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[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, SS.UU., con ordinanza 5 giugno 2017, n. 13912, si è pronunciata sul ricorso ex art. 41 c.p.c. presentato dalla resistente in un ricorso per la modifica della condizioni di separazione.

In particolare, l’ex moglie, costituitasi in giudizio aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, essendosi la stessa trasferita negli USA da oltre due anni unitamente alla figlia.

Con decreto del 28 ottobre 2015, tuttavia, il presidente del Tribunale adito non aveva condiviso l’eccezione della resistente “perché il provvedimento di modifica delle condizioni della separazione aveva natura “integrativa” di quello di separazione, in relazione al quale la signora (OMISSIS) aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano” disponendo pertanto la comparizione personale delle parti.

Di qui la presentazione da parte dell’ex moglie di un ricorso ex art 41 c.p.c. alla Suprema Corte:

  1. deducendo la violazione dell’art. 12 del regolamento UE n°2201/2003 (c.d. Regolamento “Bruxelles II bis, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000), in quanto “l’accettazione della giurisdizione del giudice italiano nel procedimento di separazione sarebbe stato erroneamente riferito – nel corso dello stesso – anche al successivo procedimento di revisione, laddove la norma teste’ richiamata, al n. 2, lettera b), prevede che “la competenza esercitata ai sensi del paragrafo 1 (domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio”), cessa non appena la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio sia passata in giudicato”;
  2. deducendo l’omesso esame del trasferimento de facto della residenza abituale del marito nel luogo in cui lo stesso esercitava la propria attività commerciale;
  3. censurando l’interpretazione e la legittimità dell’ 37 della l. n°218/1995, attributiva della competenza giurisdizionale italiana “…anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia”, nella parte in cui non riconosce primazia alla residenza abituale del minore, criterio consacrato nei regolamenti internazionalprivatistici dell’Unione europea e in varie convenzioni internazionali.

La Corte, investita della questione, preliminarmente afferma:

  • la ricevibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c. in quanto “ … la mera delibazione, in via incidentale, in ordine al tema della giurisdizione, contenuta in un provvedimento che, come chiaramente si desume anche dalla parte dispositiva, ha carattere meramente istruttorio ed è quindi privo di natura decisoria – essendo per altro nella specie ogni pronuncia riservata al collegio e non al presidente del tribunale – non può ritenersi preclusiva della proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione”(sul punto Cass., Sez. U, 20 febbraio 2013, n. 4218; Cass., Sez. U., 27 novembre 2011, n. 22382).
  • l’irrilevanza dei provvedimenti assunti nel giudizio a quo successivamente alla proposizione dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, da ritenersi condizionati alla conferma del potere giurisdizionale dell’autorità che li ha pronunciati.

Entrando nel merito, poi, gli Ermellini:

  • ribadiscono l’autonomia esistente tra il giudizio di separazione e il giudizio volto alla modifica delle condizioni ivi determinate;
  • negano conseguentemente che l’accettazione della giurisdizione italiana da parte della ricorrente nel giudizio di separazione personale possa riverberare “…la sua efficacia anche nel giudizio di revisione”;
  • affermano che “…il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla c.d. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore (Corte giustizia, 5 ottobre 2010, in causa 296/10), assume una pregnanza tale da comportare anche l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione” (Cass., Sez. U, 30 dicembre 2011, n. 30646);
  • affermano che, poiché la richiesta di revisione da parte dell’ex marito verteva unicamente sull’affidamento allo stesso della minore, avente doppia cittadinanza italiana e statunitense, detta doppia cittadinanza rende applicabile il principio, già affermato dalle SS.UU. con sentenza del 9 gennaio 2001, n°1, secondo cui “…ai fini del riparto della giurisdizione e della individuazione della legge applicabile, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta; pertanto quelli che, pur incidendo sulla potestà dei genitori, perseguono una finalità di protezione del minore, rientrano nel campo di applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 42, il quale rinvia alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961. Invero nel caso di minore con doppia cittadinanza non può applicarsi l’articolo 4 della Convenzione, che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale”.

