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Il caso

Con sentenza del 4 dicembre 1987, il Tribunale di Taranto dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ponendo a carico del padre il versamento di un contributo al mantenimento delle due figlie sino al termine degli studi universitari.

Nonostante le due figlie della coppia avessero conseguito la laurea e si fossero altresì sposate, rispettivamente nel 1994 e nel 1998, l’ex moglie notificava all’ex marito, in data 3 maggio 2006, un precetto di pagamento per il pagamento del mantenimento relativo agli ultimi 5 anni.

L’ex marito versava spontaneamente l’importo precettato, promuovendo successivamente un giudizio volto alla restituzione di quanto pagato, chiedendo in subordine il risarcimento del danno per appropriazione indebita.

I giudizi di primo e secondo grado

Il Giudice di prime cure, rigettava la domanda restitutoria, accogliendo, di contro, quella subordinata.

La pronuncia veniva impugnata da ambedue i coniugi.

La Corte d’Appello di Lecce, pronunciandosi sui due gravami:

  • rigettava quello del marito, ritenendo infondata la pretesa restitutoria “…sul presupposto che il suo obbligo contributivo fosse venuto meno solo con il provvedimento del Tribunale del 2 maggio 2007 che ne aveva decretato la cessazione a decorrere dal 13 ottobre 2006”;
  • accoglieva, di contro, quello della moglie e rigettava la domanda risarcitoria del marito “…escludendo l’ipotizzata appropriazione indebita sia perché la (moglie) aveva percepito le somme in forza di un titolo giudiziale, sia perché l’ipotizzato danno era riconducibile al comportamento inerte dello stesso (marito) il quale solo nell’ottobre 2006 si era attivato per la modifica delle statuizioni patrimoniali inerenti al divorzio”.

Il ricorso per Cassazione

Avverso detta sentenza ricorreva sino in Cassazione l’ex marito, dolendosi dell’esclusione del carattere indebito, ai sensi dell’art. 2033 c.c., del pagamento “essendo il vincolo obbligatorio, cioè la causa giustificativa del pagamento stesso, cessato quanto meno dal 1994 al 1998”.

Gli ermellini accolgono il ricorso del marito, offrendo i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • sulla base dell’accordo raggiunto dai genitori in sede di divorzio, l’obbligo di mantenimento delle figlie da parte del padre era venuto meno a seguito del conseguimento del diploma di laurea;
  • la circostanza che il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio sia stato introdotto dall’ex marito solo successivamente, “…non impedisce la proposizione dell’azione restitutoria delle somme corrisposte indebitamente, a norma dell’art. 2033 c.c. che ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa”;
  • “…l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio” (in senso conforme Cass. civ. n°11489/2014).

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imagesIl 2017 ha segnato un nuovo anno rivoluzionario nel diritto di famiglia, soprattutto per ciò che attiene ai presupposti per la concessione (an debeautur) e la quantificazione (quantum debeatur) dell’assegno divorzile.

La Suprema Corte, a partire dalla sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ha mutato il suo precedente orientamento, statuendo che la verifica giudiziale sull’an debeatur debba informarsi al “… principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento … [del] la sussistenza delle relative condizioni di legge – ‘mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive’” – “…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”;

Di recente, tuttavia, il Tribunale di Roma, appare aver quantomeno mitigato l’applicazione dei suddetti principi, valutando “la mancanza dei mezzi adeguati” proprio alla luce del divario economico tra i coniugi e dello stile di vita goduto in costanza di matrimonio.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine dal ricorso con cui un facoltoso collega ha chiesto al Tribunale civile di Roma:

  • di pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’ex moglie;
  • di revocare l’assegnazione della casa familiare, di sua esclusiva proprietà, disposta in sede di separazione;
  • di disporre il versamento diretto del mantenimento in favore della figlia, studentessa universitaria residente a Milano;
  • di statuire che nulla era dovuto a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, in quanto la stessa, pur non lavorando, poteva contare su un considerevole patrimonio immobiliare ricevuto in eredità, nonchè di depositi in denaro, pensione e rendite da terreni boschivi.

