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Il Tribunale civile di Roma, si è recentemente pronunciato su una delle questioni attualmente più dibattute sorte a seguito dell’adozione delle misure di distanziamento sociale per contenere la diffusione della pandemia da Covid-19 (D.L. 18/2020 D.P.C.M. 22 marzo 2020): l’esercizio del diritto di visita del genitore non collocatario.

Come ragionevolmente osservato dal Giudice capitolino, dette misure impongono di bilanciare l’interesse primario dei figli minori e del genitore a veder garantito il pieno diritto alla bigenitorialità, con l’interesse alla tutela della salute pubblica individuale (dei minori e dei genitori) e collettiva (adottando precauzioni che non aumentino il rischio di contagio).

La vicenda in esame

Il caso sottoposto al Tribunale di Roma trae origine dall’istanza con cui un padre denunciava la violazione del suo diritto di visita a causa del comportamento ostativo della madre la quale si trasferiva da Roma a Pejo, in Trentino Alto Adige, portando con se il figlio minore. Lo spostamento veniva comunicato al padre solamente una volta avvenuto.

Il ricorrente evidenziava, inoltre, i notevoli rischi a cui il minore era stato esposto dalla madre: il lungo viaggio dal Lazio al Trentino e, di conseguenza, la stretta vicinanza della prescelta località alle allora zone rosse della Lombardia.

La resistente, nelle proprie difese sottolineava invece come le proprie azioni fossero state intraprese precipuamente allo scopo di migliorare le condizioni di vita e di crescita del figlio. A parere della madre, il minore nell’attuale collocazione avrebbe potuto mantenere oltre agli “impegni scolastici, il contatto con la natura, le passeggiate nei boschi e le prime esperienze in bicicletta” e, dunque, a differenza di Roma, beneficiare di un effetto positivo per la sua crescita.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale romano, investito della questione, preliminarmente, in ossequio a quanto disposto dall’art. 83, comma 3, lett. a) del D.L. 18/2020[1], ha dichiarato l’urgenza dell’istanza avanzata dal ricorrente sulla considerazione dell’“interruzione delle frequentazioni tra il padre e il figlio minore”.

Passando al merito, il giudicante, nell’accogliere le motivazioni prospettate dal ricorrente, ha osservato che la frequentazione padre-figlio non comporta, anche nell’attuale situazione emergenziale, per il minore un rischio ulteriore a quello già esistente e che “la città di Roma appare realtà in sé meno rischiosa rispetto al Trentino Alto Adige, che è regione viciniore alla Lombardia e al Veneto, che sono notoriamente le regioni maggiormente colpite dall’epidemia da COVID-19”.

Il Tribunale capitolino ha pertanto disposto:

  • il rientro a Roma del minore con possibilità per il padre di avere con sé il figlio secondo le prescrizioni di cui all’ordinanza regolante le condizioni di frequentazione “fermi in ogni caso diversi accordi tra le parti che siano dettati nell’interesse prioritario del minore e tengano conto delle sue richieste”;
  • contestualmente ha ammonito la madre a dare esecuzione a quanto disposto nel provvedimento in esame pena l’adozione dei provvedimenti sanzionatori ex 709 ter c.p.c. e fatta salva la possibilità di diversi provvedimenti in tema di affido e di collocamento del minore, “adottando in ogni caso le cautele previste dalla vigente normativa in tema di spostamenti nella città e rispettando le misure di igiene previste nei provvedimenti governativi adottati per l’emergenza COVID-9.

[1]  L’art. 83, comma 3, lett. a) del D.L. n. 18 del 2020, contempla talune precise eccezioni in relazione alle seguenti controversie reputate più “urgenti” dal legislatore e pertanto sottratte alla sospensione dei termini processuali: cause di competenza del Tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio; cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali  della  persona; procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti  provvisori e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute; procedimenti di cui all’articolo 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833; procedimenti di cui all’articolo 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194; procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea; procedimenti di cui agli articoli 283, 351 e 373 del codice di procedura civile e, in genere, tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti. In quest’ultimo caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del  presidente del collegio, egualmente non impugnabile.

