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Come noto, il nuova comma 2 bis dell’art. 6 del d.l. n.132 del 2014[1] ha introdotto l’obbligo di invio con modalità telematiche degli accordi di negoziazione assistita in materia di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, e loro modifica, e di alimenti.

In particolare, la predetta disposizione, recentemente introdotta dall’art. 9, comma 1, lett. i), n°3 del d.lgs. n°149 del 10 ottobre 2022, dispone che:

– l’accordo raggiunto debba essere sottoscritto digitalmente e trasmesso dagli avvocati al procuratore della Repubblica con modalità telematiche;

– il procuratore, a sua volta, qualora apponga il nulla osta / l’autorizzazione, dovrà anch’egli trasmettere l’accordo autorizzato digitalmente.

A fronte tuttavia dei ritardi nella strutturazione del “flusso telematico” che consentirà le predette comunicazioni, il Direttore Generale del Dipartimento per gli Affari di Giustizia, con nota del 28 febbraio 2023 ha chiarito che “In attesa che venga strutturato il flusso telematico che consentirà tali comunicazioni, sentito il Capo Dipartimento per gli affari di giustizia, gli uffici competenti sono autorizzati ad accettare il deposito in forma cartacea da parte degli avvocati che assistono le parti degli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita, ai sensi dell’art. 6 del d.l. n. 132 del 2014

[1]Art. 2-bis (Negoziazione assistita in modalità telematica): 1. Quando la negoziazione si svolge in modalità telematica, ciascun atto del procedimento, ivi compreso l’accordo conclusivo, è formato e sottoscritto nel rispetto delle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ed è trasmesso a mezzo posta elettronica certificata o con altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, secondo quanto previsto dalla normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. 2. Gli incontri si possono svolgere con collegamento audiovisivo da remoto. I sistemi di collegamento audiovisivo utilizzati per gli incontri del procedimento di negoziazione assicurano la contestuale, effettiva e reciproca udibilità e visibilità delle persone collegate. Ciascuna parte può chiedere di partecipare da remoto o in presenza.   3. Non può essere svolta con modalità telematiche ne’ con collegamenti audiovisivi da remoto l’acquisizione delle dichiarazioni del terzo di cui all’articolo 4-bis.  4. Quando l’accordo di negoziazione è contenuto in un documento sottoscritto dalle parti con modalità analogica, tale sottoscrizione è certificata dagli avvocati con firma digitale, o altro tipo di firma elettronica qualificata o avanzata, nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 20, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 82 del 2005.

 

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32914 del 8 novembre 2022 hanno risolto una delle questioni più controverse in materia di separazione e divorzio, ovvero se l’assegno di mantenimento  per il coniuge, originariamente ritenuto dovuto, sia recuperabile nel caso in cui l’originario provvedimento venga modificato, disconoscendosene l’obbligo.

In particolare è stato statuito il seguente principio di diritto: «In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la «condictio indebiti» ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione «del richiedente o avente diritto», ove si accerti l’insussistenza «ab origine» dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la «condictio indebiti» e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, «delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)», sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità».

Le Sezioni Unite della Cassazione, dunque, non offrono una soluzione unitaria al problema e distinguono due diverse ipotesi:

  • vanno restituite le somme versate a titolo di mantenimento quando il giudice escluda la sussistenza, sin dall’origine, del diritto a percepirle;
  • non possono invece essere restituite le somme versate a titolo di mantenimento quando il giudice sottopone a un diverso giudizio le condizioni economiche del soggetto obbligato o dei bisogni del beneficiario e, a seguito di ciò, rimodula al ribasso gli importi dovuti.

Il primo caso si verifica quando viene a mancare del tutto lo stato di bisogno del coniuge beneficiario (si pensi a due coniugi che abbiano la medesima retribuzione, che magari viene accertata a seguito delle indagini tributarie svolte nel corso del processo); oppure quando il giudice accerta la sussistenza dei presupposti per l’addebito (ossia l’imputazione di responsabilità per la fine del matrimonio), cosa che accade, ad esempio, quando viene accertato un tradimento o l’abbandono del tetto coniugale. Anche in questo secondo caso, infatti, difetta all’origine il diritto a percepire l’assegno di mantenimento; difatti chi subisce l’addebito perde il diritto a chiedere qualsiasi sostegno economico, anche in caso di difficoltà economiche.

Al contrario, il diritto a ripetere le somme versate a titolo di assegno di mantenimento (o di assegno divorzile) non sorge quando la rivalutazione riguarda le possibilità economiche del coniuge obbligato al mantenimento (si pensi al caso del marito che, nel corso della causa, riesca a dimostrare di dover sostenere numerose spese, come quelle per il mutuo, che non gli consentono di pagare un importo elevato a titolo di mantenimento) o quando tale importo viene rimodulato dal giudice in relazione ai più contenuti bisogni economici del coniuge beneficiario.

Per la Cassazione non esiste, nel nostro ordinamento, una norma che sancisca l’irripetibilità dell’assegno alimentare provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando. Tuttavia occorre «operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza – di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole nel rapporto». Nella peculiare comunità sociale rappresentata dalla famiglia – prosegue la Corte – è necessario dare il giusto rilievo alle esigenze equitative-solidaristiche, in un’ottica di temperamento della generale operatività della regola civilistica della ripetizione di indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della stessa. Si deve infatti presumere, che le maggiori somme versate «siano state comunque (in atto o in potenza) consumate, proprio per fini di sostentamento, dal coniuge debole».

La Corte non arriva però fino a definire l’entità di questa somma, che è «necessariamente modesta», ma che non essendo stata fissata «in maniera rigida» dal Legislatore richiede «una valutazione personalizzata» da parte del giudice di merito, considerate tutte le variabili del caso concreto: «la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica».