Si costituiva l’ex moglie, non opponendosi alla pronuncia sullo status, chiedendo:

  • la conferma dell’assegnazione della casa coniugale, in quanto tuttora frequentata dalla figlia in occasione dei suoi soggiorni romani;
  • il versamento in suo favore di un assegno divorzile del considerevole importo di € 13.000,00;
  • il versamento di ulteriori € 1.700,00 a titolo di mantenimento per la figlia, opponendosi al mantenimento diretto della stessa da parte del padre.

La conferma dell’assegnazione della casa familiare

Alla base della richiesta di revoca dell’assegnazione della casa familiare, il ricorrente poneva la circostanza incontestata del venir meno del relativo presupposto, ovvero la permanenza dei figli nella casa familiare, e ciò in quanto:

  • il figlio maggiore, da tempo economicamente autosufficiente, risiedeva stabilmente in Inghilterra;
  • la figlia, anch’essa maggiorenne ma ancora alle prese con l’università, risiedeva stabilmente a Milano, pernottando nella casa familiare unicamente durante i suoi viaggi a Roma, in occasione delle festività e delle visite a parenti e amici.

Il Tribunale romano, tuttavia, rigetta la domanda attorea, confermando l’assegnazione alla madre della casa familiare “…sino alla sopravvenuta indipendenza economica della figlia…” alla stregua delle seguenti motivazioni:

  • dalle dichiarazioni rese in udienza dalle parti era emerso che la figlia, ancorché non residente più a Roma, aveva mantenuto un legame, anche affettivo, con l’abitazione familiare, ivi soggiornandovi durante periodi di vacanza e festività.
  • la ridotta frequenza dei periodi trascorsi a Roma non sarebbe idonea a interrompere detto legame tra la figlia e la casa coniugale, rappresentando quest’ultima per la stessa un “…punto di riferimento nella città e nel quartiere ove è cresciuta”.
  • La conferma dell’assegnazione della casa familiare alla madre avrebbe pertanto “…[al]lo scopo di garantire alla medesima la conservazione dell’ambiente domestico, quale centro di riferimento di consuetudini, affetti ed interessi”.

L’ordine diretto di pagamento del mantenimento in favore della figlia maggiorenne, economicamente non autosufficiente, non risiedente più quotidianamente con i genitori

Il Tribunale accoglie invece la richiesta di pagamento diretto del mantenimento in favore della figlia, proprio in considerazione “…(del)la mancanza di quotidiana convivenza fra madre e figlia giustifica”.

Ad avviso del Tribunale, infatti, “…la circostanza che allo stato la figlia, pur mantenendo lo stabile collegamento sopra detto con la ex casa coniugale assegnata alla madre, sia domiciliata a (omissis) per motivi di studio e faccia rientro a (omissis) dalla madre solo in occasione dei periodi di vacanza, comporta che sia maggiormente opportuno il versamento della somma di euro 1.500,00 direttamente in suo favore da parte del padre e del residuo importo (euro 200,00 mensili) in favore della madre ed in relazione alle spese necessarie, in proporzione al tempo da questa trascorso presso la casa di (omissis) alla gestione di tale immobile”.

Il diritto dell’ex coniuge all’assegno divorzile in considerazione dell’inadeguatezza dei mezzi, a loro volta considerati alla luce del divario economico tra le parti.

Passando poi alla determinazione della spettanza o meno dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, il collegio ripercorre puntualmente l’iter dei giudizi di separazione e di modifica delle condizioni di separazione, analizzando la situazione patrimoniale della resistente, confermando la debenza dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, reputando che la stessa avesse dimostrato “…di non disporre di mezzi adeguati e di non essere in grado di procurarseli per ragioni oggettive”.

