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classmates-snack-time-1465989-1279x1251La I^ sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 6471/2020, ha chiarito che “Il diritto–dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614 bis c.p.c. trattandosi di un potere–funzione che, non sussumibile negli obblighi la cui violazione integra, ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., una ”grave inadempienza”, è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata”.

Il caso:

La Corte d’Appello di L’Aquila, con decreto, confermava il provvedimento con cui il giudice di prime cure:

  • aveva sanzionato il padre ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. per inadempimento rispetto al diritto/dovere di visita;
  • aveva quantificato in euro 100,00 la somma da versare alla madre per ogni futuro inadempimento di tale obbligo.

Il ricorso per cassazione

Il padre, visto il decreto della Corte d’Appello, propone ricorso per cassazione sostenendo che le statuizioni di coercizione indiretta previste dall’art. 614 bis c.p.c. non sarebbero applicabili agli obblighi di frequentazione della prole, poiché al diritto del minore a ricevere la visita del genitore corrisponderebbe il diritto potestativo non coercibile di quest’ultimo, rimesso alla sua disponibilità e, in ogni caso, non assoggettabile ai provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale ed alle sanzioni di cui all’art. 709 ter c.p.c..

La decisione della Suprema Corte:

La I^ sezione, investita della questione, con ordinanza n. 6471/2020, ha accolto il ricorso alla luce delle seguenti condivisibili motivazioni:

  • a differenza del diritto generale delle obbligazioni, caratterizzato per l’apprestamento di un rimedio ordinamentale coercitivo a fronte dell’inadempimento del debitore – nel diritto di famiglia, il diritto–dovere del genitore di far visita al figlio minore, di cui all’art. 316 c.c., si caratterizza per la sua intensa strumentalità rispetto alla realizzazione degli interessi superiori del minore stesso;
  • la predetta posizione giuridica del genitore:
  • in quanto diritto, e quindi nella sua declinazione attiva, è tutelabile ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. rispetto ai comportamenti dell’altro genitore che siano tali da ostacolare l’altrui diritto di visita del figlio;
  • in quanto dovere, e quindi nella sua declinazione passiva, resta fondata sull’autonoma e spontanea osservanza del genitore interessato nell’ambito della propria capacità di autodeterminazione e sempre in vista dell’attuazione del superiore interesse del minore ad una crescita sana ed equilibrata, e, come tale, non è suscettibile né di coercizione indiretta ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. – che presuppone un provvedimento di condanna non compatibile con la posizione giuridica del genitore – né dei rimedi di cui all’art. 709 ter c.p.c. che prevede ipotesi di risarcimento a fronte di un danno già integrato e non una coercizione preventiva e indiretta di un dovere nel caso di una sua inosservanza futura.

La Suprema Corte evidenzia, altresì:

  • che “…l’emanazione di un provvedimento ex art. 614 bis c.p.c. si pone in evidente contrasto con l’interesse del minore il quale viene a subire in tal modo una monetizzazione preventiva e una conseguente grave banalizzazione di un dovere essenziale del genitore nei suoi confronti, come quello alla sua frequentazione”;
  • la non coercibilità del dovere di visita del genitore non collocatario non vale ad escludere che al mancato suo esercizio non conseguano effetti, potendo comportare l’affidamento esclusivo in capo all’altro genitore, la decadenza o l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale, la responsabilità penale per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiarequando le condotte contestate, con il tradursi di una sostanziale dismissione delle funzioni genitoriali, pongano seriamente in pericolo il pieno ed equilibrato sviluppo della personalità del minore”.

Di qui, la decisione della Suprema Corte di cassare senza rinvio il provvedimento impugnato.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

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A seguito della novella apportata dal D.lgs. n°154 del 28 dicembre 2013 e all’introduzione nel Titolo IX (“Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”) del Libro Primo, del capo II – rubricato “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimento relativi ai figli nati fuori del matrimonio” – è stato attribuito al giudice il potere di adottare, ai sensi dell’art. 337 ter c.c. “…ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di  temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare”.