Alla luce dei suddetti principi, la Corte conclude affermando il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice della residenza abituale della minore in quanto:

  • “…sotto il profilo oggettivo, del richiamo della citata L. n. 218 del 1995, articolo 42 all’articolo 1 della richiamata Convenzione dell’Aja, anche con riferimento alle misure relative ai figli minori che vengono adottate in sede di separazione personale o di divorzio dei genitori, trova giustificazione nella circostanza che l’Italia non si è avvalsa della facoltà, prevista dall’articolo 15 della Convenzione stessa, di creare una competenza speciale per le misure attinenti ai minori”.
  • “…il parametro della residenza abituale, posto a salvaguardia della continuità affettivo relazionale del minore, non è in contrasto ma, al contrario, valorizza la preminenza dell’interesse del minore” (Cass. SS.UU, 19 gennaio 2017, n°1310 e Cass., 22 luglio 2014, n°16648).

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downloadLa Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condannato l’Italia per violazione dell’art. 8, sanzionando l’operato dei suoi tribunali, rei di non aver posto in essere misure efficaci e rapide al fine di tutelare il diritto di visita di un padre separato.

L’iter giudiziario italiano

Il ricorso alla Corte di Strasburgo trae le proprie origini da una triste quanto comune vicenda giudiziaria all’italiana. Un uomo, a seguito della decisione di separarsi dalla moglie, lasciava la casa familiare, incontrando da allora una forte opposizione della stessa a qualsiasi contatto padre-figlio. Il padre ricorreva pertanto al Tribunale per i Minorenni di Brescia, lamentando oltre alle predette circostanze anche un comportamento pregiudizievole della madre verso il minore – la quale continuava ad allattare il bambino, nonostante avesse già più di 5 anni, e a dormire con lui – e chiedendo pertanto il suo affido in via esclusiva, all’esito di una perizia. La madre, costituitasi, contestava la fondatezza di tali accuse, affermando che il padre si era da sempre disinteressato del figlio e chiedendo pertanto la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale.

Il Tribunale, investito della questione, disponeva pertanto una perizia psicologica, dalla quale emergeva l’opportunità di un affido condiviso, affiancata ad una procedura di mediazione familiare, e dell’esercizio del diritto di visita da parte del padre senza la presenza della madre.

Il Tribunale, conseguentemente, aderendo parzialmente alle risultanze della predetta perizia, decideva di affidare il minore ad entrambi i genitori, con collocamento prevalente presso la madre, concedendo al padre di vedere il figlio due giorni alla settimana. La decisione veniva impugnata, senza successo, da ambedue gli ex coniugi dinnanzi alla Corte d’Appello, che confermava pertanto le statuizioni del giudice di primo grado.

Decorsi pochi anni, il padre adiva nuovamente il Tribunale chiedendo che il figlio potesse trascorrere con lui le prossime vacanze pasquali. Il Tribunale, in tale occasione, accoglieva la domanda del ricorrente, respingendo la successiva richiesta di revoca presentata dalla madre. Successivamente il Tribunale, dando atto della volontà del minore a passare più tempo con il padre, pernottando altresì presso di lui, dell’atteggiamento ostruzionistico persistente della madre e dell’assenza di una sua collaborazione con i servizi sociali, estendeva il diritto di visita e di alloggio anche ad un fine settimana alternato, incaricando i servizi sociali di monitorare il rispetto di tali prescrizioni.

La madre, tuttavia, continuava ad opporsi a qualsiasi incontro padre-figlio senza la sua presenza, impedendo di fatto l’esercizio del diritto di visita stabilito dal Tribunale. Tale condizione, a detta del padre, spingeva quest’ultimo non solo a rifiutarsi di vedere il figlio e di tenerlo con lui ma anche a contattarlo telefonicamente e a passare con lui le vacanze. All’esito di ulteriori ricorsi presentati dai due genitori, la madre veniva autorizzata a trasferirsi a Torino, per motivi economici e di opportunità, alla luce anche del mancato esercizio del diritto di visita da parte del padre. Veniva rigettata, invece, la domanda dell’ex moglie di decadenza del padre dalla responsabilità genitoriali sul minore. Nei mesi successivi il padre persisteva nel suo rifiuto di collaborare con i servizi sociali di Torino e di vedere il figlio, nonostante la prescrizione da parte del Tribunale di incontri protetti, pertanto, senza la presenza della madre.

