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La Suprema Corte, con la sentenza in oggetto, ha chiarito che, ai sensi dell’art. 143, comma 3° Cod. Cons. sussiste una presunzione iuris tantum della sussistenza dei difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, già da tale data, salvo che l’ipotesi in questione sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità.

 

I fatti di cui è causa

Una coppia conveniva in giudizio una ditta da cui avevano acquistato un’autovettura usata, lamentando la manifestazione di vizi occulti a distanza di tre mesi dalla consegna, regolarmente denuncianti e non riparati, chiedendo pertanto il rimborso dei costi di riparazione e delle somme corrisposte per il noleggio di un’auto sostitutiva nonché il risarcimento dei danni subiti per il relativo disagio.

Il Tribunale di Larino, tuttavia, rigettava la domanda aderendo alle prospettazioni della convenuta, ad avviso della quale il veicolo, al momento della consegna, sarebbe stato perfettamente funzionante e il vizio sarebbe dipeso da un uso anomalo del mezzo e alla sua carente manutenzione da parte degli attori.

La sentenza veniva confermata anche dalla Corte d’Appello di Campobasso in data 22.6.2017, ad avviso della quale:

  • gli attori avevano provato la presenza dei vizi solo a distanza di tre mesi dalla consegna del veicolo ma non anche al momento della consegna;
  • dalle deposizioni testimoniali era emerso che l’autovettura al momento della vendita fosse perfettamente funzionante;
  • gli attori avevano ammesso un uso eccezionale ed anomalo del mezzo, avendo percorso oltre 140.000 km in pochi mesi.

Il ricorso per cassazione

La coppia, lungi dal darsi per vinta, ricorre sino in Cassazione, lamentando la mancata applicazione della disciplina più favorevole contenuta del codice del consumo in luogo di quella codicistica in punto di compravendita.

La Suprema Corte accoglie il ricorso offrendo i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • il Legislatore ha assegnato un ruolo sussidiario alla disciplina codicistica relativa alla compravendita, applicabile limitatamente a quanto non previsto dalla normativa speciale contenuta nel codice del consumo (art. 128 e segg.);
  • dal combinato disposto degli artt. 129 e ss. cod. cons. e degli artt. 1490 e ss. del codice civile (in tema di garanzia per i vizi dei beni oggetto di vendita) si desume una responsabilità del venditore nei riguardi del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene allorché tale difetto si palesi entro il termine di due anni dalla predetta consegna e lo speculare diritto del consumatore di esperire “…i vari rimedi contemplati all’art.130 cit., i quali sono graduati, per volontà dello stesso legislatore, secondo un ben preciso ordine: costui potrà in primo luogo proporre al proprio dante causa la riparazione ovvero la sostituzione del bene e, solo in secondo luogo, nonché alle condizioni contemplate dal comma 7, potrà richiedere una congrua riduzione del prezzo oppure la risoluzione del contratto”;
  • a tal fine, il consumatore ha l’onere di denunciare al venditore il difetto di conformità nel termine di due mesi decorrente dalla data della scoperta di quest’ultimo;
  • ai sensi dell’art. 143, comma 3° Cod. Cons. sussiste una presunzione iuris tantum che i difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, siano sussistenti già a tale data, salvo che l’ipotesi in questione sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità;
  • a ciò consegue che, “…ove il difetto si manifesti entro tale termine, il consumatore gode di un’agevolazione probatoria, dovendo semplicemente allegare la sussistenza del vizio e gravando conseguentemente sulla controparte l’onere di provare la conformità del bene consegnato rispetto al contratto di vendita”;
  • solo una volta che sia decorso il predetto termine di 6 mesi, è posto nuovamente sul consumatore, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare la presenza ab origine del difetto nel bene.

