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Introduzione

La nostra esistenza si esplica, ormai, tanto nel reale quanto nello spazio cibernetico (1), il luogo eletto per la realizzazione di vere e proprie aggressioni alla libertà personale e all’integrità dei soggetti più vulnerabili.

L’utilizzo di strumenti informatici, lo sfruttamento della rete e, conseguentemente, la massiccia condivisione di dati attinenti alla sfera privata, rimangono ancora troppo ignari ai reali rischi ed alle aggressioni alla privacy e, più in generale, alla persona umana realizzabili.

Oggi non è più possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra la realtà fisica e quella connessa (soprattutto a causa dell’utilizzo smodato e inconsapevole che viene fatto dai giovani degli strumenti informatici e del web), in quanto tutto ciò che accade nella prima produce effetti nella seconda, e viceversa.

La navigazione in rete dovrebbe avvenire nel modo più responsabile e consapevole possibile. Non si tratta di un obiettivo semplice e ciò in quanto le  aggressioni realizzabili sono, spesso, molto subdole e, soprattutto, mirano a sfruttare le nostre debolezze, nonché la nostra sfera emozionale.

L’utente in rete diviene una potenziale vittima o bersaglio, oltre che possibile autore di prevaricazioni e offese dei diritti e interessi altrui che vanno dall’onore e reputazione all’immagine e identità individuali; dalla riservatezza al controllo effettivo della diffusione o utilizzazione dei dati personali, fino alle libertà fondamentali.

Il doppio ruolo dell’utente, come potenziale autore o vittima, emerge soprattutto nella categoria più vulnerabile: i minori, “che ormai accedono ed utilizzano il web come parte integrante, talora patologicamente condizionante, della loro vita quotidiana” (2). Accanto alle potenzialità del web si stanno sviluppando fenomeni particolarmente allarmanti (sexting, cyberbullismo, giochi e sfide mortali come “Blu Wahle”), nonché rapporti devastanti che possono pregiudicare lo sviluppo di personalità ancora in crescita e mettere a rischio la socializzazione nella vita reale.

In questo articolo ci occuperemo in particolar modo dell’allarmante fenomeno del cyberbullismo e dell’individuazione della tutela giudiziale e stragiudiziale da prestare al minore che ne rimane vittima.

 

  1. Cos’è il cyberbullismo?

Il cyberbullismo rappresenta un’evoluzione del bullismo tradizionale, da cui certamente non si può prescindere per comprendere anche i tratti essenziali del cyberbullismo, fenomeno che dilaga nel cyberspazio.

Con il termine bullismo, derivante da quello inglese di “bullyng”, si indica l’insieme di comportamenti aggressivi e di prevaricazione che vengono messi in atto in modo ripetitivo e continuato da una o più persone nei confronti di una o più vittime percepite come più deboli (c.d. asimmetria di potere).

Gli atti di aggressione possono essere fisici, verbali e psicologici, ma non sempre si manifestano in modo esplicito, potendosi trattare di sussurri, pettegolezzi, esclusioni, isolamento sociale.

Il bullismo è una sottocategoria del comportamento aggressivo che si caratterizza per l’intenzionalità, la premeditazione, la ripetizione nel tempo e l’asimmetria di potere.

È possibile distinguere una forma diretta (aggressioni fisiche e verbali) ed una forma indiretta (manipolazione che porta all’isolamento sociale).

Le conseguenze che il bullismo produce sono diverse e, ovviamente, sono diverse a seconda che si tratti del bullo o della vittima e dipendono molto dalla personalità e dal bagaglio dei protagonisti.

Il bullismo non è un fenomeno nuovo. È sempre esistito ma, un tempo, non era al centro dell’attenzione sociale e veniva inteso come una tappa normale della crescita.

È bene specificare che non è praticato solo dal genere maschile, non essendo rari casi di bullismo femminile.

Chiarite le caratteristiche e dinamiche del bullismo tradizionale, è possibile esaminare il preoccupante fenomeno del cyberbullismo, appartenente all’era moderna dei media, di internet, dei social network e degli strumenti informatici.

Secondo la legge sul cyberbullismo, per cyberbullismo si intende “…qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”(2).

Nel cyberbullismo, come anche nel bullismo tradizionale, è possibile riscontrate i c.d. meccanismi di disimpegno morale (3):

  • la giustificazione morale: il cyberbullo giustifica il comportamento bullizzante in nome di principi quali l’onore e la lealtà (ritiene, ad esempio, che la vittima abbia screditato un suo amico);
  • il confronto vantaggioso: il cyberbullo ritiene la propria azione meno grave di altre che si possono commettere nella realtà fisica;
  • l’etichettamento eufemistico: il cyberbullo ridimensiona le conseguenze mascherando il vero significato della sua azione;
  • il dislocamento o diffusione della responsabilità, utilizzata per negare o minimizzare la propria responsabilità all’interno dell’azione;
  • la distorsione delle conseguenze: il cyberbullo minimizza le conseguenze negative dei propri comportamenti, focalizzandosi sugli aspetti positivi;
  • la deumanizzazione e colpevolizzazione della vittima.