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separazione-e-soldi_smallIl principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la recente sentenza n°18287 dell’11 luglio 2018

Come oramai noto a tutti, o quasi, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, hanno chiarito la natura e i presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio enunciati dall’art. 5 della legge n°898 del 1° dicembre 1970, pronunciando il seguente condivisibile principio di diritto: Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto“.

In particolare, le Sezioni Unite – prendendo le distanze dalla rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno divorzile, sostenuta pochi mesi prima dalla I^ sezione della Suprema Corte n°11504 del 10 maggio 2017 – hanno ritenuto che “…all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa…” con conseguente necessità di utilizzare un criterio composito al fine di accertare la debenza dell’assegno divorzile e procedere a una sua quantificazione, che tenga in dovuta considerazione:

  1. l’esistenza di una disparità economico-patrimoniale determinata dal divorzio, mediante una valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali dei coniugi del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
  2. il contributo fornito dall’ex coniuge più debole alla formazione del patrimonio comune e personale;
  3. la durata del matrimonio;
  4. le potenzialità reddituali presenti e future e dell’età dell’avente diritto;
  5. l’adeguatezza dei mezzi del richiedente “…non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi unilateralmente per una sola parte.

Ad avviso degli Ermellini, infatti, poiché “…alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo…”, solamente l’utilizzo del criterio composito soprarichiamato “…ha l’elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete perché, a differenza di quelli che si sono in precedenza esaminati, non ha quelle caratteristiche di generalità ed astrattezza variamente criticate in dottrina”.

L’accertamento della debenza e la sua quantificazione nel giudizio di merito.

Ai fini della determinazione della debenza o meno dell’assegno di mantenimento, come riassunto in una recente sentenza dal T.C. di Nuoro sulla scorta di quanto affermato dalle Sezioni Unite, il giudice di merito dovrà, pertanto:

  • preliminarmente accertare l’esistenza di “…una rilevante disparità tra le rispettive situazioni economico-patrimoniali degli ex coniugi”;
  • successivamente dovrà accertare “…se questa disparità sia stata causata da scelte condivise in ordine alla gestione del ménage familiare e ai rispettivi ruoli all’interno della famiglia” (con relativo onere probatorio posto a carico del richiedente);
  • dovrà poi verificare “…se il coniuge economicamente più debole non abbia la effettiva e concreta possibilità di superare (o quanto meno ridurre) il divario esistente, sotto il profilo delle concrete, effettive ed attuali possibilità di trovare un lavoro o di ottenere una più remunerativa occupazione, in considerazione della sua età, delle pregresse esperienze professionali, delle condizioni del mercato del lavoro e così via”.

Ai fini della successiva determinazione dell’entità dell’assegno, questa “non dovrà essere liquidata in misura corrispondente alla somma di denaro necessaria a mantenere (sia pur in via solo tendenziale) il pregresso tenore di vita, bensì in misura adeguata a colmare il divario avendo riguardo “al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente” .

Analisi delle prime pronunce dei Tribunali italiani

Nel corso dei mesi successivi al deposito della sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, si sono registrate le prime pronunce con cui alcuni tribunali italiani hanno riconosciuto e/o negato ai richiedenti il diritto all’assegno divorzile sulla scorta del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite e dei criteri individuati dalla Suprema Corte, dando particolare rilevanza:

  • all’esistenza di un’effettiva disparità economica;
  • alla sua eventuale riconducibilità a scelte condivise in costanza di matrimonio;
  • alla stessa durata del matrimonio;
  • all’età e alle potenzialità lavorative del richiedente.

1) Tribunale civile di Verona, sentenza n°1764/2018, pubblicata il 20 luglio 2018.