Come espressamente ammesso dallo stesso Tribunale, il collegio è arrivato a tale conclusione “…all’esito della valutazione comparativa della complessiva condizione economica delle parti, dalla quale emerge un rilevantissimo divario economico tra le stesse che in alcun modo consente alla resistente, ove non colmato mediante l’assegno in questione di mantenere il medesimo elevato tenore di vita goduto della famiglia durante la convivenza coniugale”.

All’esito della fase istruttoria, era infatti emerso che:

  • il ricorrente, partner di un importante studio legale, vantava una “elevatissima capacità reddituale”, grazie a redditi professionali mensili di circa 30.000,00 euro oltre a immobili e partecipazioni societarie;
  • la resistente, di contro, percepiva un reddito mensile di circa € 1.000,00 a titolo di contributo AGEA per dei boschi siti in Sicilia, era proprietaria di beni immobili per un valore stimato dal C.T.U. di euro 1.827.000,00, disponeva di un fondo pensione e di circa € 80.000,00 su proprio conto corrente bancario.

Ad avviso del Tribunale la corresponsione di un assegno divorzile in favore dell’ex moglie era altresì pienamente conforme a quanto statuito dalla Suprema Corte, la quale, con la succitata sentenza n°11504/17 aveva ribadito: “…la natura assistenziale dell’assegno divorzile e da ciò ha enunciato il principio della “autoresponsabilità economica” degli ex coniugi, quale fondamento della valutazione relativa alla sussistenza del diritto della parte richiedente l’assegno (ad avviso della Suprema Corte infatti nella prima fase prevista dall’art. 5 della legge n. 898/70 e successive modificazioni – quella dell’an debeatur – occorre prescindere, nell’individuare l’adeguatezza o meno dei mezzi del richiedente l’assegno o comunque la sua possibilità di procurarseli, dal parametro del tenore di vita goduto durante la convivenza coniugale e dalla conseguente comparazione delle rispettive condizioni economiche degli ex coniugi e rifarsi piuttosto ad indici specificamente individuali dal giudice di legittimità e concernenti esclusivamente le condizioni del soggetto richiedente quali “1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza … della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.

In particolare, secondo il Tribunale:

  • era indubbio il “…rilevante divario economico tra le parti, tanto dal punto di vista reddituale, quanto da quello patrimoniale”;
  • dall’istruttoria era altresì emerso che la resistente, cinquantacinquenne non aveva mai svolto “…rilevante attività lavorativa nel corso del matrimonio (se non saltuariamente quale restauratrice) e non sembra avere, nonostante le normali condizioni di salute (nulla essendo stato rappresentato in contrario), effettive e concrete possibilità di lavoro personale, peraltro essendosi prevalentemente dedicata nel corso del matrimonio – nell’ambito di un progetto di vita condiviso dagli allora coniugi – al sostegno della brillante carriera del marito ed al soddisfacimento delle esigenze della famiglia e della casa”;
  • il godimento da parte della stessa della casa familiare non poteva essere presa in considerazione in quanto la medesima le sarebbe rimasta assegnata sino all’oramai prossima indipendenza economica della figlia;
  • i redditi derivanti dai contributi AGEA erano appena sufficienti a “provvedere a tutte le esigenze della ex casa coniugale assegnatale”;
  • il patrimonio immobiliare della resistente, ancorché consistente, era inidoneo a produrre elevato reddito da locazione, in quanto un immobile era concesso in comodato d’uso gratuito al padre della stessa; un ulteriore immobile di cui era proprietaria al 20% era abitato per motivi di studi dalla figlia; ulteriori due appartamenti in comproprietà tra i coniugi erano a disposizione per l’utilizzo della figlia; i rimanenti immobili erano ruderi dai quali poteva ricavare non più di € 5.000,00 annui.