Il ricorso alla Corte europea

Il ricorrente decideva pertanto di adire la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione, dal momento che le autorità italiane avrebbero tollerato il comportamento inaccettabile posto in essere dalla madre – volto ad ostacolare il libero esercizio di visita da parte del padre e “…aizzare il minore contro di lui” – in aperta violazione delle condizioni fissate dal tribunale italiano.

I principi individuati dalla Corte

La Corte, investita della questione, chiarisce preliminarmente come lo scopo dell’art. 8 CEDU sia quello di  …premunire l’individuo contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri ”, garantendo il rispetto della vita familiare, inclusiva altresì del rispetto delle relazioni reciproche tra individui, tra cui le relazioni tra genitore non convivente e figli.

A tal fine, l’articolo in oggetto “…non si limita a imporre allo Stato di astenersi da simili ingerenze: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata o famigliare”. Tra tali misure positive la Corte individua anche “…la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate…idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori”, richiamando sul punto una sua sterminata giurisprudenza (ex multis, Ignaccolo-Zenide c. Romania, n. 31679/96, § 108, CEDU 2000 I, Sylvester c. Austria, nn. 36812/97 e 40104/98, § 68, 24 aprile 2003). Tali obblighi positivi, chiarisce la Corte, “…non implicano solo che si vigili affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di giungere a tale risultato.

Fondamentale poi, ad avviso della Corte, ai fini dell’adeguatezza delle predette misure è la rapidità con cui le stesse vengano attuate “…in quanto il trascorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili per le relazioni tra il minore e il genitore che non vive con lui”. Di contro, l’infruttuosità delle misure adottate al fine di riunificare padre e figlio non comportano automaticamente la violazione da parte dello Stato membro degli obblighi ex art. 8 CEDU e ciò in considerazione, da un lato, del carattere non assoluto di tale diritto e, dall’altro, dalla necessità di considerare altresì il comportamento e la comprensione tenuta da tutte le persone coinvolte nel caso concreto. Di fatti, alle autorità non è consentito, se non in via del tutto residuale e limitata, l’utilizzo della coercizione, dovendo le stesse tenere sempre in primaria e prevalente considerazione il diritto superiore del minore. Al fine di giudicare la legittimità dell’azione delle istituzioni, dunque, si dovrà verificare da un lato l’adozione di “…tutte le misure neessarie che ragionevolmente era possibile attendersi da loro per mantenere i legami tra il ricorrente e suo figlio…” (sul punto si veda anche Manuello e Nevi c. Italia, n°107/10, § 52, 20 gennaio 2015) e, dall’altro, “…esaminare il modo in cui le autorità sono intervenute per agevolare l’esercizio del diritto di visita del ricorrente come definito dalle decisioni giudiziarie (sul punto Kuppinger c. Germania, n. 62198/11, § 105, 15 gennaio 2015).

Applicazione di questi principi al presente caso

Passando poi all’applicazione dei suddetti principi, la Corte ritiene necessario distinguere tra due periodi distinti.

Nel primo periodo, compreso tra la separazione iniziale e la manifestazione da parte del padre della volontà di non esercitare più il diritto di visita, la Corte ha ritenuto che il diritto di visita del ricorrente sia stato gravemente pregiudicato dall’operato delle autorità, le quali, nonostante fossero consapevoli del comportamento consapevolmente ostruzionistico tenuto dalla madre, non avevano posto in essere misure idonee ed adeguate a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre” e “…misure utili ai fini dell’instaurazione di contatti effettivi”. In particolare la Corte, pur riconoscendo le elevate difficoltà del caso di specie a seguito della conflittualità acerrima tra i genitori, ha ritenuto che la mancanza di cooperazione tra gli stessi “…non possa dispensare le autorità competenti dall’utilizzare tutti gli strumenti atti a consentire il mantenimento del legame familiare” (si vedano Fourkiotis c. Grecia n. 74758/11 § 72, 16 giugno 2016).