Avv. Claudia Romano

 

[:it]Two hand exchanging twenty jordanian dinars

Il caso

Con sentenza del 4 dicembre 1987, il Tribunale di Taranto dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ponendo a carico del padre il versamento di un contributo al mantenimento delle due figlie sino al termine degli studi universitari.

Nonostante le due figlie della coppia avessero conseguito la laurea e si fossero altresì sposate, rispettivamente nel 1994 e nel 1998, l’ex moglie notificava all’ex marito, in data 3 maggio 2006, un precetto di pagamento per il pagamento del mantenimento relativo agli ultimi 5 anni.

L’ex marito versava spontaneamente l’importo precettato, promuovendo successivamente un giudizio volto alla restituzione di quanto pagato, chiedendo in subordine il risarcimento del danno per appropriazione indebita.

I giudizi di primo e secondo grado

Il Giudice di prime cure, rigettava la domanda restitutoria, accogliendo, di contro, quella subordinata.

La pronuncia veniva impugnata da ambedue i coniugi.

La Corte d’Appello di Lecce, pronunciandosi sui due gravami:

  • rigettava quello del marito, ritenendo infondata la pretesa restitutoria “…sul presupposto che il suo obbligo contributivo fosse venuto meno solo con il provvedimento del Tribunale del 2 maggio 2007 che ne aveva decretato la cessazione a decorrere dal 13 ottobre 2006”;
  • accoglieva, di contro, quello della moglie e rigettava la domanda risarcitoria del marito “…escludendo l’ipotizzata appropriazione indebita sia perché la (moglie) aveva percepito le somme in forza di un titolo giudiziale, sia perché l’ipotizzato danno era riconducibile al comportamento inerte dello stesso (marito) il quale solo nell’ottobre 2006 si era attivato per la modifica delle statuizioni patrimoniali inerenti al divorzio”.

Il ricorso per Cassazione

Avverso detta sentenza ricorreva sino in Cassazione l’ex marito, dolendosi dell’esclusione del carattere indebito, ai sensi dell’art. 2033 c.c., del pagamento “essendo il vincolo obbligatorio, cioè la causa giustificativa del pagamento stesso, cessato quanto meno dal 1994 al 1998”.

Gli ermellini accolgono il ricorso del marito, offrendo i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • sulla base dell’accordo raggiunto dai genitori in sede di divorzio, l’obbligo di mantenimento delle figlie da parte del padre era venuto meno a seguito del conseguimento del diploma di laurea;
  • la circostanza che il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio sia stato introdotto dall’ex marito solo successivamente, “…non impedisce la proposizione dell’azione restitutoria delle somme corrisposte indebitamente, a norma dell’art. 2033 c.c. che ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa”;
  • “…l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio” (in senso conforme Cass. civ. n°11489/2014).

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[:it]Woman in blue denim jeans with brown leather bag on her lap

La Consulta ha recentemente esaminato le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Venezia riguardanti la legge sulle unioni civili e il decreto sugli atti dello stato civile.

Nel caso concreto, una donna unita civilmente ad un’altra aveva concepito all’estero, mediante tecniche di fecondazione eterologa, un figlio poi nato in Italia. Secondo il Tribunale, la disciplina vigente, nell’escludere la registrazione nell’atto di nascita del bambino come figlio di entrambe le donne, violerebbe i dritti della cosiddetta madre intenzionale e quelli del minore, e determinerebbe una irragionevole discriminazione per motivi di orientamento sessuale.

In attesa del deposito della sentenza, con l’allegato comunicato stampa, la Corte Costituzionale ha reso noto che le questioni sollevate dal Tribunale di Venezia sono state dichiarate inammissibili.

Secondo la Corte, il riconoscimento dello status di genitore alla cosiddetta madre intenzionale – all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente – non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale. Al legislatore spetta – su temi così eticamente sensibili – ponderare gli interessi e i valori in gioco, tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale in un determinato momento storico.

La Corte ha ritenuto altresì che la protezione del miglior interesse del minore in simili situazioni – oggi affidata dalla giurisprudenza all’attuale disciplina sull’adozione in casi particolari – può essere assicurata attraverso varie soluzioni, tutte compatibili con la Costituzione, che spetta sempre al legislatore individuare.

Avv. Claudia Romano[:]

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(Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 21140/20)

L’assegno divorzile è una delle principali conseguenze del divorzio relative al patrimonio, perché attraverso il divorzio il giudice stabilisce l’eventuale diritto di uno dei coniugi di percepirlo.

Esso trova il proprio fondamento giuridico nell’art.5 legge n. 898/70, che prevede il riconoscimento dell’assegno in favore del coniuge divorziato solo “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

E’ indubbia, alla luce di tale disposizione, la funzione assistenziale dell’assegno, in quanto il presupposto fondamentale per la sua attribuzione è da ricercarsi nell’esigenza di porre rimedio, in base ad un principio solidaristico, ad uno stato di disagio economico in cui venga a trovarsi il coniuge più debole, valutando la situazione dello stesso in concreto, ossia tenendo conto delle qualità personali e sociali delle parti e rapportando le stesse al tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Come noto, la giurisprudenza di legittimità ha svolto un’importante opera di interpretazione della norma sopra citata, cristallizzatasi da ultimo con la nota pronunzia 11 luglio 2018, n. 18287 delle Sezioni Unite, che ha stabilito che l’assegno di divorzio, oltre alla citata funzione assistenziale (per assenza incolpevole di mezzi di sostentamento), ha anche una funzione compensativa e perequativa per il sacrificio di forze che hanno consentito all’altro coniuge di accumulare un patrimonio personale e di impiegare il proprio tempo nel lavoro.

L’ordinanza in commento, depositata lo scorso 2 ottobre, si staglia sulla scia di queste ultime pronunce giurisprudenziali, stigmatizzando appunto «l’orientamento consolidato che il giudice debba valutare la concreta possibilità del coniuge che chieda il mantenimento di procurarsi il reddito adeguato al proprio sostentamento».

