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[:it]downloadDi recente, l’Avvocato Generale Wathelet, tra i massimi esperti di diritto internazionale privato dell’UE, ha presentato delle interessanti conclusioni all’interno della richiesta di rinvio pregiudiziale presentata dalla Corte Costituzionale della Romania, ritenendo gli Stati membri obbligati a concedere ai coniugi, anche dello stesso sesso, di cittadini UE il permesso a soggiornare permanentemente sul proprio territorio.

Il giudizio a quo

 La vicenda trae origine dalla diniego opposto dalle autorità rumene alla richiesta, presentata da parte di un cittadino rumeno, del rilascio in favore del proprio coniuge – cittadino statunitense con il quale aveva convissuto per 4 anni negli U.S.A., per poi sposarsi a Bruxelles e ritrasferirsi con quest’ultimo in Romania – dei documenti necessari affinché questi potesse ivi lavorare e soggiornare in modo permanente.

Detto diniego veniva motivato sulla scorta del mancato riconoscimento da parte della Romania dei matrimoni tra le persone dello stesso sesso, con conseguente impossibilità, ad avviso delle autorità rumene, di poter concedere al sig. Hamilton il diritto di soggiorno spettante, secondo la Direttiva 2004/38/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, al coniuge di un cittadino UE.

La coppia decide pertanto di proporre ricorso avverso detta decisione, sollevando un’eccezione di incostituzionalità relativa all’art. 277, paragrafi 2 e 4 del c.c. rumeno, ritenendo che “…il mancato riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso conclusi all’estero, ai fini dell’esercizio del diritto di soggiorno, costituisce una violazione delle disposizioni della Costituzione rumena che tutelano il diritto alla vita intima, familiare e privata nonché delle disposizioni relative al principio di uguaglianza”.

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE

La Corte costituzionale, investita della questione, decide pertanto di interrompere il giudizio, sottoponendo alla CGUE le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)   Se il termine “coniuge”, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si applichi a un cittadino di uno Stato che non è membro dell’Unione, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione con il quale egli è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante.

2)   In caso di risposta affermativa, se gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo [2], della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione.

3)     In caso di risposta negativa alla prima questione, se il coniuge dello stesso sesso, proveniente da uno Stato che non è membro dell’Unione, di un cittadino dell’Unione con il quale il cittadino si è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante, possa essere qualificato come “ogni altro familiare” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38 o “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2004/38, con il corrispondente obbligo dello Stato ospitante di agevolare l’ingresso e il soggiorno dello stesso, anche se lo Stato ospitante non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso né prevede qualsiasi altra forma alternativa di riconoscimento giuridico, come le unioni registrate.

4)     In caso di risposta affermativa alla terza questione, se gli articoli 3, paragrafo 2, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione».

Le conclusioni dell’A.G.

Sulla questione ha espresso le seguenti condivisibili valutazioni, l’avvocato Generale Watelet.

Partendo dal dato normativo, il prof. Watelet, afferma che:

  • l’art. 3, par. 1 della Direttiva 2004/38/CE, definisce gli aventi diritto come “…qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché [i] suoi familiari ai sensi dell’articolo 2, punto 2, che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo…”;
  • detta direttiva, di per sé, non consente “…di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore di cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possieda la cittadinanza”;
  • tuttavia, vi sono alcuni casi in cui “…un diritto di soggiorno derivato possa fondarsi sull’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e che, in tale contesto, la direttiva 2004/38 debba essere applicata per analogia...”;
  • ciò accade, in particolare, come già sottolineato dalla CGUE, «…quando, nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante, ai sensi e nel rispetto delle condizioni dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’efficacia pratica dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE impone che la vita familiare che detto cittadino abbia condotto nello Stato membro ospitante possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di un paese terzo. Difatti, in mancanza di un siffatto diritto di soggiorno derivato, tale cittadino dell’Unione sarebbe dissuaso dal lasciare lo Stato membro di cui possiede [la] cittadinanza al fine di avvalersi del suo diritto di soggiorno, ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, in un altro Stato membro, a causa della circostanza che egli non ha la certezza di poter proseguire nello Stato membro di origine una vita familiare con i propri stretti congiunti sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante…»;
  • l’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38/CE “…non contiene alcun rinvio al diritto degli Stati membri per determinare la qualifica di «coniuge”, con la conseguenza di dover dare una nozione di “coniuge”, ai sensi della predetta direttiva, che sia autonoma e uniforme per l’intera Unione, indipendentemente dalla definizione data dai singoli Stati membri;
  • la nozione “evolutiva” di coniuge, recepita dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha portato a ritenere inaccettabile una disparità di trattamento basata unicamente e/o prevalentemente su “…considerazioni relative all’orientamento sessuale delle persone interessate…”, con conseguente necessità di attribuire alla nozione di coniuge ai sensi dell’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38 “…autonoma indipendente dall’orientamento sessuale”.

