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Our RightsNei giudizi relative all’affido e al mantenimento del minore, e non solo, è sempre più frequente che il giudice disponga l’ascolto del bambino.

Perchè, con quali finalità, in quali casi, in quali modi?

Proviamo a dare una risposta a queste domande, partendo dall’individuazione del quadro normativo per poi muoverci al contenuto di questo diritto/dovere.

L’audizione del minore come espressione del suo superiore interesse

L’audizione del minore è un vero e proprio diritto riconosciuto al bambino, espressione processuale del superiore interesse del minore a cui devono essere improntate tutte le controversie che lo concernano. Al fine di fare emergere dal processo il superiore interesse del minore, fondamentale appare infatti la sua audizione da parte dello stesso organo giudicante, eventualmente anche a mezzo di esperti, al fine di vagliare la volontà e la maturità con cui questa è stata espressa.

Quadro normativo internazionale e italiano

Il diritto del bambino a essere ascoltato è stato codificato per la prima volta nel 1989 dall’art.12 della Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo, che riconosce “(…) al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità”.

Questo principio è stato successivamente riconosciuto dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sullo esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata in Italia con la legge n°77 del 2003, nonché, più di recente, nell’Unione europea dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, che, all’art. 24, espressamente prevede che “…Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. 2. In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.

Il superiore interesse del minore e il suo diritto ad essere ascoltato sono stati recepiti, con qualche ritardo, nell’ordinamento italiano, attraverso le modifiche al codice civile, introdotte dapprima con legge n°54/06 e, più di recente, con la legge n°219/12. In particolare, attraverso quest’ultimo provvedimento, è stato inserito all’art. 315 bis c.c. che:

  • ai commi 1 e 2 individuano i diritti del fanciullo a essere “mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” nonché “… a crescere in famiglia e mantenere rapporti significativi con i parenti”;
  • al comma 3 afferma che: “Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.

Tramite l’art. 315 bis c.c. il Legislatore riconosce, pertanto, il diritto del bambino a fare sentire la propria voce ed esprimere i propri desideri in tutte le procedure, siano esse giudiziarie o amministrative, che lo concernano, anche solo indirettamente.

Tale esigenza, come capirete, si manifesta sovente nella cause volte a regolamentare l’affido, il collocamento e il mantenimento di figli nati indifferentemente dentro o fuori dal matrimonio.

A quale età sono ascoltati i minori?

L’ascolto del minore non avviene sempre e comunque. Esso è soggetto a un duplice limite, dipendente dalla sua età e/o dalla sua capacità di discernimento.

Il legislatore italiano, così come quello internazionale, afferma, infatti, che vi è un vero e proprio dovere di ascoltare il bambino solo dopo che abbia compiuto i dodici anni di età.

Eccezionalmente, tuttavia, sarà possibile procedere all’ascolto di un bambino anche al di sotto dei 12 anni purché risulti capace di discernimento, attraverso un giudizio prognostico e discrezionale riservato al giudicante.

Occorre, tuttavia, rilevare che in Italia, assai spesso, le Corti tendono a considerare unicamente il fattore anagrafico, senza spingersi in opportune indagini circa la sua effettiva capacità di discernimento. A riguardo, la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, in più di un’occasione, ha manifestato una forte preoccupazione nei confronti della prassi invalsa presso le Corti italiane di restringere il diritto d’audizione sulla base della sola età. Ad avviso degli esperti infatti, i bambini, anche in tenera età, sono capaci di esprimere il loro punto di vista, anche attraverso comunicazioni non verbali, non dovendosi richiedere al bambino una conoscenza completa di tutti gli aspetti della questione processuale che lo riguarda.

Il giudice può negare l’audizione del minore che ha più di dodici anni o capace di discernimento?

Come chiarito dal Tribunale dei Minori dell’Emilia Romagna, con sentenza 7 maggio 2009, e ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 21 ottobre 2009, n°22238 “(…) l’audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardano e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta comunque obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sullo esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n°77 del 2003 (Cass. 16 aprile 2007 n°9094 e 18 marzo 2006 n°6081), per cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo della norma sovranazionale e dalla giurisprudenza di questa Corte (la citata Cass. n°16753 del 2007)”.

In altri termini, in via del tutto eccezionale, il giudice può negare l’audizione del minore quando questa possa causare un pregiudizio e/o un danno grave al bambino.