In particolare, nei casi caratterizzati da una elevata conflittualità tra i coniugi e da un serio rischio di compromissione del rapporto tra il minore e il genitore con esso non convivente, sempre più frequentemente alcuni Tribunali stanno ricorrendo all’affido del minore presso i servizi sociali, riconoscendo a questi ultimi, come sottolineato dalla Suprema Corte, “…un ruolo di supplenza e di garanzia e intese a far iniziare ai genitori un percorso terapeutico finalizzato al superamento del conflitto e alla corretta instaurazione di una relazione basata sul rispetto reciproco nella relazione con il figlio”.

Di recente, La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°28998/18 del 12 novembre 2018, si è trovata a pronunciarsi sulla legittimità di un decreto con cui la Corte d’Appello di Venezia, in sede di reclamo, aveva disposto, al fine di precostituire “…le condizioni per il ripristino di una condivisa bigenitorialità tutelando da subito nel modo più penetrante il minore…”, l’affidamento dei minori ai servizi sociali, con collocamento presso la madre, nonché “…un progressivo incremento del diritto di visita del padre, secondo un calendario da predisporsi dai Servizi Sociali, con pernottamento del minore presso il padre ed introduzione di periodi alternati tra i genitori di permanenza del minore in occasione delle festività”, senza tuttavia determinarne modalità e durata.

La Corte, investita della questione, preliminarmente conferma l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto di Corte di Appello in quanto, citando alcuni precedenti “Il decreto della corte di appello, contenente provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio e le disposizioni relative al loro mantenimento, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché già nel vigore della L. 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile ‘rebus sic stantibus’ a quella del giudicato” (Cass. 6132 del 2015 cui è seguita 18194 del 2015; Cass. n. 3192/2017).

La Corte invece reputa infondata la censura operata dalla ricorrente relativa alla “…violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 4 commi 3 e 4, avendo la Corte confermato l’affidamento del minore ai Servizi Sociali senza determinare le modalità e la durata dell’incarico”. Ad avviso degli Ermellini, infatti, il provvedimento adottato dalla Corte veneziana risultava “…sufficientemente dettagliato e corretto” in quanto la necessaria indicazione della presumibile durata dell’affidamento e delle modalità di esercizio dei poteri degli affidatari, sono condizioni richieste solo per l’affidamento familiare previsto dall’art. 4, commi 3 e 4 della legge n°184/83, non già per il provvedimento di affidamento familiare di cui all’art. 337 ter c.c. bensì dell’affidamento.

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downloadIl caso

Due genitori non coniugati adiscono il Tribunale di Trieste al fine di vedere regolamentato l’affido e il mantenimento del proprio figlio, di appena 1 anno di vita.

La madre, con cui il bambino ha prevalentemente vissuto sino ad allora, pur non mettendo il dubbio la capacità genitoriale del padre, chiede al Tribunale di postergare i pernotti del figlio dal padre a partire solo dal 3° anno di vita, riconoscendogli sino ad allora un diritto di visita limitato a tre pomeriggi settimanali.

Si costituisce in giudizio il padre del minore, chiedendo “…in ossequio al principio della bigenitorialità materialmente condiviso” che il Tribunale disponga in via principale un affido alternato (5 giorni e 4 notti la prima settimana e tre pernottamenti la seconda) e, in via subordinata, un diritto di visita, comprensivo di pernotto, “…per un tempo non inferiore a un terzo del tempo totale ed orientata a modelli paritetici di affidamento”.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale triestino, investito della questione, si esprime in favore dell’immediata, ancorché graduale, introduzione di pernotti dal padre – alla luce del …l’età del minore, ormai svezzato”, “…l’assenza di elementi concreti nel senso di inadeguatezza del padre…”, “…gli impegni lavorativi dei genitori… – riconoscendogli il diritto di tenere con sé il figlio:

– per una notte alla settimana sino al mese di aprile 2019 (quando il bambino avrà  due anni e 3 mesi);

– per due notti sino al compimento dei tre anni di vita;

– per tre notti a partire dal compimento dei tre anni di vita.

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downloadIl legislatore, con legge n°69/2009 ha introdotto nel nostro ordinamento l’art. 614 bis c.p.c., quale deterrente di natura economica agli inadempimenti di obblighi difficilmente coercibili, con il quale il giudice, su istanza di parte, può condannare l’obbligato al pagamento di un somma “…per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento” [1].

Detta misura è stata recentemente invocata da un padre in un giudizio, in cui era stato convenuto e relativo alla modifica delle condizioni di divorzio, al fine di sanzionare la madre ogni qualvolta la stessa non garantisse il diritto del padre di vedere e tenere con sé le figlie.