Sulla base di tali considerazioni, gli Ermellini hanno respinto la richiesta di un uomo che pretendeva di revocare il contributo, pari ad € 200,00, erogato ogni mese all’ex coniuge, vittima di una forte sindrome depressiva, sull’assunto che «non risulta provato che lo stato ansioso della donna sia invalidante».

I Supremi Giudici, invece, hanno ritenuto che la donna avesse sufficientemente comprovato, in fase di reclamo, che la sua crisi depressiva condizionasse in modo pesante la ricerca di un lavoro ed incidesse negativamente sulla concreta possibilità che essa si procurasse un reddito adeguato al suo sostentamento.

Avv. Claudia Romano

Grayscale photo of person covering face

 

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separazione-e-soldi_smallIl principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la recente sentenza n°18287 dell’11 luglio 2018

Come oramai noto a tutti, o quasi, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, hanno chiarito la natura e i presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio enunciati dall’art. 5 della legge n°898 del 1° dicembre 1970, pronunciando il seguente condivisibile principio di diritto: Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto“.

In particolare, le Sezioni Unite – prendendo le distanze dalla rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno divorzile, sostenuta pochi mesi prima dalla I^ sezione della Suprema Corte n°11504 del 10 maggio 2017 – hanno ritenuto che “…all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa…” con conseguente necessità di utilizzare un criterio composito al fine di accertare la debenza dell’assegno divorzile e procedere a una sua quantificazione, che tenga in dovuta considerazione:

  1. l’esistenza di una disparità economico-patrimoniale determinata dal divorzio, mediante una valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali dei coniugi del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
  2. il contributo fornito dall’ex coniuge più debole alla formazione del patrimonio comune e personale;
  3. la durata del matrimonio;
  4. le potenzialità reddituali presenti e future e dell’età dell’avente diritto;
  5. l’adeguatezza dei mezzi del richiedente “…non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi unilateralmente per una sola parte.

Ad avviso degli Ermellini, infatti, poiché “…alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo…”, solamente l’utilizzo del criterio composito soprarichiamato “…ha l’elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete perché, a differenza di quelli che si sono in precedenza esaminati, non ha quelle caratteristiche di generalità ed astrattezza variamente criticate in dottrina”.

L’accertamento della debenza e la sua quantificazione nel giudizio di merito.

Ai fini della determinazione della debenza o meno dell’assegno di mantenimento, come riassunto in una recente sentenza dal T.C. di Nuoro sulla scorta di quanto affermato dalle Sezioni Unite, il giudice di merito dovrà, pertanto:

  • preliminarmente accertare l’esistenza di “…una rilevante disparità tra le rispettive situazioni economico-patrimoniali degli ex coniugi”;
  • successivamente dovrà accertare “…se questa disparità sia stata causata da scelte condivise in ordine alla gestione del ménage familiare e ai rispettivi ruoli all’interno della famiglia” (con relativo onere probatorio posto a carico del richiedente);
  • dovrà poi verificare “…se il coniuge economicamente più debole non abbia la effettiva e concreta possibilità di superare (o quanto meno ridurre) il divario esistente, sotto il profilo delle concrete, effettive ed attuali possibilità di trovare un lavoro o di ottenere una più remunerativa occupazione, in considerazione della sua età, delle pregresse esperienze professionali, delle condizioni del mercato del lavoro e così via”.

Ai fini della successiva determinazione dell’entità dell’assegno, questa “non dovrà essere liquidata in misura corrispondente alla somma di denaro necessaria a mantenere (sia pur in via solo tendenziale) il pregresso tenore di vita, bensì in misura adeguata a colmare il divario avendo riguardo “al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente” .

Analisi delle prime pronunce dei Tribunali italiani

Nel corso dei mesi successivi al deposito della sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, si sono registrate le prime pronunce con cui alcuni tribunali italiani hanno riconosciuto e/o negato ai richiedenti il diritto all’assegno divorzile sulla scorta del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite e dei criteri individuati dalla Suprema Corte, dando particolare rilevanza:

  • all’esistenza di un’effettiva disparità economica;
  • alla sua eventuale riconducibilità a scelte condivise in costanza di matrimonio;
  • alla stessa durata del matrimonio;
  • all’età e alle potenzialità lavorative del richiedente.

1) Tribunale civile di Verona, sentenza n°1764/2018, pubblicata il 20 luglio 2018.

Il Tribunale civile di Verona è stato tra i primi ad applicare a un procedimento di divorzio, pendente dal 2015, i principi elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, negando l’assegno divorzile alla richiedente sulla scorta:

  • della breve durata dell’effettiva convivenza coniugale, essendosi i coniugi sposati nel 2004 e addivenuti a separazione personale nel 2008;
  • dell’indipendenza economica di ambedue i coniugi, come dagli stessi dichiarato in sede di separazione e confermato dalla documentazione reddituale depositati nel giudizio di divorzio;
  • della mancata incidenza del matrimonio sulla capacità reddituale della richiedente, rimasta inalterata;
  • del mancato contributo della moglie alla realizzazione professionale del marito, alla luce anche dell’età a cui le parti erano convolate a nozze (già ultra quarantenni) e della breve durata del matrimonio.

2) Tribunale civile di Roma, sentenza n°16394/2018, pubblicata l’8 agosto 2018.