Passando poi alla quantificazione del predetto assegno, il Tribunale romano ricorre ancora una volta al raffronto della “…condizione economica complessiva delle parti”, quantificandolo in € 6.500,00 mensili, reputandolo congruo sulla scorta:

  • del predetto divario economico tra i coniugi;
  • del “…l’apporto che ciascuna delle parti ha fornito alla costituzione del patrimonio familiare atteso che se è vero che il nucleo familiare è stato essenzialmente ed egregiamente sostenuto economicamente dal ricorrente in misura largamente prevalente è altrettanto innegabile (e non contestato) che la resistente, fondamentalmente casalinga, abbia provveduto a coordinare la gestione della casa e ad occuparsi della crescita dei figli, dedicandosi con successo alla cura delle relazioni sociali del marito, così fortemente necessaria in relazione alla professione da esso svolta ad elevatissimi livelli”;
  • della rilevante durata del matrimonio.

A sommesso avviso di chi scrive, il ragionamento del Tribunale romano non appare scevro da critiche ponendosi forsanche in contrasto con le linee tracciate dalla Suprema Corte nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ad avviso della quale:

  • il divario economico tra i coniugi entra in gioco non già nella determinazione dell’an debeatur ma esclusivamente nella sua eventuale successiva quantificazione;
  • pertanto a nulla rilevando la circostanza che, in costanza di matrimonio, i superiori redditi dell’ex coniuge avevano permesso un tenore di vita più elevato “…se è accertatoche (il richiedente) è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.

Di contro, il Tribunale appare aver dato peso al fine della determinazione dell’adeguatezza dei mezzi proprio a quel divario economico trai coniugi che in tale sede non dovrebbe affatto essere preso in considerazione.

L’applicazione rigida del criterio dell’indipendenza economica, infatti, avrebbe certamente dovuto condurre il Tribunale a ritenere sufficiente a garantire l’indipendenza economica della signora:

  • la percezione di un reddito certo di oltre € 1.000,00 mensili, somma che consente la sopravvivenza a diversi milioni di nostri concittadini;
  • la titolarità di diritti reali per oltre € 1.800.000,00 euro;
  • una pensione;
  • la disponibilità di € 80.000,00 sul conto corrente.

La sensazione che anima lo scrivente è che il Tribunale romano abbia tentato di lenire la durezza dei principi ribaditi dalla Suprema Corte in considerazione delle particolarità del caso concreto, volendo apprestare tutela a tutte quelle donne ultracinquantenni che abbiano dedicato, di comune accordo, tutta la propria vita alla cura della famiglia e della casa nonché ad una vita di relazioni sociali e che si ritrovino, dopo un’intera vita matrimoniale, a non poter contare sulla solidità economica dell’ex coniuge per poter continuare a condurre il medesimo stile di vita avuto per tutta una vita.

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Welpe im ScheidungskriegChi ha un cane o un animale domestico lo sa, l’amore che si prova per i nostri amici a quattro zampe va oltre l’immaginabile. E quando ci si lascia, aimè, decidere chi e come potrà vedere e tenere con sé l’amato “Fido” sta diventando sempre più motivo di litigio tra gli ex.

Purtroppo queste problematiche non hanno ancora avuto una risposta chiara dal nostro legislatore. Da anni, infatti, è ferma in parlamento una proposta di legge volta ad applicare agli animali domestici la stessa disciplina che il nostro codice prevede per l’affidamento dei figli minori. L’auspicata riforma prevede, infatti, l’introduzione nel nostro codice civile dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”.

Nel mentre crescono le cause promosse dinnanzi ai tribunali da ex che si contendono gli animali domestici. Interessante, a riguardo, è una recente sentenza del Tribunale civile di Roma, n°5322 del 12-15 marzo 2016.

La vicenda sottoposta al giudice romano trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno – il quale, dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, le avrebbe sottratto il suo cane – al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale di Roma, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione del sopra richiamato art. 455 ter c.c..

Ad avviso del Tribunale, inoltre, la proprietà formale del cane non rileverebbe, dovendo il suo affidamento (condiviso ed esclusivo) basarsi solo sul legame d’amore esistente con il/i proprietari e, dunque, sul suo superiore interesse.

 Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;
  • condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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