I fatti di cui è causa

Con ricorso depositato in data 10 gennaio 2017, un’ex moglie, madre di due figlie minori con essa conviventi, adiva il Tribunale di Mantova al fine di veder modificate le statuizioni in punto di mantenimento per le due figlie minori, con un aumento del mantenimento da € 800,00 ad € 900,00 nonché una rideterminazione delle modalità e dei tempi di visita padre-figlie, all’esito dell’accertamento della capacità genitoriali e delle ragioni che avevano spinto le ragazzine a non voler incontrare il padre nell’arco dell’ultimo anno.

Si costituiva in giudizio il padre, chiedendo il rigetto della domanda di controparte relativa all’aumento dell’assegno di mantenimento in favore delle figlie, alla luce di una diminuzione del proprio reddito, chiedendo altresì, all’esito dell’accertamento delle capacità genitoriali, la condanna della stessa “…a pagare ai sensi e per gli effetti dell’art. 614 bis c.p.c., la somma che il Tribunale riterrà di giustizia per ogni violazione o inosservanza dei provvedimenti di cui all’emanando decreto o per ogni ritardo nell’esecuzione di detti provvedimenti”, eccependo come la moglie, dall’epoca della separazione, avesse costantemente ostacolato i rapporti padre-figli.

La decisione

Il Tribunale mantovano, investito della questione, all’esito dell’istruttoria accoglieva in parte la domanda di riduzione del mantenimento avanzata dal padre, alla luce della (parzialmente) comprovata riduzione dei suoi redditi da lavoro, rigettando invece la domanda volta alla condanna del coniuge ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. ritenendola inammissibile – “[P]ur essendo noto il fatto che in alcuni casi la giurisprudenza di merito ha ritenuto applicabile il disposto della norma richiamata, a sanzione di comportamenti ostruzionistici del genitore collocatario all’esercizio del diritto di visita del genitore con il quale il figlio non convive stabilmente, ritiene il Tribunale che tale misura di coercizione indiretta sia inammissibile nei procedimenti aventi ad oggetto l’adozione di provvedimenti ex art. 337 bis e ss. c.c. – alla luce della seguente motivazione:

  • la sanzione di cui all’art. 614 bis c.p. “…può accedere pertanto unicamente a sentenze di condanna ad un obbligo (determinato) di fare o di non fare”;
  • di contro, “…i ‘provvedimenti riguardo ai figli’ che il Tribunale deve adottare ai sensi dell’art. 337 terc., in relazione al regime di affidamento, alla regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, ed alla determinazione dei tempi e delle modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore, non comportano alcuna statuizione di “condanna” a carico dell’uno o dell’altro genitore;
  • “…[i]n particolare la determinazione dei periodi di permanenza dei figli presso il genitore con il quale non convivono stabilmente, e quindi le modalità in cui si esplica il diritto/dovere del genitore non collocatario di tenere con sé i figli, non costituisce provvedimento di condanna del genitore collocatario all’esecuzione di obblighi determinati di fare o di non fare”;
  • “[L]a competenza ad accertare inadempimenti ai provvedimenti ex artt. 337 bis e ss. c.c. o comportamenti che comunque ‘arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento’ spetta peraltro esclusivamenteal giudice del procedimento in corso’ o al Tribunale in composizione collegiale, e non certamente al giudice dell’esecuzione (in sede di eventuale opposizione a precetto ex art. 614 bis c.p.c.), come espressamente previsto dall’art. 709 ter c.p.c., che disciplina il procedimento relativo e stabilisce le specifiche sanzioni applicabili, in ipotesi di accertata violazione”;
  • ad ogni modo, le risultanze del giudizio avevano chiarito l’addebitabilità unicamente al padre dei mancati incontri padre-figlie.

In conclusione, ad avviso della parte, la domanda di condanna ex art. 614 bis c.p.c. “…in via preventiva, ed in assenza di qualsiasi statuizione di condanna della ricorrente all’esecuzione di un ‘facere’ o di un ‘non facere’, è quindi inammissibile”.

[1] L’art. 614 bis c.p.c., recita, al 1° comma: “Con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento(2). Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409”; e al 2° comma: “Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.