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La Suprema Corte, con la sentenza in commento, chiarisce che la differenza di tonalità di colore del bene acquistato non integra la fattispecie della vendita aliud pro alio, bensì un difetto di conformità di lieve entità, con conseguente diritto per il consumatore di richiedere, senza spese, il ripristino della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero una riduzione adeguata del prezzo (ai sensi dell’art. 130 del Codice del Consumo) ma non la risoluzione del contratto.

Il caso

Un consumatore ricorreva vittoriosamente al Giudice di Pace di Milano lamentando la consegna di un divano con caratteristiche – tessuto e tonalità di colore – diverse rispetto a quelle richieste, chiedendo la risoluzione del contratto di compravendita per vizi della cosa venduta.

Il Tribunale di Milano, in sede di gravame, riformava tuttavia la decisione:

  • ritenendo che il compratore avesse accettato la diversa stoffa;
  • ritenendo che la differenza di tonalità di colore costituisse una difformità di lieve entità, a sensi dell’ultimo comma dell’art. 130 cod. cons., dovendosi pertanto escludere il rimedio, eccessivamente gravoso, della risoluzione;
  • rilevando che l’acquirente non aveva chiesto “…la sostituzione del divano, né la restituzione ed avendo proceduto all’alienazione del bene, l’unico rimedio esperibile era la riduzione del prezzo ma, il Pr., costituendosi nel giudizio d’appello, non aveva riproposto tale richiesta, che si intendeva, pertanto, rinunciata”.

Il ricorso per cassazione

Il consumatore decideva di ricorrere sino in Cassazione:

  • ritenendo che la differenza di tonalità un vizio integrasse un’ipotesi di vendita aliud pro alio;
  • affermando di avere, in realtà, richiesto la sostituzione del divano già al momento della consegna “…si da rendere superflua un’ulteriore richiesta di sostituzione”.

Gli Ermellini, tuttavia, rigettano il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni:

  • L’ipotesi di vendita “alitici pro alio” ricorre quando il bene consegnato è completamente diverso da quello venduto, perché appartenente ad un genere differente oppure con difetti che gli impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti” (Cassazione civile sez. II, 24/04/2018, n. 10045)
  • “…la consegna di un divano dello stesso colore ma di tonalità diversa da quella pattuita non costituisce un vizio tale da impedire l’utilizzo del bene secondo la sua destinazione”, bensì un difetto di conformità ex art. 130 cod. cons., con conseguente “…diritto del consumatore a chiedere, senza spese, il ripristino della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto
  • Qualora, però, il difetto di conformità di lieve entità e non sia possibile, o sia eccessivamente oneroso, esperire i rimedi della riparazione o della sostituzione, l’art. 130, ultimo comma, prevede che non sia possibile chiedere la risoluzione del contratto”.

Nel caso di esame, la Suprema Corte ha condiviso la valutazione operata dal Tribunale circa la lieve entità del predetto difetto, basata:

  • sia su un criterio oggettivo, “…in quanto si trattava di diversa tonalità dello stesso colore”;
  • sia sul comportamento del compratore, “…che aveva inviato, subito dopo la consegna, i suoi dati per l’emissione della fattura senza svolgere alcuna contestazione”.

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catturaLa Suprema Corte, con la pronuncia in oggetto, ritorna sul controverso funzionamento del filtro di ammissibilità dell’appello, previsto dall’art. 342 c.p.c. conferma l’inammissibilità del gravame che si limiti a riproporre le considerazioni svolte in primo grado e non individui con esattezza i punti della sentenza oggetto di censura.

Il caso

La vicenda trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale di Torino aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto avverso una sentenza del Giudice di pace per carenza di specificità dei motivi di impugnazione, ex art. 342 c.p.c., in quanto l’appellante:

  • si era limitato a riproporre le considerazioni svolte in primo grado;
  • non aveva neppure individuato con esattezza i punti della sentenza oggetto di censura.

 

Il ricorso per cassazione

A medesima sorte è destinato anche il successivo ricorso per cassazione, con cui il ricorrente si duole della violazione dell’art. 342 c.p.c..