La volontà del minore è vincolante per il giudice?

Anche se il giudice ha il dovere, entro i suddetti limiti, di procedere all’ascolto del bambino, lo stesso non deve e non può essere vincolato tout court dalla sola volontà espressa dal bambino.

Spesso, infatti, i bambini, anche se cresciuti, possono non essere in grado di identificare il loro reale interesse; altre volte, non meno infrequenti, il volere dei bambini può essere alterato e viziato dal comportamento del genitore, specie se con loro convivente, come riscontrato nei casi sempre più comuni di c.d. Sindrome da Alienazione Parentale (o PAS).

Il giudicante sarà dunque incaricato di valutare l’indipendenza e la maturità del giudizio espresso dal minore e attribuirgli il giusto peso nella determinazione del suo superiore interesse. Ciò comporterà la necessità per il giudice di procedere a ulteriori accertamenti quando risulti dubbia l’effettiva corrispondenza del volere espresso con il reale interesse del bambino.

Questo aspetto, di fondamentale importanza, è stato chiarito qualche anno fa dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, con la celebre sentenza del 13 luglio 2010, Elsholz c. Germania in cui la Corte ha censurato la decisione dell’Autorità nazionale tedesca che aveva negato il diritto del padre ad intrattenere regolari frequentazioni con il figlio, sulla scorta della mera volontà espressa da quest’ultimo e senza disporre alcuna delle ulteriori indagini richieste ripetutamente dal padre al fine di valutarne l’effettiva corrispondenza del volere espresso dal bambino al superiore interesse dello stesso.

In quali modi si procede all’ascolto del minore?

Le normative internazionali in materia lasciano liberi i giudici nel determinare i mezzi e le modalità attraverso cui procedere all’audizione del minore, tra quelli messi a disposizione tanto dal loro diritto nazionale quanto, in ambito europeo, dal regolamento n°1206/2001.

Qualora, poi, si debba procedere all’ascolto di bambini in tenera età, la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo suggerisce l’utilizzo privilegiato di forme di comunicazione non verbali, quali il gioco, il linguaggio del corpo, le espressioni facciali, il disegno, la pittura.

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downloadIl prossimo 11 febbraio 2017 entrerà in vigore il neo-approvato D. lgs. n°7 del 19 gennaio 2017, pubblicato in G.U. n°22 del 27 gennaio 2017, rubricato “Modifiche e riordino delle norme di diritto internazionale privato per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera b) della legge 20 maggio 2016, n.76″.

Attraverso detto provvedimento il Legislatore intende adattare il sistema internazional-privatistico italiano, di cui alla l. 218/95, alla recente disciplina oggetto del regolamento UE 2016/1104 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate, nonché agli altri regolamenti internazional-privatistici di famiglia adottati nell’ultimo decennio in seno all’Unione europea.

In particolare, ai sensi rispettivamente degli articoli 32 bis e quinquies, vengono estesi, rispettivamente alle coppie italiane coniugate all’estero nonchè alle unioni civili (o analoghi istituti) costituiti all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso abitualmente residenti in Italia, gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana.

Viene altresì introdotto l’art. 32 ter, relativo alla legge applicabile alla capacità e alle condizioni per costituire un’unione civile (co. 1), alla forma dell’unione civile (co. 3), ai rapporti personale e patrimoniali tra le parti (co. 4), a, nonché alla disciplina del nulla osta di cui all’art. 116, co. 1, c.c. (co. 2), nonchè alle obbligazioni alimentari (con rinvio espresso del co. 5 alla disciplina dettata dall’art. 45 l. 218/959.

L’art. 32 quater, disciplina poi lo scioglimento dell’unione civile:

  • riconoscendo la giurisdizione italiana non solo nei casi previsti dagli articoli 3 e 9, ma anche”…quando una delle parti è cittadina italiana o l’unione è costituita in Italia“, ed estendendo detta competenza anche ai casi di nullità e annullamento dell’unione civile;
  • estendendo la disciplina dettata dal regolamento n°1259/2010 in punto di legge applicabile al divorzio e alla separazione personale anche allo scioglimento dell’unione civile.

Da ultimo, il decreto in oggetto sostituisce integralmente l’art. 45, relativo alle obbligazioni alimentari della famiglia, individuando quale legge applicabile alle obbligazioni alimentari nella famiglia quella designata dal regolamento 2009/4/CE.