 

  1. I diversi livelli di tutela del minore vittima di cyberbullismo

Il fenomeno del cyberbullismo è tutelato sia sul piano giudiziale (seppur indirettamente) che su quello stragiudiziale.

Sebbene nel sistema codicistico italiano non esista una disciplina ad hoc del fenomeno, il legislatore non è rimasto del tutto inerte. Con la L. n. 71/2017, recante “disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”, invero, ha introdotto diversi strumenti di tutela per le vittime di cyberbullismo che consistono nell’oscuramento, rimozione o blocco di qualsiasi dato personale del minore, diffuso nella rete Internet, su istanza del minore stesso o dei genitori esercenti la responsabilità sul minore, al titolare del trattamento o al gestore del sito Internet o del social network, ai quali, se non provvedono entro 48 ore, subentra, sempre su istanza dell’interessato, il Garante della Privacy; nella segnalazione ai genitori del cyberbullo; nell’ammonimento del questore prima della presentazione della querela (nel caso in cui, quindi, la condotta integri una o più fattispecie di reato).

Si tratta di importanti strumenti di difesa che possono, tra l’altro (e questo è molto importante), essere azionati direttamente dal minore che abbia compiuto i quattordici anni. A partire dalla stessa età il minorenne può anche sporgere denuncia o querela, nel caso in cui il cyberbullismo configuri anche un’ipotesi di reato.

Sotto il profilo penalistico, nonostante il cyberbullismo non sia di per sé punito dalla legge penale, le condotte poste in essere dal cyberbullo o dai cyberbulli, purché abbiano compiuto i quattordici anni, possono integrare diverse fattispecie di reato, anche in concorso, tra cui il reato di diffamazione ex art. 595, comma 3, c.p., che punisce l’offesa all’altrui reputazione, arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (in cui deve ricomprendersi la rete); le percosse; la minaccia; il trattamento illecito dei dati personali; la violenza privata; lo stalking; l’estorsione; la detenzione di materiale pornografico ecc.

Affinché si instauri un procedimento penale, è necessario che la vittima che abbia compiuto i quattordici anni o il genitore/genitori esercenti la responsabilità genitoriale sporgano denuncia o querela, personalmente o a mezzo di un proprio avvocato.

Poi, a seconda dell’età del cyberbullo, il procedimento si svolgerà dinanzi al Tribunale per i Minorenni (se il cyberbullo ha compiuto i quattordici anni) o al Tribunale Ordinario (se maggiorenne).

Sotto il profilo civilistico, invece, gli atti di cyberbullismo, anche non penalmente rilevanti o commessi da soggetto non imputabile, possono integrare una responsabilità per fatto illecito ex art. 2043 c.c. e legittimare la vittima, a mezzo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, ad agire per il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.

E se il cyberbullo è minorenne o non imputabile, chi ne risponde sul piano civilistico? Mentre la responsabilità penale è personale, in ambito civilistico le conseguenze di fatti illeciti possono ricadere sui genitori, qualora non abbiano fornito al proprio figlio un’educazione appropriata e non abbiano vigilato adeguatamente (c.d. culpa in vigilando ex art. 2048 c.c.).

Invero, secondo la più recente giurisprudenza di merito, “gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono ai genitori non solo il dovere di impartire ai figli una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, ma anche, tenuto conto della pericolosità del mezzo utilizzato, di compiere quell’attività di verifica e controllo sulla effettiva acquisizione dei valori trasmessi da parte del minore”(5).

Ancora, il Tribunale di Parma con la sentenza n. 698/2020 ha stabilito che i contenuti presenti sui telefoni cellulari dei minori andranno costantemente supervisionati da entrambi i genitori, evitando la comparsa di materiali non adatti all’età ed alla formazione educativa dei minori. La stessa regola vale per l’utilizzo eventuale del computer, al quale andranno applicati i necessari dispositivi di filtro.

Tutto ciò con un importante limite: la tutela della sfera personale e dei dati personali del minore da ingerenze altrui (anche da parte dei genitori se l’ingerenza non è giustificata).

Deve perseguirsi, pertanto, un bilanciamento tra l’esigenza di riservatezza del minore (per cui il quattordicesimo anno rappresenta l’età del consenso digitale) e il potere di controllo e intrusione delle figure genitoriali nella sua sfera privata.

In sostanza, il dovere di vigilanza deve essere esercitato nell’interesse superiore del minore, (art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York) e non può giustificare qualsiasi intromissione indebita nella sua sfera privata. Dovrà essere assicurato, al minore, l’esercizio della libertà di espressione, il diritto all’informazione e alla comunicazione, protetti da norme di rango superiore nazionali (artt. 2 e 21 Cost.) e internazionali (art. 10 della Convenzione di Roma del 1950 e art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre del 2000).