Il Tribunale di Roma è stato tra i primi a negare il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie richiedente in considerazione:

  1. della capacità ed abilità al lavoro della moglie, la quale:
    1. non era “…titolare di alcun assegno di mantenimento in forza delle condizioni della separazione consensuale sottoscritta dalle parti”;
  2. era “…titolare sia di trattamento pensionistico che di redditi da lavoro dipendente per complessivi euro 1900,00”;
  3. era proprietaria del 50% della casa familiare, a lei assegnata, per la quale non sosteneva “…alcun onere (rata di mutuo o canone locatizio)”;
  1. delle voci di spesa incidenti negativamente sulla maggiore capacità reddituale dell’ex marito, il quale, “…sebbene titolare di un reddito più elevato, oltre a non utilizzare l’immobile adibito a casa coniugale, è tenuto alla corresponsione di una rata mensile pari a circa euro 850,00 per il pagamento del mutuo contratto per la casa di abitazione”;
  2. della non riconducibilità eziologica della disparità economico-patrimonialea determinazioni e scelte comuni e condivise che hanno condotto la [omissis] ad esplicare il suo ruolo solo o prevalentemente nell’ambito familiare”, in quanto la richiedente non aveva dedotto né comprovato che la scelta, in costanza di matrimonio, di lavorare part-time “…le abbia pregiudicato gli sviluppi di carriera”.

3) Tribunale civile di Trieste, sentenza n°525/2018 pubblicata il 21 agosto 2018.

Il Tribunale di Trieste, pronunciandosi su una richiesta di assegno divorzile, chiarisce preliminarmente come:

  • …l’obiettivo dell’assegno divorzile non è già la conservazione tendenziale del tenore di vita pregresso (riferimento specifico in sede di separazione, vista l’immanenza del vincolo di solidarietà coniugale), bensì la necessità di assicurare l’autosufficienza ovvero l’autonomia economica del coniuge più debole…”.
  • in situazioni caratterizzate da una sensibile disparità tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno dei coniugi, ancorché non necessariamente tale da sfociare nella constatazione di una radicale mancanza di autosufficienza economica, occorre non solo in funzione assistenziale-alimentare ma anche in chiave perequativa, stabilire se tale dislivello reddituale abbia o no la sua radice causale nelle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare: insomma, l’eventuale incidenza della vita matrimoniale sulla situazione attuale”.

Alla luce dei chiarimenti sopra esposti e in applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, i giudici triestini negano all’ex moglie l’assegno divorzile in quanto:

  1. “…non sembra esserci un divario sensibile tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno degli ex coniugi”, poiché:
  • il maggiore reddito dell’ex marito era notevolmente ridotto dagli obblighi di pagamento delle rate di mutuo dell’ex casa familiare nonché dal mantenimento per il figlio;
  • l’ex moglie, oltre a godere di redditi di tutto rispetto, poteva senza dubbio aumentarli mettendo a frutto il suo maggiore tempo libero e le proprie esperienze professionali;
  1. b) manca alcun riferimento significativo “…ad una qualche scelta adottata dopo il matrimonio, che abbia potuto incidere negativamente su eventuali aspettative di progressione in carriera della [omissis]”, così come che “…abbia consumato un ruolo esclusivamente o prevalentemente all’interno della famiglia”.

 

4) Tribunale civile di Nuoro, sentenza del 23 ottobre 2018.

Da ultimo, il Tribunale civile di Nuoro, nella recente pronuncia in oggetto, riconosce invece il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie in considerazione:

  • del chiaro divario economico esistente tra gli ex coniugi;
  • della prova offerta dalla richiedente “…di aver significativamente contribuito alla formazione del patrimonio personale del marito, si provvedendo al pagamento (quanto meno in parte) del mutuo contratto per la edificazione della casa familiare tramite le proprie risorse personali…”;
  • della durata ventennale del matrimonio sino alla separazione (e di 29 anni al momento della pronuncia della sentenza di divorzio);
  • della mancanza di mezzi adeguati della richiedente, alla luce del suo modesto reddito da lavoro (circa 997 euro al mese), della circostanza che non fosse proprietaria di beni immobili e, non da ultimo, della circostanza che, non essendo i figli oramai maggiorenni, economicamente sufficienti e non più conviventi con la madre, la stessa “perdendo la disponibilità della casa familiare sinora a lei assegnata ma di proprietà del marito, inoltre, essa sarà costretta a sostenere ulteriori oneri per reperire un immobile da condurre in locazione”.

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[:it]a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4Il primo agosto 2018, nel pieno dell’estate, è giunto in Senato il disegno di legge n°735 del 2018, c.d. DDL “Pillon”, dal nome del suo primo firmatario. Il disegno di legge si pone l’obiettivo di modificare radicalmente il diritto di famiglia, partendo dalla ripartizione paritetica dei tempi di permanenza dei figli, sino alle sue conseguenze in punto di assegno di mantenimento e di assegnazione della casa familiare.

Le origini europee del DDL

Nella relazione al DDL Pillon sono presenti diversi richiami alla risoluzione n°2079 del 2015 del Consiglio d’Europa, rubricata “Equality and shared parental responsibility: the role of fathers” (equità e responsabilità genitoriale condivisa: il ruolo dei padri), e che rappresenta la pietra miliare in Europa della necessità di garantire tempi paritetici dei figli con entrambi i genitori.

Detta risoluzione, di cui l’Italia è firmataria, afferma infatti:

  • che la separazione di un genitore dal figlio ha effetti irrimediabili sulla loro relazione e, pertanto, la stessa dovrebbe essere ordinata esclusivamente dall’autorità giudiziaria e solo in casi eccezionali configuranti un rischio grave per l’interesse della prole[1];
  • che una responsabilità parentale condivisa aiuterebbe a superare gli stereotipi di genere relativi ai ruoli ricoperti dall’uomo e dalla donna nella famiglia, riflettendo pertanto i cambiamenti sociologici che hanno preso piede negli ultimi 50 anni[2];
  • contiene infatti l’espresso invito agli Stati membri ad assicurare l’effettiva eguaglianza tra genitori anche attraverso la promozione della c.d. “shared residence”, definita quale “…forma di affidamento in cui i figli dopo la separazione della coppia genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre”.