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[:it]Di recente, l’Unione Europea è dovuta ricorrere alla cooperazione rafforzata al fine di adottare due regolamenti gemelli, fondamentali per colmare evidenti lacune nell’impianto internazional-privatistico comunitario, il regolamento 2016/1103 e 2016/1104, rispettivamente in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate.

I regolamenti in oggetto, si prefiggono la finalità di individuare, mediante un impianto di criteri oggettivi predeterminati dal legislatore e/o lasciati alla libera scelta delle parti, la competenza territoriale, la legge applicabile, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tanto delle unioni registrate quanto delle coppie coniugate.

I due regolamenti gemelli – nati dalle ceneri di due proposte di regolamento della Commissione europea, il cui iter di adozione si era infranto sulle alte scogliere del requisito del voto ad unanimità – sono stato pertanto adottati solamente mediante il ricorso alla c.d. cooperazione rafforzata, che vede oggi coinvolti Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia. L’auspicio è che altri Stati membri presto si decidano di aderirvi rendendo la disciplina dei regolamenti 1103 e 1104 del 2016 applicabile nell’intera Unione.

Occorrerà tuttavia aspettare sino al 29 gennaio 2019 per la loro applicazione.

Di seguito il testo dei due regolamenti.[:]

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download (1)Non è un mistero che la separazione e/o il divorzio legale tra marito e moglie, così come la separazione di fatto tra partners di coppie non coniugate, rischiano di avere gravi e dolorose ripercussioni anche sui figli, usati come arma in un vero e proprio conflitto tra i genitori. Troppo spesso, infatti, la crisi della coppia si estende alla coppia genitoriale, con grave e, aimè, irreparabile danno per i bambini.

Uno degli effetti maggiormente pregiudizievoli per i bambini è la c.d. PAS, ovvero sindrome da alienazione genitoriale (o PAS, dall’acronimo di Parental Alienation Syndrome). Questo disturbo psicopatologico, ancorché ancora al centro di discussioni e non ancora riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale, colpirebbe proprio i bambini coinvolti nel conflitto genitoriale determinando una vera alienazione degli stessi da una delle figure genitoriali, specie quella non convivente con il minore.

Lasciando da parte le prese di posizione di psicoterapeuti e tribunali sull’esistenza stessa della PAS, rimane un dato oggettivo e sconcertante: sempre più spesso i genitori non conviventi lamentano continue e costanti interferenze degli ex partner, rei di ostacolare i rapporti liberi dei figli con l’altro genitore, spingendosi sino a svilire costantemente la sua figura, senza tenere in minima considerazione gli effetti tragici che tale condotta rischia di avere sulla crescita serena e corretta della prole. Quel che maggiormente preoccupa, poi, è che la tutela giurisdizionale dei diritti del genitore non convivente viene assai spesso frustrata dai tempi “biblici” della giustizia italiana e dal ricorso da parte dei tribunali ad una serie di misure automatiche e stereotipate, assolutamente inidonee a ristabilire i rapporti tra genitore e figlio non convivente.

Questa allarmante situazione è stata di recente oggetto di una serie di importanti condanne da parte della Corte EDU, ad avviso della quale il nostro Paese non si sarebbe dotato di misure idonee a rendere effettivo il diritto di visita, frustrando ingiustamente tanto il diritto del genitore non convivente alla genitorialità (diritto di rango costituzionale) quanto il diritto del bambino alla c.d. bigenitorialità, ovvero ad avere rapporti paritetici ed effettivi con ambedue i minori, a prescindere dal suo collocamento presso l’uno o l’altro genitore. Tali diritti, è bene ricordarlo, traggono la loro origine tanto dalla nostra Costituzione, in particolare dagli articoli 2, 29 e 30 Cost., quanto da una serie di Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, tra cui, in primis, la stessa CEDU (acronimo per Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali) che, all’art. 8, rubricato “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, recita: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Un’analisi di alcune delle recenti condanne da parte della Corte EDU appaiono pertanto utili, se non indispensabili, per capire quali sono i comportamenti in positivo che dovrebbero tenere gli organi dello Stato – partendo dai Tribunali, passando per assistenti sociali e centri di mediazione – al fine di tutelare tanto il diritto del padre alla genitorialità e, nello specifico, l’esercizio effettivo del suo diritto di visita, quanto il diritto del figlio alla bigenitorialità, salvo i casi eccezionali in cui lo stesso risulti pregiudizievole al minore.

