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Il Tribunale civile di Roma, sez. V^, con la sentenza in oggetto, ha chiarito che il termine di 30 giorni per l’impugnazione di una delibera condominiale, di cui all’art. 1137 co. 2° c.c., deve ritenersi interrotto (e non sospeso) dalla proposizione dell’istanza di mediazione, con conseguente sua decorrenza, di nuovo e per intero, dalla data di sottoscrizione del verbale negativo di mediazione.

Il caso

Due condomini evocavano in giudizio il condominio per ottenere l’annullamento di una delibera condominiale. Il condominio, costituitosi in giudizio, eccepiva preliminarmente l’inammissibilità dell’impugnazione in quanto tardivamente proposta ritenendo, erroneamente, che “…a seguito del deposito del verbale negativo di mediazione, il termine ex art. 1137 c.c. riprenda a decorrere per i giorni che rimanevano al momento in cui si è verificata la sospensione”.

Ad avviso di parte convenuta, infatti, “… tra la data della comunicazione del verbale dell’assemblea impugnata (16.10.14) e la data dell’istanza di mediazione (13.11.14) erano trascorsi 27 giorni, e tra la data di deposito del verbale negativo (3.6.15) e quella della notifica della citazione (1.7.15) erano trascorsi altri 28 giorni, superandosi così il termine di 30 giorni fissato dall’art. 1137 c.c.”.

La decisione

Di diverso avviso il Tribunale di Roma, che respinge l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per decadenza ex art. 1137, co. 2, c.c. in quanto:

  • in base al disposto normativo (art. 5 co. 6 del D.Lgs. n. 28 del 2010 laddove afferma che la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed “impedisce” la decadenza) si deve infatti ritenere che si determini un effetto di tipo interruttivo e non sospensivo, per cui il termine per impugnare, dopo il deposito del verbale negativo, è, di nuovo e per intero, quello di trenta giorni previsto dall’art. 1137 co. 2 c.c. (v. Tribunale di Milano, sentenza n. 13360/2016 pubbl. il 02/12/2016 RG n. 17984/2015; Tribunale di Monza, sentenza 65/2016 del 12/1/2016)”;
  • “…la fattispecie costituisce, pertanto, deroga al principio sancito dall’art. 2964 cod. civ., il quale esclude che la decadenza possa essere soggetta alla disciplina interruttiva, invece valevole per la prescrizione e dettata dai precedenti articoli 2934 e ss. cod. civ”..

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downloadCome noto, la legge n°247 del 2012, all’art. 13, co. 10[1], ha affidato al D.M. n°55 del 2014 la determinazione della misura massima della somma dovuta per il rimborso delle spese forfettarie, da quest’ultimo successivamente fissato, ai sensi dell’art. 2, co. 2, “…di regola nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione…[2].

La predetta formulazione è stata di recente oggetto d’interpretazione da parte della Suprema Corte a seguito della dedotta violazione di legge di una sentenza con cui il Tribunale aveva liquidato il compenso oltre alle spese forfettarie, senza tuttavia determinarne l’ammontare.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^, con ordinanza n°9385 del 26 aprile 2018, depositata in cancelleria il 4 aprile 2019, fornisce i seguenti condivisibili chiarimenti, partendo dall’interpretazione letterale ed ermeneutica dell’art. 2, co. 2 D.M. n°55/14.

Gli Ermellini, in particolare, ritengono che, dall’utilizzo dell’espressione “di regola”, contenuta nell’art. 2, co. 2, D.M. n°55/14, derivi che all’avvocato spetti la liquidazione delle spese forfettarie nella misura del 15% “…in mancanza di diversa determinazione giudiziale, con due conseguenze:

  • sul piano motivazionale, qualora il giudice voglia derogare alla predetta regola, dovrà darne atto “…direttamente o indirettamente in relazione alla complessità della prestazione e al suo pregio”, essendo necessaria un’apposita motivazione perché la predetta misura possa essere derogata in peius;
  • “…sul piano presuntivo, relativa alla doverosità della lettura del provvedimento giudiziale, che non rechi la determinazione percentuale del rimborso o addirittura nulla dica in ordine alla sua spettanza, nel senso che il provvedimento stesso abbia implicitamente recepito la regola e, quindi, abbia riconosciuto il rimborso nella misura del 15%”.

Alla luce di quanto sopraesposto, la Suprema Corte afferma il seguente condivisibile principio di diritto: “Il provvedimento giudiziale di liquidazione delle spese processuali che non contenga la statuizione circa la debenza o anche solo l’esplicita determinazione della percentuale delle spese forfettarie rimborsabili ai sensi dell’art. 13 comma 10 della I. n. 247 del 2012 e dell’art. 2 del d.m. n. 55 del 2014 è titolo per il riconoscimento del rimborso stesso nella misura del 15% del compenso totale, quale massimo di regola spettante, potendo tale misura essere soltanto motivatamente diminuita dal giudice”.

[1] Legge n°247 del 2012, all’art. 13, co. 10: “…oltre al compenso per la prestazione professionale, all’avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell’interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6…

[2] Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense (D.M. n°55/2014), art. 2, co. 2: “Oltre al compenso e al rimborso delle spese documentate in relazione alle singole prestazioni, all’avvocato è dovuta – in ogni caso ed anche in caso Rassegna Forense – 2/2014 439 D.M. 10 marzo 2014, n. 55 di determinazione contrattuale – una somma per rimborso spese forfettarie di regola nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, fermo restando quanto previsto dai successivi articoli 5, 11 e 27 in materia di rimborso spese per trasferta.”

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