Alla luce delle predette riflessioni, la risoluzione in oggetto, ancorché non vincolante, ha chiamato gli Stati membri ad una serie di adempimenti e novelle legislative, tra le quali:

  • introdurre nei propri ordinamenti il principio della “shared residence” a seguito della separazione, limitando a casi eccezionali di particolare gravità (quali abusi sui minori o violenza domestica), l’adozione di forme alternative[3];
  • incoraggiare e sviluppare la mediazione in tutti i casi concernenti minori[4];
  • incoraggiare accordi tra i genitori al fine di permettere a questi ultimi di determinare essi stessi i principali aspetti relativi alla vita dei figli, consentendo altresì agli stessi minori di poter richiedere una revisione di detti accordi, nella misura in cui abbiano effetti sugli stessi, con particolare riferimento al luogo della loro residenza[5];

Lo scopo

Il DDL in questione, nella visione dei suoi ideatori, mira ad adeguare il diritto di famiglia alle esigenze delle sempre più frequenti famiglie mono o pluri-genitoriali, nate dalle ceneri di precedenti unioni, così come individuate dalla risoluzione n°2079 del 2015 del Consiglio d’Europa.

I firmatari del DDL hanno infatti rilevato come la legge n°54 dell’8 febbraio 2006 e la sua applicazione da parte dei tribunali nazionali abbiano di fatto portato ad un affido “condiviso” solo nella forma e non anche nella sostanza, non potendosi considerare “materialmente” condiviso quello prevedente un collocamento prevalente del minore presso uno dei due genitori con tempi di permanenza presso il genitore non collocatario inferiori al 30%.

Dati alla mano, infatti, emerge che in Italia:

  • la percentuale di affidi di minori c.d. “paritetici” risulti pari ad appena 1-2 %, a fronte di medie superiori al 20% in paesi quali Belgio (20%) e Svezia (28%);
  • quella di affidi “materialmente condivisi” (ovvero con tempi di permanenza presso il genitore non collocatario pari o superiori al 30%), si limiti ad appena il 3-4% dei casi, a fronte di medie superiori al 30% in paesi quali Belgio (30%) e Svezia (40%);
  • quella, di contro, di affidi “materialmente esclusivi”, pari ad oltre il 90%, a fronte di medie inferiori al 50% in paesi quali Belgio (50%) e Svezia (30%).

Le principali novità

Il DDL, in estrema sintesi, mira ad apportare le seguenti significative modifiche al diritto di famiglia così come oggi lo conosciamo.

1) affido condiviso c.d. alternato

Il minore passerà, salvo che non sia contrario al suo interesse, periodi di permanenza pressoché paritetici con ciascuno dei genitori, con conseguente venir meno della figura del genitore collocatario.

2) mantenimento diretto

Quale conseguenza della ripartizione più equilibrata tra i genitori dei compiti genitoriali e del tempo da trascorrere con i figli, cambieranno anche le modalità di mantenimento dei figli. Di fatti, sarà sempre da preferire il c.d. mantenimento diretto al posto della forma indiretta, consistente nel tradizionale assegno da versare al genitore collocatario. È opportuno specificare come il mantenimento diretto riguardi solo le c.d. spese ordinarie, e non già quelle straordinarie, che resteranno ripartite tra i genitori, presumibilmente in misura proporzionale rispetto alle condizioni reddito-patrimoniali dei genitori.

3) venir meno dell’assegnazione della casa familiare

Con la soppressione della figura del genitore collocatario verrà altresì meno l’assegnazione della casa familiare, che resterà nella disponibilità del proprietario. Nei casi, assai frequenti, di case cointestate, si applicherà, pertanto, la disciplina codicistica della comunione di cui agli artt. 1100 e ss. c.c. I minori avranno conseguentemente due residenze, presso le case dei rispettivi genitori.

4) mediatore familiare e coordinazione genitoriale

Viene istituzionalizzata la figura del mediatore familiare, individuandone requisiti, sancendo espressamente l’obbligo di riservatezza, definendo durata e condizioni del procedimento di coordinazione genitoriale, definita come “…processo di risoluzione alternativa delle controversie centrato sulle esigenze del minore, svolta da professionista qualificato, che integra la valutazione della situazione conflittuale, l’informazione circa i rischi del conflitto per le relazioni tra genitori e figli, la gestione del caso e degli operatori coinvolti, la gestione del conflitto ricercando l’accordo tra i genitori o fornendo suggerimenti o raccomandazioni e assumendo, previo consenso dei genitori, le funzioni decisionale”.

A riguardo, rimane da chiarire il ruolo che l’avvocato ricoprirà in sede di mediazione, essendo prevista la sola eventualità della sua presenza e la possibilità che il mediatore, su accordo delle parti, possa “chiedere” agli avvocati di non partecipare agli incontri successivi al primo incontro, salvo poi richiederne la presenza al momento della stipulazione dell’eventuale accordo.

5) piano genitoriale

Il DDl mira altresì a introdurre l’istituto del piano genitoriale, al fine di aiutare “… i genitori a evitare contrasti strumentali e a concentrarsi sulla centralità dei figli…”. Detto strumento, definito quale “…autentico strumento di lavoro sul quale padre e madre saranno chiamati a confrontarsi per individuare le concrete esigenze dei figli minori e fornire il loro contributo educativo e progettuale che riguardi i tempi e le attività della prole e i relativi capitoli di spesa”, dovrà essere puntualmente indicato dai genitori nel ricorso introduttivo. In mancanza di accordo tra i genitori, sarà il Tribunale ad approvare eventualmente il piano non condiviso presentato da uno dei genitori, a modificarlo ovvero ad adottarne uno ex novo “…determinando i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi dovrà contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli sulla base del costo medio dei beni e servizi per i figli individuato su base locale alla luce del costo medio della vita come calcolato dall’ISTAT, individuando le spese ordinarie, le spese straordinarie e attribuendo a ciascun genitore specifici capitoli di spesa, dando applicazione al protocollo nazionale sulle spese straordinarie”.