Il Tribunale civile di Verona è stato tra i primi ad applicare a un procedimento di divorzio, pendente dal 2015, i principi elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, negando l’assegno divorzile alla richiedente sulla scorta:

  • della breve durata dell’effettiva convivenza coniugale, essendosi i coniugi sposati nel 2004 e addivenuti a separazione personale nel 2008;
  • dell’indipendenza economica di ambedue i coniugi, come dagli stessi dichiarato in sede di separazione e confermato dalla documentazione reddituale depositati nel giudizio di divorzio;
  • della mancata incidenza del matrimonio sulla capacità reddituale della richiedente, rimasta inalterata;
  • del mancato contributo della moglie alla realizzazione professionale del marito, alla luce anche dell’età a cui le parti erano convolate a nozze (già ultra quarantenni) e della breve durata del matrimonio.

2) Tribunale civile di Roma, sentenza n°16394/2018, pubblicata l’8 agosto 2018.

Il Tribunale di Roma è stato tra i primi a negare il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie richiedente in considerazione:

  1. della capacità ed abilità al lavoro della moglie, la quale:
    1. non era “…titolare di alcun assegno di mantenimento in forza delle condizioni della separazione consensuale sottoscritta dalle parti”;
  2. era “…titolare sia di trattamento pensionistico che di redditi da lavoro dipendente per complessivi euro 1900,00”;
  3. era proprietaria del 50% della casa familiare, a lei assegnata, per la quale non sosteneva “…alcun onere (rata di mutuo o canone locatizio)”;
  1. delle voci di spesa incidenti negativamente sulla maggiore capacità reddituale dell’ex marito, il quale, “…sebbene titolare di un reddito più elevato, oltre a non utilizzare l’immobile adibito a casa coniugale, è tenuto alla corresponsione di una rata mensile pari a circa euro 850,00 per il pagamento del mutuo contratto per la casa di abitazione”;
  2. della non riconducibilità eziologica della disparità economico-patrimonialea determinazioni e scelte comuni e condivise che hanno condotto la [omissis] ad esplicare il suo ruolo solo o prevalentemente nell’ambito familiare”, in quanto la richiedente non aveva dedotto né comprovato che la scelta, in costanza di matrimonio, di lavorare part-time “…le abbia pregiudicato gli sviluppi di carriera”.

3) Tribunale civile di Trieste, sentenza n°525/2018 pubblicata il 21 agosto 2018.

Il Tribunale di Trieste, pronunciandosi su una richiesta di assegno divorzile, chiarisce preliminarmente come:

  • …l’obiettivo dell’assegno divorzile non è già la conservazione tendenziale del tenore di vita pregresso (riferimento specifico in sede di separazione, vista l’immanenza del vincolo di solidarietà coniugale), bensì la necessità di assicurare l’autosufficienza ovvero l’autonomia economica del coniuge più debole…”.
  • in situazioni caratterizzate da una sensibile disparità tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno dei coniugi, ancorché non necessariamente tale da sfociare nella constatazione di una radicale mancanza di autosufficienza economica, occorre non solo in funzione assistenziale-alimentare ma anche in chiave perequativa, stabilire se tale dislivello reddituale abbia o no la sua radice causale nelle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare: insomma, l’eventuale incidenza della vita matrimoniale sulla situazione attuale”.

Alla luce dei chiarimenti sopra esposti e in applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, i giudici triestini negano all’ex moglie l’assegno divorzile in quanto:

  1. “…non sembra esserci un divario sensibile tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno degli ex coniugi”, poiché:
  • il maggiore reddito dell’ex marito era notevolmente ridotto dagli obblighi di pagamento delle rate di mutuo dell’ex casa familiare nonché dal mantenimento per il figlio;
  • l’ex moglie, oltre a godere di redditi di tutto rispetto, poteva senza dubbio aumentarli mettendo a frutto il suo maggiore tempo libero e le proprie esperienze professionali;
  1. b) manca alcun riferimento significativo “…ad una qualche scelta adottata dopo il matrimonio, che abbia potuto incidere negativamente su eventuali aspettative di progressione in carriera della [omissis]”, così come che “…abbia consumato un ruolo esclusivamente o prevalentemente all’interno della famiglia”.

 

4) Tribunale civile di Nuoro, sentenza del 23 ottobre 2018.

