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Colpevole di aver offeso la reputazione della moglie del suo amante, denigrandola per problemi di salute che aveva attraversato, raccontando particolari intimi della sua vita coniugale, che l’uomo, come egli stesso ha ammesso durante il processo, le ha confidato durante la loro relazione.

La diffamazione è avvenuta sulla pagina Facebook che portava il suo nome nonostante poi durante il giudizio avesse dichiarato che non era stata lei. Ma nessuna denuncia aveva mai presentato alle autorità competenti per dimostrare che era a conoscenza del fatto che le avessero “rubato” l’account.

Si chiude così un vero e propio incubo per una donna che si è ritrovata in tribunale per dieci anni, in tre gradi di giudizio, dove è stata riconosciuta per tre volte “vittima” di un’altra donna che, rendendola riconoscibile, ha raccontato dettagli intimi della sua vita privata e matrimoniale su Facebook.

Colpevole del reato di diffamazione, perseguito penalmente, è una quarantenne, della medesima cittadina, che dovrà affrontare anche un altro processo, quello civile, che prevede anche il risarcimento del danno.

A quanto pare il risentimento della donna nei confronti della sua “vittima” era dettato dal fatto che ella avesse chiesto “in giro” informazioni sulla donna che aveva una relazione con il marito.

La 40enne, la cui colpevolezza è stata ora dichiarata dalla Corte di Cassazione, ha scritto su Facebook particolari che hanno offeso, denigrato e diffamato un’altra donna, raccontando addirittura di un aborto che aveva subito, così come le aveva raccontato il suo amante, oltre che facendo insinuazioni sulla condotta di vita, sul fatto che come “madre di famiglia” si ubriacasse e mostrasse “le mutande in pubblico”.

Ora la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la condanna alla pena di quattro mesi di reclusione, a carico della dipendente di banca di Avezzano, difesa in giudizio dall’avvocato Giuseppe Montanara, del Foro di Roma, per il reato di diffamazione aggravata, commesso ai danni di un’avezzanese sostenuta in tribunale dall’avvocato Crescenzo Presutti.

La 40enne, a partire dal mese di agosto del 2011, aveva pubblicato sul profilo personale della propria pagina Facebook una sorta di una lettera “aperta”, intitolando la pubblicazione con la seguente espressione:

“Informazioni di base –Informazioni su (…)”. Il testo, nel corso dei mesi successivi, era stato ripreso e integrato a più riprese, rimosso e poi ripubblicato a partire dal 19 novembre 2011, con un nuovo titolo, “AMICI MIEI ATTO SECONDO”, e continuamente rimaneggiato con sempre maggiori contenuti offensivi, con pubblicazioni fino al 20 febbraio 2012.

Per questi fatti era stata rinviata a giudizio davanti al Tribunale di Avezzano per rispondere del reato di diffamazione ed era già stata condannata nel 2018. Condanna poi confermata dalla Corte di Appello dell’Aquila.

La Corte di Cassazione nel confermare di nuovo la condanna inflitta nei precedenti gradi di giudizio ha stabilito che l’imputata potrà beneficiare della sospensione condizionale della pena solo con il pagamento dei danni subiti dalla vittima e l’ha condannata al pagamento delle spese legali di tremila euro, oltre a quello di altri tremila euro in favore della cassa delle ammende.

Già in primo grado, il Tribunale di Avezzano aveva condannato l’imputata al pagamento di una provvisionale di 2mila euro in favore della parte civile e alle spese legali liquidate in 1.800 euro mentre la Corte di Appello l’aveva condannata al pagamento di ulteriori duemila euro.

Complessivamente oltre ai quattro mesi di reclusione la 40enne dovrà sborsare una somma di oltre 15mila euro che potrebbe ulteriormente lievitare in caso di ulteriore condanna dinanzi al giudice civile.