Sulla stregua di dette premesse, l’avvocato generale conclude, pertanto, affermando che:

«1)  L’articolo 2, punto 2, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE dev’essere interpretato nel senso che la nozione di “coniuge” si applica a un cittadino di uno Stato terzo sposato con un cittadino dell’Unione europea dello stesso sesso.

2)   Gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 devono essere interpretati nel senso che il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione che accompagna detto cittadino nel territorio di un altro Stato membro beneficia in tale Stato di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi, purché quest’ultimo risponda alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettere a), b) o c), di tale direttiva.

L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione ha sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo in occasione di un soggiorno effettivo in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza, le disposizioni della direttiva 2004/38 si applicano per analogia se detto cittadino dell’Unione rientra, con il familiare interessato, nel proprio Stato membro d’origine. In tale ipotesi, le condizioni per la concessione di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo, coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione, non dovrebbero, in via di principio, essere più severe di quelle previste all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.

3)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che è applicabile alla situazione di un cittadino di uno Stato terzo, sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso conformemente alla legge di uno Stato membro, in qualità di “altro familiare” o come “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”.

4)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che:

  • non impone agli Stati membri di concedere un diritto di soggiorno nel loro territorio per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo legalmente sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso;
  • gli Stati membri sono tuttavia tenuti ad assicurarsi che la loro legislazione contenga criteri che consentano a detto cittadino di ottenere una decisione sulla sua domanda di ingresso e di soggiorno fondata su un esame approfondito della sua situazione personale e motivata in caso di rifiuto;
  • sebbene gli Stati membri abbiano un ampio potere discrezionale nella scelta di detti criteri, questi ultimi, tuttavia, devono essere conformi al significato comune del termine “agevola” e non devono privare tale disposizione del suo effetto utile, e
  • il rifiuto opposto alla domanda di ingresso e di soggiorno, in ogni caso, non può fondarsi sull’orientamento sessuale della persona interessata».

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imagesA distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di vigilare e risolvere le problematiche di gestione dei figli in una coppia separata, caratterizzata da un’elevata conflittualità tra coniugi.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge. In particolare, ad avviso del ricorrente, il fallimento del matrimonio sarebbe da addebitarsi all’anaffettività e agli atteggiamenti offensivi che la moglie aveva tenuto tanto nei suoi confronti quanto nei confronti della cerchia parentale. Il marito, inoltre, si lamentava dei comportamenti tenuti dalla moglie, dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli, chiedendo, nonostante l’affido condiviso con collocamento prevalente dei figli presso la madre, la condanna di quest’ultima ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.. La resistente, costituitasi in giudizio, chiedeva a sua volta l’addebito al marito, affermando che l’intollerabilità della convivenza era dipesa unicamente dall’esistenza di una relazione adulterina, nonché l’affido congiunto dei figli con collocamento prevalente presso di lei.

All’esito della fase istruttoria, il Tribunale accoglieva la richiesta di addebito della moglie ritenendo comprovata l’ascrivibilità del fallimento del matrimonio al tradimento del marito non solo dalla perizia investigativa depositata quanto dalla stessa ammissione da parte del ricorrente durante l’udienza presidenziale. Il Tribunale decideva, altresì, di accogliere la domanda di condanna della madre ex art. 709 ter c.p.c. “…atteso che dagli atti emerge come, in più occasioni, la resistente abbia ingiustificatamente frapposto ostacoli alla regolare frequentazione fra il padre e i figli…”.

Passando alla regolamentazione dell’affidamento dei figli, il Tribunale osserva preliminarmente come tanto i Servizi sociali quanto la C.T.U. esperita nel giudizio abbiano evidenziato “…che entrambi i genitori sono in grado di gestire singolarmente i figli e che le difficoltà nelle relazioni (in particolare del padre) dipendono esclusivamente dalla mai sopita conflittualità (presente anche durante la convivenza) fra gli adulti…”.