6) ascendenti

Il DDL, agli articoli 11 e 17, mira altresì a tutelare i rapporti dei minori con i propri ascendenti:

  • consentendo agli ascendenti di “…far sentire la loro voce…” mediante un intervento “ad adiuvandum”, nelle forme di cui all’art. 105 c.p.c.;
  • prevendendo la possibilità per il giudice, su istanza di parte, di adottare provvedimenti volti a conservare “…rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

7) alienazione genitoriale

Il DDL si pone l’obiettivo di contrastare la c.d. alienazione genitoriale, prescindendo da una sua compiuta definizione e dalle polemiche sorte circa la sua esistenza.

In particolare, all’art. 17 è prevista l’applicabilità, con decreto e su istanza di parte, di uno o più provvedimenti ex art. 342 ter e quater, “nell’esclusivo interesse del minore – anche quando – pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori – il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo ad uno di essi”.

I precedenti in Italia

A ben vedere, il Tribunale di Brindisi, già nel 2017, aveva riformato le linee guida della sezione famiglia alla luce proprio dei principi ispiratori del DDL Pillon. Anche il Tribunale pugliese, già un anno fa, aveva fondato dette linee guida sulla presa di coscienza della mai avvenuta applicazione dei principi portanti della riforma introdotta con legge n°54 del 2006, in primis il principio della c.d. bigenitorialità, nonché del pregiudizio che il collocamento prevalente ha non solo sul legame figlio – genitore non collocatario ma anche sulla serena e corretta crescita dei figli.

 Segnali favorevoli all’affidamento alternato si rinvengono anche nel Tribunale di Milano che, già due anni orsono, nella persona del noto magistrato dott. Buffone affermava in un articolo pubblicato sul sito Altalex il 13 luglio 2015 che “…salvo diversi accordi dei genitori, i figli minori hanno diritto a trascorrere pari tempi di permanenza presso l’uno e l’altro genitori a prescindere dalla residenza”.

[1]For a parent and child, being together is an essential part of family life. Parent–child separation has irremediable effects on their relationship. Such separation should only be ordered by a court and only in exceptional circumstances entailing grave risks to the interest of the child”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[2] “…developing shared parental responsibility helps to trascend genter stereotypes about roles supposedly assigned to women and men within the family and is simply a reflection of the sociological changes that have taken place over the past fifty years in terms of how the private and family sphere is organised”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[3] “…introduce into their laws the principle of shared residence following a separation, limiting any exceptions to cases of child abuse or neglect, or domestic violence, with the amount of time for which the child lives with each parent being adjusted according to the child’s needs and interests”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[4] “…encourage and, where appropriate, develop mediation within the framework of judicial proceedings in family cases involving children, in particular by instituting a court-ordered mandatory information session, in order to make the parents aware that shared residence may be an appropriate option in the best interests of the child, and to work towards such a solution, by ensuring that mediators receive appropriate training and by encouraging multidisciplinary co-operation based on the “Cochem model”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[5] “…encourage parenting plans which enable parents to determine the principal aspects of their children’s lives themselves and introduce the possibility for children to request a review of arrangements that directly affect them, in particular their place of residence”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220[:]

[:it]a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4Lo scorso 12 aprile 2018, l’Avvocato Generale (di seguito anche A.G.) presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea, Maciej Szpunar, ha depositato le proprie conclusioni in vista dell’oramai prossima pronuncia della Corte di Lussemburgo sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Suprema Corte di Cassazione bulgara (causa C-338/17 Neli Valcheva c. Georgios Babanarakis.

Il giudizio a quo

La vicenda trae origine da un’intricata vicenda transfrontaliera familiare e dall’impossibilità per una nonna bulgara di intrattenere rapporti significativi con il nipote a seguito del suo trasferimento in Grecia, conseguente all’affidamento esclusivo dello stesso al padre, cittadino ellenico residente in Grecia, disposto dal giudice ellenico, competente in base al criterio della c.d. residenza abituale.

La nonna, in particolare, non essendo riuscita ad ottenere dalle autorità greche misure atte a garantire detto “contatto significativo” con il nipote, adiva il Tribunale distrettuale bulgaro al fine di veder riconosciuto il proprio diritto di visita e determinate le relative modalità di esercizio.

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, ritenendo, tuttavia, applicabile a detta controversia il regolamento Bruxelles II bis, dichiaravano la loro incompetenza ai sensi dell’art. 8 del regolamento medesimo individuando nel giudice ellenico, autorità dello Stato di residenza abituale del minore, l’unico competente a pronunciarsi su siffatta domanda.

La sig.ra Valcheva decideva pertanto di presentare ricorso per Cassazione. La Suprema Corte Bulgara, in qualità di giudice di ultima istanza, nonostante condividesse il pensiero delle Tribunali inferiori, decideva di adire la Corte di Giustizia sottoponendo la seguente questione pregiudiziale: «Se la nozione di “diritto di visita” utilizzata nell’articolo 1, paragrafo 2, lettera a) e nell’articolo 2, punto 10, del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretata in modo da ricomprendervi non solo la visita del minore da parte dei genitori, bensì anche la visita da parte di altri parenti distinti dai genitori, quali i nonni».

Il ragionamento dell’A.G.

Apprezzabile è il ragionamento tenuto dall’avvocato generale, il quale, preliminarmente, sottolinea l’impossibilità di scorporare la questione “internazionalprivatistica” relativa all’applicabilità o meno del citato regolamento Bruxelles II bis, da un’analisi della questione fondamentale ad essa sottesa: “…l’importanza per un minore di intrattenere rapporti personali con i propri nonni, nei limiti in cui tali contatti non siano contrari al suo interesse”, letta alla luce del primato che il superiore interesse del minore deve sempre ricoprire in qualsivoglia controversia lo riguardi.