Partiamo dunque con il chiarire che esiste un vero e proprio obbligo del Tribunale di attivarsi al fine di rimuovere celermente ogni ostacolo frapposto al rapporto tra figlio e genitore convivente, e a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre del minore (così CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 81; in senso conforme CEDU, Macready c. Repubblica ceca, ric. nn°4824/06 e 15512/08, sentenza del 22 aprile 2010, par. 66), mediante l’adozione di “…misure idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti tra i genitori” (così, CEDU, Strumia c. Italia, ric. n°53377/13, sentenza del 23 giugno 2016, par. 110). Tale obbligo positivo non è limitato unicamente alla vigilanza “…affinchè il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di raggiungere tale risultato” (così CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 62). Dette misure, aggiunge la Corte, non possono consistere unicamente in quelle “automatiche e stereotipate” (quali le richieste di informazioni a periti incaricati ovvero la delega delle funzioni di controllo delle visite ai servizi sociali) che, spesso, non scalfiscono la situazione di alienazione già esistente, anzi contribuiscono alla sua acuizione mediante il decorso del tempo.

Qualora poi, come spesso accade, sia ravvisabile una mancanza di collaborazione da parte del genitore collocatario, dovuta soprattutto a tensioni esistenti tra i genitori, la stessa non può “…dispensare le autorità competenti dall’utilizzare tutti gli strumenti atti a consentire il mantenimento del legame familiare” (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 74; CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 82; CEDU, Lombardo c. Italia, ric. n°25704/11, sentenza del 29 gennaio 2013, par. 91; CEDU, Santilli c. Italia, ric. n°51930/10, sentenza del 17 dicembre 2013, par. 74). In altri termini, secondo il condivisibile parere della Corte Europea, il Tribunale ha il potere nonché il dovere di attivarsi al fine di rimuovere celermente ogni ostacolo frapposto al rapporto tra figlio e genitore convivente, con specifico riferimento alla mancanza di collaborazione in tal senso da parte del genitore collocatario, e a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre del minore” (così CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 81; in senso conforme CEDU, Macready c. Repubblica ceca, ric. nn°4824/06 e 15512/08, sentenza del 22 aprile 2010, par. 66), mediante l’adozione di “…misure idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti tra i genitori” (così, CEDU, Strumia c. Italia, ric. n°53377/13, sentenza del 23 giugno 2016, par. 110).

Un ultimo aspetto di fondamentale importanza sottolineato poi dalla Corte è che “per essere adeguate, le misure volte a riunire genitore e figlio devono essere attuate rapidamente, in quanto il decorso del tempo non può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il minore e il genitore non convivente (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 63, CEDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 73; si veda anche CEDU, Lombardo c. Italia, ric. n°25704/11, sentenza del 29 gennaio 2013; CEDU, Santilli c. Italia, ric. n°51930/10, sentenza del 17 dicembre 2013). In tale ottica, qualora si ravvisino opposizioni del genitore collocatario all’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore, sarà “necessaria una risposta rapida a tale situazione tenuto conto dell’incidenza, in questo tipo di cause, del trascorrere del tempo, che può avere effetti negativi sulla possibilità per il genitore interessato di riallacciare un rapporto con il figlio (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 70).

I sopramenzionati principi sono stati di recente recepiti dalla Suprema Corte di Cassazione nella recente sentenza 16 febbraio – 8 aprile 2016, n°6919, in cui ha opportunamente sottolineato come: «in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015). Non può esservi dubbio che tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell’affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rilevi la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore.

Ad avviso della Suprema Corte, quindi, gli ostacoli frapposti dal genitore all’esercizio del diritto di visita da parte dell’ex coniuge sono un elemento che deve essere valutato al fine di giudicare la sua capacità genitoriale, potendo legittimare anche l’affidamento del bambino all’altro genitore.

Che cosa fare dunque se il vostro ex compagno o ex coniuge vi impedisce di vedere vostro figlio secondo le modalità concordate o decise dal Tribunale? Denunciate subito l’accaduto tramite il vostro avvocato e chiede quanto prima la modifica delle modalità di affidamento. Come infatti chiarito dalla Cassazione, in tali casi “il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente/a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.