Il Tribunale decide, tuttavia, che la sola conflittualità tra i coniugi non sia sufficiente per disporre l’affido esclusivo degli stessi a l’uno o all’altro genitore – dando peraltro atto che ambedue i coniugi avevano richiesto l’affido condiviso dei figli – ritenendo non “…positivamente dimostrata l’inidoneità educativa ovvero la manifesta carenza del ricorrente…”, disponendo pertanto l’affido condiviso degli stessi con collocamento prevalente presso la madre “…avendo i figli instaurato un più solido legame affettivo con essa ed essendo costei in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica, come chiaramente emerge dalla consulenza tecnica”. D

A causa della comprovata ed elevata conflittualità tra i genitori e dei comportamenti posti in essere dalla madre e tesi ad ostacolare i rapporti dei ragazzi con il padre, il Tribunale decide, tuttavia, di nominare una figura esterna, il c.d. coordinatore genitoriale o educatore professionale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, incaricandolo all’uopo di:

  1. di monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. di coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • di redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

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downloadCari amici Gengle, ritorniamo oggi su un argomento già trattato appena qualche settimana fa: il venir meno del diritto all’assegno divorzile in caso di nuova convivenza. Di recente, infatti, la Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con ordinanza 5 dicembre 2016 – 8 marzo 2017, n°6009, è ritornata sull’argomento offrendo degli importanti chiarimenti.

La vicenda sottoposta alla Suprema Corte trae origine da una sentenza di divorzio con la quale il Tribunale di Rimini aveva negato ad un’ex moglie il diritto all’assegno divorzile, stante la sua pacifica convivenza con un nuovo compagno.

La donna impugnava la sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Bologna che, accogliendo parzialmente il suo appello, le riconosceva un assegno divorzile, differenziando tra coabitazione e stabile convivenza. Ad avviso dei giudici di secondo grado, infatti, l’ex marito aveva provato unicamente la coabitazione dell’ex moglie con il nuovo compagno ma non anche “…la piena comunione spirituale e materiale…” tra i due.

Questa volta, tuttavia, è il marito a presentare ricorso, questa volta dinnanzi ai giudici della Cassazione, lamentando l’omessa giusta considerazione della comprovata pluriennale convivenza tra i due.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, rileva l’esistenza di un’ipotesi di motivazione meramente apparente, affermando l’assoluta illogicità della distinzione tra mera coabitazione e convivenza more uxorio. Ad avviso della Corte, infatti, una volta comprovata la stabile convivenza – come nel caso di specie, in cui la resistente aveva per giunta da tempo trasferito a casa del compagno la propria residenza anagrafica – non può ragionevolmente porsi sull’ex coniuge obbligato al mantenimento anche “…l’onere di dimostrare il grado di intimità che intercorre tra la coppia”. In altre parole, basta la prova della convivenza con altro uomo per far venir meno il diritto all’assegno divorzile.

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imagesA dirlo è la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°1162 del 18 gennaio 2017.

La vicenda de quo vede come protagonisti una coppia di ultraquarantenni; il marito, imprenditore con uno strabiliante potere economico; la moglie, avvocato, che durante il breve matrimonio aveva sacrificato la propria professione per la cura della casa e per assistere professionalmente il coniuge.

In primo grado, il Tribunale di Roma negava l’assegno di mantenimento alla moglie, sulla scorta della breve durata della vita matrimoniale, appena due anni. La decisione veniva ribaltata in Appello, dove alla moglie veniva riconosciuto un assegno separatizio di € 1.000,00, a fronte della disparità economica esistente tra i coniugi, della perdita da parte della moglie dell’agiatezza “…che le condizioni economiche del marito le avrebbero assicurato ove non fosse intervenuta una separazione”, nonché della difficoltà che la stessa avrebbe certamente incontrato nell’inserirsi nuovamente nella professione forense.

La vicenda approda infine in Cassazione, dove il marito si duole, inter alia, della falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.c. nonché 156 c.p.c. ritenendo che “…la ridottissima durata del matrimonio e l’età dei coniugi, già ultraquarantenni, ognuno con una propria attività lavorativa incardinata, non consentiva nemmeno ipoteticamente l’accoglimento della richiesta dell’assegno di mantenimento, posta che tale attribuzione si sarebbe tradotta in una ingiusta rendita vitalizia per la moglie”.

Di diverso avviso, tuttavia, sono gli Ermellini, che hanno dichiarato infondato il suddetto motivo alla luce dei seguenti condivisibili principio: “…alla durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi…”, potendo tuttalpiù “…attribuirsi rilievo ai fini della concreta quantificazione dell’assegno di mantenimento.

Nel caso di specie, pertanto, la Suprema Corte conferma l’operato dei giudici di secondo grado, riconoscendo all’avvocato il diritto all’assegno separatizio, alla luce della sussistenza degli elementi costitutivi del diritto al mantenimento, “…rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti”.

 

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