L’avvocato Generale, pertanto, opera un’analisi testuale, storica e teleologica del regolamento n°2201/03 al fine di chiarire se esso concerna non solo il diritto di visita dei genitori ma anche degli altri membri della famiglia, anche allargata:

  • partendo dal dato testuale, l’avvocato Szpunar pone in evidenza come l’art. 2, punti 7, 8 e 10 del citato regolamento, utilizzi espressioni e formule volontariamente generiche – quali “i diritti e i doveri”, “qualsiasi persona, “in particolare” – che testimonierebbero “…la volontà del legislatore dell’Unione di optare per una definizione ampia del diritto di cui trattasi” con la conseguenza di poter ritenere che “…il regolamento n. 2201/2003 includa anche un diritto di visita distinto da quello concesso dal diritto nazionale a uno dei due genitori (la madre, nel caso di specie) e se, di conseguenza, l’esercizio di tale diritto possa essere richiesto anche da terzi, come i nonni”;
  • passando ad un’interpretazione teleologica delle disposizioni del regolamento in parola, l’A.G. evidenzia come, nonostante la pacifica l’assenza di disposizioni specifiche relative al diritto di visita di un nonno, non sussista nel regolamento alcuna lacuna normativa in quanto “…dagli obiettivi del regolamento n. 2201/2003 emerge chiaramente che nulla giustifica l’esclusione del diritto di visita dall’ambito di applicazione di tale regolamento qualora il richiedente il diritto di visita sia una persona diversa dai genitori, avente legami familiari di diritto o di fatto con il minore, come nel caso di specie”;
  • detto pensiero risulterebbe poi confermato da un’interpretazione storica delle disposizioni del regolamento, lette alla luce dei lavori preparatori, nonché da un lettura congiunta dello stesso con gli altri strumenti internazionali concernenti le relazioni personali con i minori, quali la Convenzione dell’Aja del 1996;
  • da ultimo, l’avvocato generale pone in evidenza come anche questioni di opportunità e di economia processuale rendano certamente preferibile concentrare la competenza giurisdizionale sul giudice dello Stato di residenza abituale del minore, al fine di evitare provvedimenti conflittuali e contrasti di giurisdizione.

In conclusione, L’A.G. ritiene pertanto che nulla osti a ricomprendere nella nozione di diritto di visita, di cui al regolamento 2201/2003/CE “…persone diverse dai genitori ma aventi legami familiari di diritto o di fatto con il minore (in particolare, sorelle o fratelli, oppure l’ex coniuge o l’ex partner di un genitore). Infatti, tenuto conto delle costanti trasformazioni della nostra società e dell’esistenza di nuove forme di strutture familiari, le possibilità, riguardo alle persone interessate dall’esercizio del diritto di visita ai sensi del regolamento n. 2201/2003, potrebbero essere numerose. Il caso dell’ex partner del genitore titolare della responsabilità genitoriale e, conseguentemente, dei genitori di detto ex partner – considerati dal minore come nonni – o, ancora, il caso di una zia o di uno zio incaricati, nell’assenza temporanea di uno o di entrambi i genitori, di occuparsi del minore sono soltanto alcune illustrazioni con le quali la Corte potrebbe eventualmente confrontarsi nel contesto dell’interpretazione del regolamento in parola”.

L’avvocato della Corte è tuttavia chiaro nell’affermare che, se da un lato è quanto mai essenziale “…disporre di una regola di competenza unica e uniforme, vale a dire quella delle autorità dello Stato membro della residenza abituale del minore, al fine di garantire il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni pronunciate nei vari Stati membri”, dall’altro spetterà solo ed unicamente al legislatore nazionale chiarire “…a chi sarà – o meno – concesso un diritto di visita”.

In conclusione

Le conclusioni testè analizzate senza dubbio rappresentano un passo in avanti verso la tutela del diritto di visita degli ascendenti e/o discendenti nonché dei membri delle sempre più frequenti famiglie allargate; questo non solo per il dato probabilistico dell’allineamento della Corte al pensiero del suo A.G., circostanza questa che statisticamente avviene nella maggioranza assoluta dei casi.

Occorre tuttavia sottolineare l’importante ruolo che conserva il legislatore nazionale nell’individuazione dei familiari a cui tale diritto di visita possa essere riconosciuto con conseguente possibile frustrazione di legittime pretese a fronte della divergente disciplina sostanziale in vigore nello Stato di residenza abituale del minore.

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separazione-e-soldi_smallI matrimoni di comodo sono una realtà mai passata. Di recente, la Suprema Corte è stata investita di una rocambolesca vicenda che ha visto come protagonisti due novelli sposi, convolati a nozze per questioni economiche. Lui, alto ufficiale statunitense, aveva beneficiato di importanti gratifiche economiche riconosciutegli a seguito del matrimonio, mentre la moglie, durante il matrimonio, si era fatta consegnare dal marito oltre 110.000,00 dollari e vari assegni post datati.

Dopo appena 28 giorni di matrimonio, i due decidono di promuovere dinnanzi al Tribunale civile di Genova ricorso per separazione giudiziale con reciproca richiesta di addebito.

Il giudice di primo grado, investito della questione, pur pronunciando la separazione, respingeva sia le richieste di addebito che la domanda di assegno di mantenimento presentata dalla moglie.