Da ultimo, il Tribunale civile di Nuoro, nella recente pronuncia in oggetto, riconosce invece il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie in considerazione:

  • del chiaro divario economico esistente tra gli ex coniugi;
  • della prova offerta dalla richiedente “…di aver significativamente contribuito alla formazione del patrimonio personale del marito, si provvedendo al pagamento (quanto meno in parte) del mutuo contratto per la edificazione della casa familiare tramite le proprie risorse personali…”;
  • della durata ventennale del matrimonio sino alla separazione (e di 29 anni al momento della pronuncia della sentenza di divorzio);
  • della mancanza di mezzi adeguati della richiedente, alla luce del suo modesto reddito da lavoro (circa 997 euro al mese), della circostanza che non fosse proprietaria di beni immobili e, non da ultimo, della circostanza che, non essendo i figli oramai maggiorenni, economicamente sufficienti e non più conviventi con la madre, la stessa “perdendo la disponibilità della casa familiare sinora a lei assegnata ma di proprietà del marito, inoltre, essa sarà costretta a sostenere ulteriori oneri per reperire un immobile da condurre in locazione”.

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imagesIl 2017 ha segnato un nuovo anno rivoluzionario nel diritto di famiglia, soprattutto per ciò che attiene ai presupposti per la concessione (an debeautur) e la quantificazione (quantum debeatur) dell’assegno divorzile.

La Suprema Corte, a partire dalla sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ha mutato il suo precedente orientamento, statuendo che la verifica giudiziale sull’an debeatur debba informarsi al “… principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento … [del] la sussistenza delle relative condizioni di legge – ‘mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive’” – “…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”;

Di recente, tuttavia, il Tribunale di Roma, appare aver quantomeno mitigato l’applicazione dei suddetti principi, valutando “la mancanza dei mezzi adeguati” proprio alla luce del divario economico tra i coniugi e dello stile di vita goduto in costanza di matrimonio.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine dal ricorso con cui un facoltoso collega ha chiesto al Tribunale civile di Roma:

  • di pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’ex moglie;
  • di revocare l’assegnazione della casa familiare, di sua esclusiva proprietà, disposta in sede di separazione;
  • di disporre il versamento diretto del mantenimento in favore della figlia, studentessa universitaria residente a Milano;
  • di statuire che nulla era dovuto a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, in quanto la stessa, pur non lavorando, poteva contare su un considerevole patrimonio immobiliare ricevuto in eredità, nonchè di depositi in denaro, pensione e rendite da terreni boschivi.

Si costituiva l’ex moglie, non opponendosi alla pronuncia sullo status, chiedendo:

  • la conferma dell’assegnazione della casa coniugale, in quanto tuttora frequentata dalla figlia in occasione dei suoi soggiorni romani;
  • il versamento in suo favore di un assegno divorzile del considerevole importo di € 13.000,00;
  • il versamento di ulteriori € 1.700,00 a titolo di mantenimento per la figlia, opponendosi al mantenimento diretto della stessa da parte del padre.

La conferma dell’assegnazione della casa familiare

Alla base della richiesta di revoca dell’assegnazione della casa familiare, il ricorrente poneva la circostanza incontestata del venir meno del relativo presupposto, ovvero la permanenza dei figli nella casa familiare, e ciò in quanto:

  • il figlio maggiore, da tempo economicamente autosufficiente, risiedeva stabilmente in Inghilterra;
  • la figlia, anch’essa maggiorenne ma ancora alle prese con l’università, risiedeva stabilmente a Milano, pernottando nella casa familiare unicamente durante i suoi viaggi a Roma, in occasione delle festività e delle visite a parenti e amici.