I magistrati della quinta sezione penale, nel confermare le decisioni dei precedenti gradi di giudizio, hanno respinto il ricorso dell’imputata che aveva sempre sostenuto la propria innocenza per due motivi: la mancata di indicazione del nominativo della persona offesa e la omessa verifica, da parte degli organi inquirenti, dell’indirizzo IP associabile al profilo avente il nickname dell’imputata e nel reperimento dei cosiddetto filedilog, questi ultimi contenenti tempi e orari della connessione.

Il Tribunale e la Corte di Appello dell’Aquila, invece, avevano ritenuto che la paternità del messaggio diffamatorio fosse sufficientemente provata e addebitabile all’imputata e che la destinataria delle offese fosse la moglie del suo amante, sulla base di alcuni indizi ritenuti gravi e concordanti: – la denuncia della persona offesa con l’allegazione delle stampe della pagina social su cui erano contenute le espressioni incriminate; – la denominazione del profilo, riportante proprio il nome e cognome; – la natura dell’argomento trattato nei post incriminati riferibili comunque all’imputata;  – la circostanza che non risultasse che la stessa avesse mai lamentato che altri avessero usato il suo nome e cognome abusivamente, né avesse mai denunciato alcuno per furto di identità.

Per i giudici, l’esatta individuazione dell’indirizzo IP relativo al profilo da cui sono state divulgate le espressioni diffamatorie non è quindi elemento imprescindibile per giungere ad una corretta individuazione, ai fini della punibilità, dell’autore del reato di diffamazione commesso a mezzo Facebook.

Nel processo penale la riconducibilità delle espressioni diffamatorie contenute su Facebook al loro effettivo autore e quindi la “rimproverabilità” per il reato diffamatorio, non prevede quale elemento essenziale l’identificazione dell’indirizzo IP e dei file e nemmeno che sia espressamente indicato il nome della persona offesa, potendosi risalire comunque al destinatario delle offese attraverso le testimonianze di coloro che, leggendo lo scritto offensivo, lo reputino riconducibile alla persona offesa.

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[:it]_86135137_polizeiA distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore del Regolamento 679/2016/UE del Parlamento e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, il Tribunale di Mantova si è pronunciato su un’interessante questione che coinvolge sempre più genitori e figli: privacy e social media.

La vicenda trae origine da un ricorso dinnanzi al Tribunale civile di Mantova da un padre per la revisione delle condizioni di affido e mantenimento di due figli minori in tenera età (rispettivamente tre anni e mezzo e due anni e mezzo), entrambi residenti con la madre. Nelle more del giudizio i genitori raggiungevano un accordo, inserendo tra le condizioni l’espresso l’obbligo a carico della madre di cancellare le innumerevoli fotografie dalla stessa “postate” sul suo profilo Facebook e di non pubblicarne di nuove. A seguito della mancata cancellazione delle foto il padre si rivolgeva al giudice chiedendo di inibire l’ex compagna dall’inserire altre foto dei figli sui social network e di rimuovere immediatamente quelle già presenti.

Il Tribunale dà ragione al marito, ordinando alla madre la pronta rimozione di ogni foto, con un’interessante motivazione basata non solo sulla violazione dell’espresso accordo raggiunto sul punto dai genitori ma soprattutto sull’interesse superiore dei bambini e sui pregiudizi che potrebbero derivare loro dalla circolazione di detto materiale in rete.

Osserva, infatti il Tribunale che:

  • dal momento che le fotografie dei minori devono considerarsi dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 (normativa in punto di privacy) e la loro diffusione integra un’illecita “…interferenza nella loro vita privata”;
  • le continue fotografie dei figli postate dalla madre sui social, in violazione degli accordi raggiunti con il padre e contro la volontà di quest’ultimo, integrano la violazione:
    1. dell’art. 10 c.c., che tutela il diritto all’immagine;
    2. del combinato disposto degli articoli 4,7,8 e 145 del d.lgs. 196/2003 nonché degli articoli 1 e 16, co. 1, della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo;
    3. l’art. 8 del neo- adottato regolamento 679/2016/UE, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio 2018.
  • la presenza di foto dei minori sui social media costituisce altresì un comportamento potenzialmente pregiudizievole per gli stessi dal momento che “…determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia”.

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