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[:it]La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.[:en]6. Il trasferimento di minori non accompagnati – C-648/11, MA, BT, DA.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.
[:fr]6. Il trasferimento di minori non accompagnati – C-648/11, MA, BT, DA.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.
[:es]6. Il trasferimento di minori non accompagnati – C-648/11, MA, BT, DA.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.
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[:it]La Corte di Giustizia dell’Unione europea con sentenza del 6 giugno 2013 si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.

La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».

La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.

La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.

La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.

Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.

La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda

La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che: “L’articolo 6, secondo comma, del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo, deve essere interpretato nel senso che, in circostanze come quelle del procedimento principale, nelle quali un minore non accompagnato, sprovvisto di familiari che si trovino legalmente nel territorio di uno Stato membro, ha presentato domanda di asilo in più di uno Stato membro, designa come «Stato membro competente» lo Stato membro nel quale si trova tale minore dopo avervi presentato una domanda di asilo.”

Di seguito il testo della sentenza[:]

[:it]L’Agenzia europea dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo, il 20 novembre 2015, nel corso della giornata mondiale per l’infanzia, hanno pubblicato il “Manuale di diritto europeo sui diritti del bambino” (fra-ecthr-2015-handbook-european-law-rights-of-the-child_en) che raccoglie la normativa e la prassi giurisprudenziale sviluppatasi nel contesto europeo, sia con riguardo all’Unione europea sia alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Si tratta della prima guida completa sul tema, che tenga conto sia della giurisprudenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo che della Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE). Fornisce informazioni su: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e regolamenti e direttive in materia; la Carta sociale europea (CES); le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali; altri strumenti del Consiglio d’Europa; la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (CRC) e altri strumenti internazionali.

Questo manuale è progettato per assistere gli avvocati, giudici, procuratori, operatori sociali, le organizzazioni non governative e altri organismi che devono affrontare questioni giuridiche relative ai diritti del fanciullo. La pubblicazione riguarda questioni come l’uguaglianza, l’identità personale, la vita familiare, l’adozione, migrazione e asilo, protezione dei bambini contro la violenza e lo sfruttamento, così come i diritti dei bambini all’interno della giustizia penale e delle procedure alternative.

Il manuale è disponibile in inglese e francese.[:]

[:it]Perchè ??????Il caso.

L’autorità giudiziaria italiana ordina la separazione di una madre dai suoi tre figli a causa di asserite difficoltà familiari ed un suo momento di depressione personale. I bambini vengono portati prima in Comunità e poi separatamente adottati, non ostante la grossa tristezza e sofferenza patita per l’allontanamento sia dalla madre che dagli altri fratelli, accertato anche tramite c.t.u.

La madre decide di ricorrere ai giudici di Strasburgo chiedendo che venga accertata la violazione del diritto al rispetto della vita familiare propria e dei suoi figli. In particolare, ad avviso della ricorrente, i giudici italiani avrebbero sbagliato ignorando il parere reso sia dai servizi sociali che dal consulente tecnico, non accorgendosi che i bambini non erano in uno stato di abbandono ma che, anzi, quella che si trovava a vivere la famiglia era una situazione contingente, che i piccoli erano stati non solo tolti alla mamma, ma anche separati tra loro, affidati e poi dati in adozione a famiglie diverse.

La Corte accoglie il ricorso e condanna l’Italia, anche in via pecuniaria, evidenziando: – che l’ingiustizia della decisione ha inciso profondamente nella vita di queste persone: ha spezzato i legami familiari, non solo con i genitori ma anche tra fratelli; – che prima dell’adottabilità avrebbero dovuto essere fatti tutti i tentativi necessari per evitarla; prima di allontanare i bambini dai propri genitori devono essere prestate – ai bambini e ai genitori – tutte le forme possibili di aiuto; – che, conseguentemente, nel caso in esame, sussiste la violazione dell’art. 8 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, in materia di Tutela della Vita Privata e Familiare.

Alla luce di questa sentenza sarà possibile cercare di mettere in discussione le decisioni del Giudice Italiano, passate in giudicato, anche nell’ambito del processo civile, trasponendo il medesimo principio e  chiedendo che i figli vengano restituiti ai loro genitori.

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