 

  • Secondo il quadro strategico nazionale per la sicurezza dello spazio cibernetico, Presidenza del Consiglio

dei ministri, 2013, per cyberspazio o spazio cibernetico si intende uno spazio in cui sono ricompresi Internet, le reti di comunicazione, i sistemi su cui poggiano i processi informatici di elaborazione dati e le apparecchiature mobili dotate di connessione di rete;

  • Cadoppi A., Canestrari S., Manna A., Papa M., “Cybercrime”, Omnia Trattati Giuridici, Utet, 2019, p. 58;
  • La teoria del disimpegno morale venne ideata dallo psicologo statunitense Albert Bandura negli anni ‘90, per descrivere la capacità dell’individuo di disimpegnarsi dalle sue auto-sanzioni morali (che servono a rispettare le regole), riuscendo a mantenere comunque un senso di integrità. Si tratta di meccanismi che disimpegnano il controllo interno e le auto-sanzioni, liberando l’individuo dai sentimenti di autocondanna e di colpa, nel momento in cui viene meno al rispetto delle norme;
  • n. 71/2017 sulle “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”;
  • Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta, 8 ottobre 2019:  il caso ha ad oggetto un minore che si era reso responsabile di condotte illecite in danno ad altra minore, molestandola con condotte reiterate utilizzando il sistema di messaggistica Whatsapp e provocando in lei un perdurante e grave stato d’ansia e di paura “costringendola a modificare le proprie abitudini di vita, per il fondato timore per l’incolumità propria e dei propri cari”.

 

 

 

Avv. Gilda Pugliese

[:it]downloadAncora non è sopito il fragore mediatico sollevato dalla sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano ha condannato l’ex moglie di Berlusconi a rifondere quanto ottenuto negli anni a titolo di assegno divorzile (sentenza n°4793 del 16 novembre 2017), che la Suprema Corte, con la recente ordinanza n°28326 del 17 ottobre 2017, pubblicata il 28 novembre 2017, ritorna a pronunciarsi sull’annosa questione della debenza dell’assegno divorzile, confermando la necessità di rivedere quelle sentenze basate sul “vecchio” parametro dello stile di vita della famiglia in costanza di matrimonio.

I fatti di causa:

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato da un marito avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Catania aveva riconosciuto all’ex moglie un assegno di mantenimento, parametrandolo altresì al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio. In particolare, il ricorrente deduceva, da un lato, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, co. 6 della legge n°898/70 e, dall’altro, l’omesso esame da parte della Giudice di secondo grado, di un fatto decisivo per il giudizio.

Gli Ermellini, accolgono le doglianze dell’ex marito, richiamando preliminarmente i seguenti principi di diritto affermati nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017:

  • Il diritto all’assegno di divorzio è subordinato alla previa verifica giudiziale, distinta in due fasi nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla stessa norma:
  1. la prima fase, avente ad oggetto l’accertamento dell’an debeatur, che si informa “…al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valore dall’ex coniuge richiedente…”;
  2. la seconda fase, a cui si accede solo in caso della conclusione positiva dell’accertamento dell’an, riguarda il quantum debeatur, è invece “…improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso”.
  • Il giudice del divorzio, dovrà pertanto previamente verificare la debenza dell’assegno accertando la sussistenza delle relative condizioni di legge – “mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive“…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”.
  • L’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge richiedente dovrà essere desunta da una serie di indici, quali:
    1. il “…possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente)…”;
    2. “…(del)la capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo)…”;
    3. “…(del)la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.
  • L’onere di dimostrare l’esistenza dell’indipendenza e/o non autosufficienza economica incombe sull’ex coniuge richiedente, “…fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge…”.
  • Nella seconda fase, relativa al quantum debeatur, il giudice dovrà tenere conto “…di tutti gli elementi indicati dalla norma…”, quali:
    1. le condizioni dei coniugi;
    2. le ragioni della decisione;
    3. “…il contributo personale dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune…”;
    4. i redditi di entrambi i coniugi.
  • I suddetti elementi, necessari al giudice per quantificare la misura dell’assegno divorzile, poi, dovranno essere valutati “…anche in rapporto alla durata del matrimonio al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova”.

Alla luce dei suddetti principi, pertanto, la Suprema Corte cassa la sentenza della C.d’A. di Catania, poiché “…aveva valutato il conseguimento dell’assegno, con riguardo all’adeguatezza di vita matrimoniale, in base al criterio indicato dalla pregressa giurisprudenza…” disponendo il rinvio alla medesima Corte, in diversa composizione, al fine di valutare nuovamente l’an della richiesta dell’assegno divorzile sulla base del criterio dell’adeguatezza dei mezzi o della sussistenza di ragioni oggettive che impediscano alla moglie di procurarseli.

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