Tribunale di Mantova, decreto del 12 luglio 2018

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a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4Il Tribunale di Mantova, con provvedimento del 10 maggio 2018, ha dichiarato la propria incompetenza a pronunciarsi sull’affido e mantenimento di un minore nato fuori dal matrimonio, in favore del giudice del luogo di residenza abituale dello stesso.

Come chiarito infatti nel provvedimento, è territorialmente competente a pronunciarsi su un ricorso ex art. 337 bis c.c. unicamente il giudice del luogo di residenza abituale del minore.

Ad avviso del Tribunale lombardo, infatti, ciò risulta chiaramente alla luce:

  • dell’art. 38 disp. att. c.c., il quale dispone “… che nei procedimenti in materia di affidamento e mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 e segg. c.p.c.”;
  • dell’applicazione, , in mancanza di più specifiche indicazioni normative, del criterio giurisprudenziale che individua il giudice competente “…in quello del luogo in cui ha il domicilio il soggetto della cui situazione giuridica si discute;
  • dell’espressa contemplazione da parte dell’art. 709 ter c.p.c. del criterio della residenza abituale del minore;
  • della conformità del predetto criterio “…al principio di prossimità previsto dalla legislazione comunitaria”, di cui all’art. 15 regolamento CE n. 2201/2003.

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[:it]_86135137_polizeiA distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore del Regolamento 679/2016/UE del Parlamento e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, il Tribunale di Mantova si è pronunciato su un’interessante questione che coinvolge sempre più genitori e figli: privacy e social media.

La vicenda trae origine da un ricorso dinnanzi al Tribunale civile di Mantova da un padre per la revisione delle condizioni di affido e mantenimento di due figli minori in tenera età (rispettivamente tre anni e mezzo e due anni e mezzo), entrambi residenti con la madre. Nelle more del giudizio i genitori raggiungevano un accordo, inserendo tra le condizioni l’espresso l’obbligo a carico della madre di cancellare le innumerevoli fotografie dalla stessa “postate” sul suo profilo Facebook e di non pubblicarne di nuove. A seguito della mancata cancellazione delle foto il padre si rivolgeva al giudice chiedendo di inibire l’ex compagna dall’inserire altre foto dei figli sui social network e di rimuovere immediatamente quelle già presenti.

Il Tribunale dà ragione al marito, ordinando alla madre la pronta rimozione di ogni foto, con un’interessante motivazione basata non solo sulla violazione dell’espresso accordo raggiunto sul punto dai genitori ma soprattutto sull’interesse superiore dei bambini e sui pregiudizi che potrebbero derivare loro dalla circolazione di detto materiale in rete.

Osserva, infatti il Tribunale che:

  • dal momento che le fotografie dei minori devono considerarsi dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 (normativa in punto di privacy) e la loro diffusione integra un’illecita “…interferenza nella loro vita privata”;
  • le continue fotografie dei figli postate dalla madre sui social, in violazione degli accordi raggiunti con il padre e contro la volontà di quest’ultimo, integrano la violazione:
    1. dell’art. 10 c.c., che tutela il diritto all’immagine;
    2. del combinato disposto degli articoli 4,7,8 e 145 del d.lgs. 196/2003 nonché degli articoli 1 e 16, co. 1, della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo;
    3. l’art. 8 del neo- adottato regolamento 679/2016/UE, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio 2018.
  • la presenza di foto dei minori sui social media costituisce altresì un comportamento potenzialmente pregiudizievole per gli stessi dal momento che “…determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia”.

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[:it]download (1)La PAS (Sindrome da Alienazione Parentale)

Il fallimento della propria unione è difficile da accettare, ancor di più per i propri figli. È per questo che è importante fare capir loro che l’amore del papà e della mamma non verrà mai meno, perché padre e madre si resta anche dopo una separazione.

Aimè, tuttavia, nelle liti familiari che riempiono i tribunali italiani sta emergendo in modo sempre più preoccupante il fenomeno della c.d. alienazione parentale, definita dal celebre psichiatra americano Richard A. Gardner, come: «Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile».

Nella giurisprudenza degli ultimi anni il riferimento alla PAS sta divenendo sempre più recente, ancorché se l’esistenza e i connotati di questa patologia siano ancora discussi in ambito medico.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n°21215 del 13 settembre 2017, si è recentemente imbattuta in un caso di alienazione parentale degno di nota, anche per le misure assunte dai giudici nei primi gradi di giudizio al fine di porvi rimedio.