Il Tribunale romano, tuttavia, rigetta la domanda attorea, confermando l’assegnazione alla madre della casa familiare “…sino alla sopravvenuta indipendenza economica della figlia…” alla stregua delle seguenti motivazioni:

  • dalle dichiarazioni rese in udienza dalle parti era emerso che la figlia, ancorché non residente più a Roma, aveva mantenuto un legame, anche affettivo, con l’abitazione familiare, ivi soggiornandovi durante periodi di vacanza e festività.
  • la ridotta frequenza dei periodi trascorsi a Roma non sarebbe idonea a interrompere detto legame tra la figlia e la casa coniugale, rappresentando quest’ultima per la stessa un “…punto di riferimento nella città e nel quartiere ove è cresciuta”.
  • La conferma dell’assegnazione della casa familiare alla madre avrebbe pertanto “…[al]lo scopo di garantire alla medesima la conservazione dell’ambiente domestico, quale centro di riferimento di consuetudini, affetti ed interessi”.

L’ordine diretto di pagamento del mantenimento in favore della figlia maggiorenne, economicamente non autosufficiente, non risiedente più quotidianamente con i genitori

Il Tribunale accoglie invece la richiesta di pagamento diretto del mantenimento in favore della figlia, proprio in considerazione “…(del)la mancanza di quotidiana convivenza fra madre e figlia giustifica”.

Ad avviso del Tribunale, infatti, “…la circostanza che allo stato la figlia, pur mantenendo lo stabile collegamento sopra detto con la ex casa coniugale assegnata alla madre, sia domiciliata a (omissis) per motivi di studio e faccia rientro a (omissis) dalla madre solo in occasione dei periodi di vacanza, comporta che sia maggiormente opportuno il versamento della somma di euro 1.500,00 direttamente in suo favore da parte del padre e del residuo importo (euro 200,00 mensili) in favore della madre ed in relazione alle spese necessarie, in proporzione al tempo da questa trascorso presso la casa di (omissis) alla gestione di tale immobile”.

Il diritto dell’ex coniuge all’assegno divorzile in considerazione dell’inadeguatezza dei mezzi, a loro volta considerati alla luce del divario economico tra le parti.

Passando poi alla determinazione della spettanza o meno dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, il collegio ripercorre puntualmente l’iter dei giudizi di separazione e di modifica delle condizioni di separazione, analizzando la situazione patrimoniale della resistente, confermando la debenza dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, reputando che la stessa avesse dimostrato “…di non disporre di mezzi adeguati e di non essere in grado di procurarseli per ragioni oggettive”.

Come espressamente ammesso dallo stesso Tribunale, il collegio è arrivato a tale conclusione “…all’esito della valutazione comparativa della complessiva condizione economica delle parti, dalla quale emerge un rilevantissimo divario economico tra le stesse che in alcun modo consente alla resistente, ove non colmato mediante l’assegno in questione di mantenere il medesimo elevato tenore di vita goduto della famiglia durante la convivenza coniugale”.

All’esito della fase istruttoria, era infatti emerso che:

  • il ricorrente, partner di un importante studio legale, vantava una “elevatissima capacità reddituale”, grazie a redditi professionali mensili di circa 30.000,00 euro oltre a immobili e partecipazioni societarie;
  • la resistente, di contro, percepiva un reddito mensile di circa € 1.000,00 a titolo di contributo AGEA per dei boschi siti in Sicilia, era proprietaria di beni immobili per un valore stimato dal C.T.U. di euro 1.827.000,00, disponeva di un fondo pensione e di circa € 80.000,00 su proprio conto corrente bancario.

Ad avviso del Tribunale la corresponsione di un assegno divorzile in favore dell’ex moglie era altresì pienamente conforme a quanto statuito dalla Suprema Corte, la quale, con la succitata sentenza n°11504/17 aveva ribadito: “…la natura assistenziale dell’assegno divorzile e da ciò ha enunciato il principio della “autoresponsabilità economica” degli ex coniugi, quale fondamento della valutazione relativa alla sussistenza del diritto della parte richiedente l’assegno (ad avviso della Suprema Corte infatti nella prima fase prevista dall’art. 5 della legge n. 898/70 e successive modificazioni – quella dell’an debeatur – occorre prescindere, nell’individuare l’adeguatezza o meno dei mezzi del richiedente l’assegno o comunque la sua possibilità di procurarseli, dal parametro del tenore di vita goduto durante la convivenza coniugale e dalla conseguente comparazione delle rispettive condizioni economiche degli ex coniugi e rifarsi piuttosto ad indici specificamente individuali dal giudice di legittimità e concernenti esclusivamente le condizioni del soggetto richiedente quali “1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza … della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.