Detta ultima statuizione veniva altresì confermata dalla Corte d’Appello di Genova, che, in particolare, rigettava della domanda di assegno alla luce della brevissima durata del matrimonio, di appena 28 giorni, e la conseguente mancata instaurazione di una reale comunione materiale e morale tra i coniugi.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’ex moglie, tuttavia, ricorreva avverso detta pronuncia dinnanzi alla Suprema Corte deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., sostenendo che la breve durata del matrimonio, così come la mancata instaurazione di una convivenza sarebbero irrilevanti al fine di escludere il suo diritto all’assegno di mantenimento. A sostegno di detta tesi, la ricorrente cita la recente sentenza n°1162 dell’8 gennaio 2017 con cui la Suprema Corte avrebbe statuito che “…alla breve durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi, rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti mentre, alla durata del matrimonio può essere attribuito rilievo ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento”.

Di diverso avviso si rivelano gli Ermellini, ad avviso dei quali la Corte d’Appello avrebbe correttamente rilevato l’esistenza di un’ipotesi eccezionale di esclusione del diritto all’assegno di mantenimento: la mancata realizzazione, al momento della separazione, alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi.

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[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, SS.UU., con ordinanza 5 giugno 2017, n. 13912, si è pronunciata sul ricorso ex art. 41 c.p.c. presentato dalla resistente in un ricorso per la modifica della condizioni di separazione.

In particolare, l’ex moglie, costituitasi in giudizio aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, essendosi la stessa trasferita negli USA da oltre due anni unitamente alla figlia.

Con decreto del 28 ottobre 2015, tuttavia, il presidente del Tribunale adito non aveva condiviso l’eccezione della resistente “perché il provvedimento di modifica delle condizioni della separazione aveva natura “integrativa” di quello di separazione, in relazione al quale la signora (OMISSIS) aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano” disponendo pertanto la comparizione personale delle parti.

Di qui la presentazione da parte dell’ex moglie di un ricorso ex art 41 c.p.c. alla Suprema Corte:

  1. deducendo la violazione dell’art. 12 del regolamento UE n°2201/2003 (c.d. Regolamento “Bruxelles II bis, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000), in quanto “l’accettazione della giurisdizione del giudice italiano nel procedimento di separazione sarebbe stato erroneamente riferito – nel corso dello stesso – anche al successivo procedimento di revisione, laddove la norma teste’ richiamata, al n. 2, lettera b), prevede che “la competenza esercitata ai sensi del paragrafo 1 (domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio”), cessa non appena la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio sia passata in giudicato”;
  2. deducendo l’omesso esame del trasferimento de facto della residenza abituale del marito nel luogo in cui lo stesso esercitava la propria attività commerciale;
  3. censurando l’interpretazione e la legittimità dell’ 37 della l. n°218/1995, attributiva della competenza giurisdizionale italiana “…anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia”, nella parte in cui non riconosce primazia alla residenza abituale del minore, criterio consacrato nei regolamenti internazionalprivatistici dell’Unione europea e in varie convenzioni internazionali.

La Corte, investita della questione, preliminarmente afferma:

  • la ricevibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c. in quanto “ … la mera delibazione, in via incidentale, in ordine al tema della giurisdizione, contenuta in un provvedimento che, come chiaramente si desume anche dalla parte dispositiva, ha carattere meramente istruttorio ed è quindi privo di natura decisoria – essendo per altro nella specie ogni pronuncia riservata al collegio e non al presidente del tribunale – non può ritenersi preclusiva della proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione”(sul punto Cass., Sez. U, 20 febbraio 2013, n. 4218; Cass., Sez. U., 27 novembre 2011, n. 22382).
  • l’irrilevanza dei provvedimenti assunti nel giudizio a quo successivamente alla proposizione dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, da ritenersi condizionati alla conferma del potere giurisdizionale dell’autorità che li ha pronunciati.

Entrando nel merito, poi, gli Ermellini:

  • ribadiscono l’autonomia esistente tra il giudizio di separazione e il giudizio volto alla modifica delle condizioni ivi determinate;
  • negano conseguentemente che l’accettazione della giurisdizione italiana da parte della ricorrente nel giudizio di separazione personale possa riverberare “…la sua efficacia anche nel giudizio di revisione”;
  • affermano che “…il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla c.d. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore (Corte giustizia, 5 ottobre 2010, in causa 296/10), assume una pregnanza tale da comportare anche l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione” (Cass., Sez. U, 30 dicembre 2011, n. 30646);
  • affermano che, poiché la richiesta di revisione da parte dell’ex marito verteva unicamente sull’affidamento allo stesso della minore, avente doppia cittadinanza italiana e statunitense, detta doppia cittadinanza rende applicabile il principio, già affermato dalle SS.UU. con sentenza del 9 gennaio 2001, n°1, secondo cui “…ai fini del riparto della giurisdizione e della individuazione della legge applicabile, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta; pertanto quelli che, pur incidendo sulla potestà dei genitori, perseguono una finalità di protezione del minore, rientrano nel campo di applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 42, il quale rinvia alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961. Invero nel caso di minore con doppia cittadinanza non può applicarsi l’articolo 4 della Convenzione, che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale”.

Alla luce dei suddetti principi, la Corte conclude affermando il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice della residenza abituale della minore in quanto:

  • “…sotto il profilo oggettivo, del richiamo della citata L. n. 218 del 1995, articolo 42 all’articolo 1 della richiamata Convenzione dell’Aja, anche con riferimento alle misure relative ai figli minori che vengono adottate in sede di separazione personale o di divorzio dei genitori, trova giustificazione nella circostanza che l’Italia non si è avvalsa della facoltà, prevista dall’articolo 15 della Convenzione stessa, di creare una competenza speciale per le misure attinenti ai minori”.
  • “…il parametro della residenza abituale, posto a salvaguardia della continuità affettivo relazionale del minore, non è in contrasto ma, al contrario, valorizza la preminenza dell’interesse del minore” (Cass. SS.UU, 19 gennaio 2017, n°1310 e Cass., 22 luglio 2014, n°16648).

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