I primi gradi di giudizio.

La vicenda di cui ci si occupa trae origine da una delle tante cause di divorzio in cui, oltre alle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento per il coniuge e i figli, le parti hanno demandato al Tribunale di Napoli di pronunciarsi sul regime di affido e mantenimento di una figlia minore.

All’esito della CTU svoltasi in primo grado, da cui era emersa una forte manipolazione della bambina ad opera della madre –  tale da spingerla a provare risentimento nei confronti del padre sulla base di motivi artificiosi creati ad arte dalla madre e a rifiutarsi di incontrarlo – il Tribunale partenopeo aveva deciso:

  • di affidare la minore per un periodo di 6 mesi alla zia paterna, disciplinando puntualmente gli incontri dei genitori con la bambina
  • di porre a carico di ambedue i genitori un congruo assegno di mantenimento;
  • di rigettare la domanda di assegnazione della casa familiare e di assegno di mantenimento per il coniuge avanzata dalla madre.

La madre, tuttavia, propone ricorso avverso detta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Napoli, chiedendo di disporsi l’affido condiviso della figlia con collocamento prevalente presso la stessa.

La Corte di secondo grado, tuttavia non solo rigetta l’appello della madre ma decide – essendosi concluso il periodo di 6 mesi di affidamento della bambina alla zia paterna – di disporre l’affido esclusivo della piccola al padre, ponendo a carico dell’ex moglie un assegno di mantenimento di € 400,00 e disciplinando degli incontri protetti madre – figlia presso i Servizi Sociali.

Le risultanze della C.T.U.

Alla base della decisione, ancora una volta, gli esiti della C.T.U. svoltasi in primo grado che così ha descritto l’ex moglie, la quale:

  • “…mostra un tratto passivo aggressivo, alternando momenti in cui si percepisce vittima a momenti in cui perseguita lei stessa il C…. percepisce pericoli incombenti da cui difendersi e lottare ed è presente una spinta sadomasochistica con tendenza al vittimismo… tende a voler definire lei il ruolo paterno del sig. C., e durante i colloqui mostra un atteggiamento svalutante nei confronti del padre”;
  • “…non le [alla figlia] riconosce il diritto di amare il suo papà e, in maniera consapevole o inconsapevole, agisce con ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente…”;

Ancor più significative, poi, sono le risultanze con riferimento alla figlia, la quale:

  • “…in presenza della madre, si disperava dicendo di non voler andare con il padre ma, non appena la genitrice si allontanava, subito si rasserenava, confortata dall’affettuosità paterna”;
  • “…non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, nonché una coatta e forzosa ostilità verso il padre… si riscontra una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre…”.

Ad avviso dell’esperta nominata dal Tribunale, il condizionamento che aveva subito la minore era di tale entità da rendere insussistenti “…le condizioni per intraprendere un favorevole percorso terapeutico, al fine di agevole la ripresa dei contatti della bambina con il padre…” e da escludere altresì “…l’opportunità dell’affidamento della minore alla madre”.

Il giudizio in Cassazione

La madre decideva di ricorrere avverso detta sentenza sino alla Corte di Cassazione, eccependo che la decisione del giudice di secondo grado era fondata sulla diagnosi della sindrome d’alienazione parentale, senza che la Corte avesse provveduto “…alla verifica scientifica della teoria posta alla base della diagnosi”.