In particolare, secondo il Tribunale:

  • era indubbio il “…rilevante divario economico tra le parti, tanto dal punto di vista reddituale, quanto da quello patrimoniale”;
  • dall’istruttoria era altresì emerso che la resistente, cinquantacinquenne non aveva mai svolto “…rilevante attività lavorativa nel corso del matrimonio (se non saltuariamente quale restauratrice) e non sembra avere, nonostante le normali condizioni di salute (nulla essendo stato rappresentato in contrario), effettive e concrete possibilità di lavoro personale, peraltro essendosi prevalentemente dedicata nel corso del matrimonio – nell’ambito di un progetto di vita condiviso dagli allora coniugi – al sostegno della brillante carriera del marito ed al soddisfacimento delle esigenze della famiglia e della casa”;
  • il godimento da parte della stessa della casa familiare non poteva essere presa in considerazione in quanto la medesima le sarebbe rimasta assegnata sino all’oramai prossima indipendenza economica della figlia;
  • i redditi derivanti dai contributi AGEA erano appena sufficienti a “provvedere a tutte le esigenze della ex casa coniugale assegnatale”;
  • il patrimonio immobiliare della resistente, ancorché consistente, era inidoneo a produrre elevato reddito da locazione, in quanto un immobile era concesso in comodato d’uso gratuito al padre della stessa; un ulteriore immobile di cui era proprietaria al 20% era abitato per motivi di studi dalla figlia; ulteriori due appartamenti in comproprietà tra i coniugi erano a disposizione per l’utilizzo della figlia; i rimanenti immobili erano ruderi dai quali poteva ricavare non più di € 5.000,00 annui.

Passando poi alla quantificazione del predetto assegno, il Tribunale romano ricorre ancora una volta al raffronto della “…condizione economica complessiva delle parti”, quantificandolo in € 6.500,00 mensili, reputandolo congruo sulla scorta:

  • del predetto divario economico tra i coniugi;
  • del “…l’apporto che ciascuna delle parti ha fornito alla costituzione del patrimonio familiare atteso che se è vero che il nucleo familiare è stato essenzialmente ed egregiamente sostenuto economicamente dal ricorrente in misura largamente prevalente è altrettanto innegabile (e non contestato) che la resistente, fondamentalmente casalinga, abbia provveduto a coordinare la gestione della casa e ad occuparsi della crescita dei figli, dedicandosi con successo alla cura delle relazioni sociali del marito, così fortemente necessaria in relazione alla professione da esso svolta ad elevatissimi livelli”;
  • della rilevante durata del matrimonio.

A sommesso avviso di chi scrive, il ragionamento del Tribunale romano non appare scevro da critiche ponendosi forsanche in contrasto con le linee tracciate dalla Suprema Corte nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ad avviso della quale:

  • il divario economico tra i coniugi entra in gioco non già nella determinazione dell’an debeatur ma esclusivamente nella sua eventuale successiva quantificazione;
  • pertanto a nulla rilevando la circostanza che, in costanza di matrimonio, i superiori redditi dell’ex coniuge avevano permesso un tenore di vita più elevato “…se è accertatoche (il richiedente) è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.

Di contro, il Tribunale appare aver dato peso al fine della determinazione dell’adeguatezza dei mezzi proprio a quel divario economico trai coniugi che in tale sede non dovrebbe affatto essere preso in considerazione.

L’applicazione rigida del criterio dell’indipendenza economica, infatti, avrebbe certamente dovuto condurre il Tribunale a ritenere sufficiente a garantire l’indipendenza economica della signora:

  • la percezione di un reddito certo di oltre € 1.000,00 mensili, somma che consente la sopravvivenza a diversi milioni di nostri concittadini;
  • la titolarità di diritti reali per oltre € 1.800.000,00 euro;
  • una pensione;
  • la disponibilità di € 80.000,00 sul conto corrente.

