente sussistere unicamente in due ipotesi:

  1. a) qualora il convivente superstite sia istituito coerede o legatario dell’immobile, in virtù di disposizione testamentaria;
  2. b) qualora sia costituito un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario.

La Corte chiarisce altresì l’inapplicabilità ratione temporis al caso di specie della disposizione dell’art. 1, co. 42, della l. 76/2016, “…che conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo (non oltre i cinque anni) modulato diversamente in relazione alla durata della convivenza ed alla presenza di figli minori o disabili”.

Unico rimedio, seppur parziale, nel regime anteriore all’introduzione della legge Cirinnà, rimane, ad avviso degli Ermellini, il ricorso al principio di buona fede e di correttezza…che impone al soggetto che legittimamente intende rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva disponibilità del bene, di concedere all’ex convivente un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione” (sul punto Cass. 7214/13).

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