La Suprema Corte, tuttavia, rigetta l’appello della donna sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • preliminarmente, “…l’allegazione, nel ricorso per cassazione, di un mero dissenso scientifico, che non attinga un vizio nel processo logico seguito dalla Corte territoriale, si traduce in una inammissibile domanda di revisione nel merito del convincimento del giudice” (tra le molte, cfr. Cass. sez. I^, sent. 9.1.2009, n. 282);
  • la decisione della Corte d’Appello si è basata non solo sulla C.T.U. espletata ma anche sulle risultanze di uno specialista che ha seguito la bambina nel corso del giudizio d’appello, esprimendo le medesime valutazioni della consulente tecnica e alla conclusione dell’inidoneità della madre all’esercizio della responsabilità genitoriale;
  • dirimente per la decisione della corte d’appello non è stata la ricorrenza di una patologia, quale la PAS, bensì ma “…l’adeguatezza di una madre a svolgere il proprio ruolo nei confronti di una figlia minore che si trova in grave difficoltà, avrebbe bisogno del sostegno di entrambi i genitori, ma non riceve la collaborazione di cui ha bisogno dalla madre, in base alle univoche risultanze di causa…”;
  • la Corte d’Appello, infatti, ha correttamente fatto proprie le risultanze della CTU svoltasi in primo grado, dalla quale è emerso che “la P. ha cercato di esautorare il C., padre della piccola A. e di sostituirlo, nello svolgimento del ruolo paterno, con la figura del suo attuale compagno convivente. Infatti la stessa P. dichiarava che la figlia chiamava “papà” il compagno della mamma”.

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downloadTribunale di Modena, sez. II^, con sentenza del 26 gennaio 2016, si pronuncia in favore del c.d. affido “superesclusivo” di una ragazza alla madre, di nazionalità marocchina, a seguito dell’allontanamento del padre, anch’egli di nazionalità marocchina, dalla casa familiare e del suo rientro nel suo Paese d’origine, facendo perdere le sue tracce.

Il Tribunale modenese, investito della questione, procede preliminarmente ad accertare la competenza giurisdizionale, quale giudice del luogo dell’ultima residenza abituale dei coniugi in cui uno di essi risiedeva ancora, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento CE n°2201/03 nonché dell’art. 3, co. 2, della legge n°218/95 e dell’art. 706 c.p.c.

Successivamente, il giudice, procede all’accertamento della legge applicabile al caso di specie, così come individuata dai criteri gerarchici previsti dal regolamento UE n°1259/2010, c.d. Roma III; accertando:

  • l’inapplicabilità della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi al momento della proposizione della domanda, ex art. 8, lett. a) del Regolamento Roma III, essendo in tale momento il marito già allontanatosi dall’Italia;
  • l’inapplicabilità della legge della Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi, ex art. 8, lett. b) del Regolamento Roma III, essendo decorso più di un anno dall’allontanamento del marito;
  • l’inapplicabilità della legge dello Stato di nazionalità comune dei coniugi, ex art. 8, lett. c) del Regolamento Roma III, ovvero quella marocchina, in quanto non contemplante la separazione personale;
  • la conseguente applicazione del criterio residuale della legge del foro, ex art. 8, lett. d) del Regolamento Roma III, ovvero quella italiana.

Una volta accertata la propria competenza e l’applicabilità della legge italiana, la Corte modenese, esaminando la documentazione prodotta dalla ricorrente e alla luce dell’audizione del minore, reputa comprovata l’inidoneità del padre all’esercizio della responsabilità genitoriale, essendosi lo stesso “…reso irreperibile e del tutto assente nei rapporti con la minore, omettendo di contribuire al mantenimento della medesima e lasciandone l’onere integrale di cura, accudimento e mantenimento ordinario e straordinario alla moglie”, disponendo pertanto l’affidamento monogenitoriale ai sensi dell’art. 337 quater c.c. del minore alla sola madre.

In particolare, riportandosi alla celebre ordinanza 20/03/2014 del giudice milanese dott. Buffone, reputa altresì sussistenti gli elementi giustificativi del c.d. “affido superesclusivo”, di cui all’art. 337-quater comma III c.c., definito quale modulo di esercizio della responsabilità genitoriale, in cui si rimette “…al genitore affidatario anche l’esercizio in via esclusiva della responsabilità genitoriale con riguardo alle questioni fondamentali”. Il Tribunale specifica tuttavia che, essendo detto provvedimento incidente non già sulla titolarità della responsabilità genitoriale bensì unicamente sul suo esercizio, il genitore non affidatario conserva “…sempre il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse (art. 337-quater ultimo comma c.c.)”.

Passando da ultimo alle determinazione delle modalità di frequentazione tra il padre e il figlio, il Collegio, alla luce della condotta tenuta dal resistente, il quale era letteralmente sparito da più di tre anni, riconosce unicamente la “…possibilità per il padre, ove ne faccia richiesta, di vederla alla presenza della madre, previo accordo con quest’ultima e compatibilmente le esigenze scolastiche e ricreative della ragazza”.

 

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