La sensazione che anima lo scrivente è che il Tribunale romano abbia tentato di lenire la durezza dei principi ribaditi dalla Suprema Corte in considerazione delle particolarità del caso concreto, volendo apprestare tutela a tutte quelle donne ultracinquantenni che abbiano dedicato, di comune accordo, tutta la propria vita alla cura della famiglia e della casa nonché ad una vita di relazioni sociali e che si ritrovino, dopo un’intera vita matrimoniale, a non poter contare sulla solidità economica dell’ex coniuge per poter continuare a condurre il medesimo stile di vita avuto per tutta una vita.

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kate-separatedIl Tribunale civile di Roma ha recentemente chiarito, con decreto del 7 marzo 2017, quali sono le condizioni necessarie per l’accoglimento della domanda di affido esclusivo dei figli minori.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una madre per la regolamentazione dell’affido e del mantenimento del figlio, nato da una relazione con un uomo già sposato e con figli. Nella domanda introduttiva la ricorrente sosteneva che, sin dalla nascita del piccolo, il padre aveva contribuito solo in minima parte al suo mantenimento, vedendolo solo in poche occasioni, chiedendo pertanto l’affido condiviso con collocamento prevalente del bambino presso di sé e, in subordine, l’adozione di “…altre forme di affidamento ritenute più opportune dal Tribunale”.

Il padre, costituitosi in giudizio, aderiva alla domanda di affido condiviso, manifestando la disponibilità a vedere il minore una volta al mese, stante gli impegni lavorativi e la distanza geografica.

All’esito dell’udienza presidenziale, la Corte romana disponeva l’affido condiviso del minore con collocamento prevalente presso la madre e il “…diritto dovere del padre di vederlo e tenerlo con sé almeno cinque giorni al mese, al fine di instaurare una relazione continuativa”.

Il Tribunale, tuttavia, a conclusione del giudizio, disponeva la modifica del regime di affidamento, disponendo l’affido esclusivo del minore presso la madre, sulla base delle seguenti motivazioni:

  • non avendo il legislatore tipizzato le condotte ostative integranti la fattispecie di cui all’art. 337 quater c.c. – ai sensi del quale può derogarsi alla regola dell’affido esclusivo solo ove questo risulti “…contrario all’interesse del minore” – “… la loro individuazione è rimessa alla decisione del giudice, da adottarsi nelle fattispecie concrete con provvedimento motivato”;
  • richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte, una deroga al regime dell’affido condiviso deve essere debitamente motivata tanto in positivo, per quanto attiene all’idoneità del genitore affidatario, quanto in negativo, in relazione all’inidoneità educativa dell’altro genitore;
  • le “ipotesi di affidamento esclusivo sono individuabili ogni qualvolta l’interesse del minore possa essere pregiudicato da un affidamento condiviso…” e rinvenibili nei casi in cui il genitore, a titolo esemplificativo, “…sia indifferente nei confronti del figlio, non contribuisca al mantenimento del figlio, manifesti un disagio esistenziale incidente sulla relazione affettiva, ecc.”

Alla luce di quanto sopra, il Tribunale di Roma ha ritenuto che i comportamenti tenuti dal padre integrano le ipotesi giustificative di una deroga alla regola del regime condiviso:

  • avendo il padre, a fare data dall’adozione dei provvedimenti presidenziali, incontrato il bambino in pochissime occasioni, accampando pretestuose ragioni di carattere lavorativo e difficoltà di carattere economico, non presentandosi neppure il giorno del suo compleanno e ciò nonostante l’ampia disponibilità data alla madre a favorire detti incontri;
  • non avendo il padre mai dimostrato nei confronti del piccolo “…interesse alla sua vita, alla sua condizione di salute, ai suoi impegni”.