Per quanto attiene invece al secondo periodo, terminante con la presentazione del ricorso dinnanzi alla Corte, la stessa ha ritenuto insussistente la violazione dell’art. 8 CEDU in quanto i servizi sociali, incaricati dal Tribunale di vigilare sulla questione, avrebbero profuso “…tutti gli sforzi che si poteva ragionevolmente attendersi da loro per garantire il rispetto del diritto di visita del ricorrente, conformemente alle esigenze del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione”. Di contro, invece, sarebbe stato proprio il padre ad assumere da allora “…un atteggiamento negativo poiché ha prima annullato diversi incontri e poi ha deciso di non partecipare più alle visite”.

Da ultimo, la Corte rigetta la richiesta di risarcimento del danno morale presentata dal ricorrente, ritenendo “…che la constatazione di una violazione fornisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per qualsiasi danno morale eventualmente subito…”.

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imagesAll’indomani della legge n°76/2016, c.d. legge Cirinnà, che per la prima volta ha riconosciuto e disciplinato la tutela nel nostro ordinamento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, ad accendere il dibattito tra sostenitori della famiglia tradizionale e quelli della “gender-equality” è intervenuta una rivoluzionaria pronuncia della Corte d’Appello di Trento che ha accolto la domanda di una coppia sposata all’estero, che aveva avuto un figlio ricorrendo alla pratica del c.d. “utero in affitto”, al fine di veder riconosciuto anche in Italia il rapporto di filiazione con ambedue i padri, a prescindere dalla sussistenza di una relazione genetica con entrambi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da due uomini di nazionalità italiana, legalmente sposati negli Stati Uniti, avverso il rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile di un comune italiano alla trascrizione della sentenza con cui una corte statunitense aveva accertato l’esistenza del loro rapporto genitoriale con un figlio avuto ricorrente alla pratica della procreazione medicalmente assistita, prescindendo dalla mancanza di legami genetici con uno dei due padri.

A sostegno della propria richiesta la coppia affermava:

  • di aver fatto legittimamente ricorso alla procreazione medicalmente assistita in uno Stato che non poneva, diversamente che in Italia, restrizioni sulla base del genere;
  • che, in applicazione della legge del luogo di nascita dei due gemelli, era stato originariamente riconosciuto quale unico genitore il padre che aveva donato il proprio seme (non anche la madre gestante) e, in un secondo momento anche il padre non biologico;
  • che ambedue i genitori avevano assunto sin da subito il ruolo di padre e come tali erano riconosciuti dai bambini e dalla cerchia di amici, familiari e colleghi;
  • che, pertanto, la trascrizione della sentenza straniera, tutelando il diritto dei minori alla bigenitorialità, non poteva essere negata, non sussistendo alcun conflitto con l’ordine pubblico né internazionale né interno;
  • che la presenza di due genitori dello stesso sesso non poteva considerarsi pregiudizievole per il benessere del bambino, stante “…l’irrilevanza dell’orientamento sessuale del genitore per giudicare il benessere del bambino”, accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Contrario all’accoglimento del ricorso è invece il Procuratore generale, il quale:

  • eccepiva l’incompetenza della Corte a conoscere dell’opposizione al rifiuto di trascrizione;
  • riteneva la domanda dei ricorrenti contrastante con l’ordine pubblico interno italiano;
  • riteneva non sussistente nel diritto della CEDU “…un diritto incondizionato alla paternità o alla maternità”.

L’importanza della questione spingeva anche il Ministero dell’interno ad intervenire “…a difesa del provvedimento assunto dal Sindaco nella veste di Ufficiale di Governo”:

  • contestando la regolarità formale della notifica al Sindaco presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato;
  • ritenendo contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento del rapporto di filiazione in assenza di alcuna relazione biologica;
  • ritenendo inapplicabile alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, per espressa previsione della legge 76/16, le norme in materia di filiazione;
  • affermando che la possibilità di ricorrere all’adozione in casi particolari del figlio dell’altro partner “…rappresenta, nel presente momento storico, l’equilibrio più avanzato raggiunto dall’ordinamento tra i vari orientamenti sociali e culturali”, in quanto conferisce rilievo giuridico a detta relazione, tutelando adeguatamente gli interessi morali e materiali dei minori.