La Suprema Corte, infatti, lo dichiara inammissibile per violazione del principio di specificità e mancato assolvimento dell’onere imposto al ricorrente ex art. 366 c.p.c., rilevando come il ricorso si sia limitato ancora una volta a riprodurre integralmente l’atto di gravame “senza individuare, come suo onere, quali passaggi di detto atto siano – sia pure a suo parere – idonei a confutare la statuizione impugnata, e segnatamente le due decisive carenze accertate dal Tribunale di Torino, segnatamente in merito alla formulazione di specifici motivi di appello, da un lato, ed alla individuazione dei passaggi decisionali di primo grado oggetto delle doglianze, dall’altro”.

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downloadIl caso

Una società propone opposizione avverso un atto di precetto notificatole in forza di un decreto ingiuntivo esecutivo, deducendone la nullità in quanto privo dell’indicazione del provvedimento dichiarativo dell’esecutorietà del provvedimento monitorio.

Il Tribunale, ritenendo sufficiente l’indicazione nel precetto dell’apposizione della formula esecutiva al decreto ingiuntivo non opposto, ha rigettato l’opposizione.

Nel caso esaminato, nell’atto di precetto erano stati indicati il numero, la data e l’autorità giudiziaria che aveva emesso il decreto ingiuntivo, la mancata opposizione e l’apposizione della formula esecutiva, mentre non risultava menzionato, neppure indirettamente, il provvedimento di dichiarazione di esecutorietà del suddetto decreto.

La società intimata, interponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenze del Tribunale deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 645, comma 2, c.p.c., avendo, secondo la prospettazione della ricorrente, il Tribunale errato non rilevando la mancanza della menzione nel precetto del provvedimento dichiarativo dell’esecutorietà del decreto ingiuntivo azionato.

La decisione

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha osservato che:

  • come già affermato dagli stessi giudici di legittimità in altri arresti, l’indicazione nel precetto del provvedimento con cui è stata disposta l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, unitamente a quella dell’apposizione della formula esecutiva, ha la funzione di evitare che il creditore debba procedere alla nuova notifica del titolo, integrando, con finalità di semplificazione, la precedente notificazione effettuata, facendo decorrere il termine per l’opposizione, nel momento in cui l’ingiunzione era ancora priva di efficacia esecutiva (ex multis Cass. civ. n°843 del 15 marzo 1969; Cass. civ. n°12731 del 30 maggio 2007; Cass. civ. n°10294 del 5 maggio 2009);
  • nel caso in cui vengano omesse entrambe le menzioni, l’atto di precetto è nullo in quanto si configurerebbe una situazione simile a quella dell’ipotesi di notifica dell’intimazione non preceduta da quella del titolo e non è suscettibile di sanatoria alcuna, ma solo di stabilizzazione qualora la parte intimata non proponga opposizione nei termini ai sensi dell’art. 617 c.p.c. e la suddetta omissione non è rilevabile d’ufficio;
  • ai fini dell’accertamento della sussistenza nel precetto della duplice menzione non sono richieste prescrizioni formali d’indicazione, dovendosi assicurare la conoscenza dell’ingiunto interpretando il precetto alla luce del principio della conservazione degli atti;
  • l’indicazione nel precetto del provvedimento con cui è stata disposta l’esecutorietà del decreto ingiuntivo e quella dell’apposizione della formula esecutiva, sono menzioni distintamente previste dal legislatore che corrispondono a due diverse attività e garanzie dell’ingiunto: l’una, del giudice, che, dichiarando l’esecutorietà, attesta di aver verificato la regolarità della notificazione e il legale decorso dei termini per l’opposizione, l’altra, del cancelliere, che autorizza il richiedente legittimato all’utilizzo del documento contenente il titolo a fini coattivi, ovvero ad avvalersi, per quello, dell’organo esecutivo.

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