Proprio in virtù della totale incapacità del genitoriale, il Tribunale romano opta pertanto per un affido esclusivo alla madre “…per tutte le questioni attinenti al figlio, anche qualora relative a scelte di maggiore rilevanza, compresa la scelta della residenza abituale del minore, con totale esclusione da tali scelte del padre”.

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Welpe im ScheidungskriegIl Tribunale civile di Roma, con sentenza n°5322 del 12/15 marzo 2016, ha applicato per la prima volta la disciplina dell’affidamento condiviso ad un cane conteso da due ex conviventi more uxorio.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno, il quale le avrebbe sottratto il suo cane dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”. Di fatti, ad avviso del Tribunale, “dal punto di vista del cane, che è l’unico che conta ai fini della tutela del suo interesse, non ha assolutamente alcuna importanza che le parti siano state sposate o meno”.

Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;

condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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dieta-vegana-cibi-vegetali-proteici-vegan-foodI motivi di conflitto tra genitori separati possono essere innumerevoli, dagli sport alla scuola da frequentare, dalle vacanze alle gite scolastica, sino ad arrivare al regime d’alimentazione da fare seguire ai figli. Tale ultimo motivo, di recente, è finito alla ribalta a seguito della diffusione di stili alternativi di alimentazione, quale la dieta vegetariana e vegana.

Proprio un conflitto tra due genitori circa il regime alimentare da fare seguire alla figlia è stato recentemente risolto dal Tribunale civile di Roma, sez. I^, con ordinanza del 19 ottobre 2016.

Il caso trae origine da un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. presentato da un padre separato, preoccupato dalla dieta vegana imposta unilateralmente dalla madre alla propria figlia non soltanto a casa ma anche a scuola. In particolare, ad avviso del padre, tale dieta, sarebbe stata assolutamente dannosa per la bambina tanto da un punto di vista salutistico, come confermato da una relazione del pediatra asseverante la ridotta crescita della stessa, quanto psicologico, a seguito della costrizione per la bambina di seguire una dieta diversa dagli altri compagni, nonostante l’assenza di malattie o allergie tali da renderla necessaria.

Si costituiva in giudizio la madre la quale tentava inutilmente di minimizzare sostenendo che la dieta seguita dalla stessa e fatta seguire alla figlia fosse in realtà vegetariana, comprensiva pertanto del consumo di uova e latticini, e che, in ogni caso, tale dieta sarebbe decisamente più salutare rispetto al consumo di carne, stante l’incertezza dei controlli sulla stessa, e la presenza in molti prodotti preconfezionati di sostanze nocive. Ad avviso della madre, inoltre, ben poteva la bambina seguire la “dieta paterna” durante i periodi trascorsi con il padre, ferma la dieta vegana tanto a casa quanto a scuola.

Di diverso avviso è, tuttavia, il Tribunale di Roma.

I giudici capitolini, investiti della questione, chiariscono preliminarmente che“…la decisione relativa al regime alimentare del figlio minore deve indubbiamente essere considerata di maggiore interesse” e pertanto, nel regime di affidamento condiviso vigente nel caso di specie, deve essere rimessa, in caso di disaccordo tra i genitori, al giudice.

Il Tribunale, pertanto, dopo aver analizzato la documentazione medica in atti e rilevato l’assenza di ragioni connesse alla salute della minore, quali allergie o intolleranze, tali da far prediligere la dieta vegana, ha ritenuto di dover “…applicare parametri di normalità statistica che impongono di far seguire alla figlia minore della parti un regime alimentare privo di restrizioni.”

Secondo la condivisibile motivazione del Tribunale, infatti, la scelta sul regime alimentare da far seguire alla bambina deve prescindere totalmente dalle convinzioni alimentari dei genitori, dovendosi compiere facendo riferimento “…alle condotte normalmente tenute dai genitori nella generalità dei casi per la cura e l’educazione dei figli”. E tale è il regime alimentare, privo di restrizioni ad alcun alimento, normalmente seguito dalle scuole italiane, le cui mense sono (o meglio dovrebbero) essere sottoposte all’attento controllo pubblico.

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