La Corte, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente:

– rigetta l’eccezione d’incompetenza avanzata dal Procuratore generale, ritenendo oggetto del presente giudizio esclusivamente “…il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano ex art. 67 della legge n°218 del 1995, del provvedimento (…) con il quale si accerta che è stata instaurata una relazione di genitorialità…”;

– nega la posizione di parte del procedimento del Sindaco, con conseguente irrilevanza degli eccepiti vizi di notifica del ricorso allo stesso;

– dichiara inammissibile l’intervento del Ministero degli interni, negando l’esistenza di un attuale interesse dello stesso ad intervenire alla luce del “…l’assenza di domande di risarcimento dei danni nel presente giudizio…”, ritenendo già debitamente tutelato dall’intervento in giudizio del Procuratore generale l’unico interesse pubblico rinvenibile “…e cioè quello di evitare che trovino ingresso nel nostro ordinamento giuridico provvedimenti contrari all’ordine pubblico in materia di stato delle persone…”.

Passando al cuore della questione, ovvero l’esistenza di un possibile contrasto con l’ordine pubblico internazionale e la rispondenza del riconoscimento della sentenza al superiore interesse dei minori, la Corte, in primis ne individua nozione e portata, alla luce della sua recente evoluzione giurisprudenziale e della recente sentenza n°19599/16 della Suprema Corte, chiarendo che:

  • rientrano tra i principi di ordine pubblico esclusivamente quei “…principi supremi e/o fondamentali della nostra carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario”;
  • si deve, invece, escludere un contrasto con l’ordine pubblico “…per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale…”;
  • conseguentemente il giudice a quo, dopo aver verificato la compatibilità tra norme straniere e principi costituzionali, “…dovrà sempre negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un dato momento storico…”.

Passando poi alla rispondenza del riconoscimento al superiore interesse del minore, la Corte rileva che, tanto la legge n°218/95 quanto l’art. 8, par. 1 della Convenzione di NewYork del 1989 sui diritti del Fanciullo, riconoscono il “…diritto del minore a conservare lo status di figlio riconosciutogli in un atto validamente formato in altro Stato” con conseguente evidente pregiudizio per i minori in caso di mancato riconoscimento dello status filiationis in quanto:

  • i figli non godrebbero in Italia nei confronti del padre non biologico di “…tutti i diritti che a tale status conseguono;
  • i figli sarebbero altresì “…pregiudicati anche sotto il profilo della perdita dell’identità familiare…” legittimamente acquisita nello Stato estero.

Ad avviso della Corte, il diritto dei due bambini alla bigenitorialità, ancorché non assoluto, non potrebbe legittimamente essere pregiudicato, stante l’assenza nel presente caso di antitetici…altri interessi e valori di rilevanza costituzionale primaria e vincolanti per il legislatore italiano” e ciò in quanto:

  • il mero divieto previsto dalla legge n°40 del 19 febbraio 2004 della possibilità per coppie di sesso diverso di ricorrere a procreazione assistita non può essere considerato “…espressione di principi fondamentali costituzionalmente garantiti;
  • le conseguenze previste dalla legge 40/14 in capo agli adulti che ricorrono illegalmente ad una pratica di negoziazione assistita non possono “…determinare la negazione del riconoscimento ai minori dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero…”;
  • l’assenza di legame genetico tra i figli e il ricorrente non può essere di ostacolo al riconoscimento del rapporto di filiazione tra gli stessi già riconosciuto all’estero, “…dovendosi escludere che nel nostro ordinamento vi sia un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra genitore ed il nato”.

La Corte, pertanto, conclude accogliendo il ricorso e dichiarando l’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento della corte statunitense che aveva dichiarato la paternità anche al padre non biologico.

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