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La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con la recente ordinanza n°234/2025 depositata in cancelleria in data 7 gennaio 2025, ha chiarito quali siano i presupposti per la concessione dell’assegno separatizio, evidenziando analogie e differenze rispetto ai presupposti dell’assegno divorzile.

I fatti di cui è causa e i due gradi di giudizio di merito.

Il Tribunale civile di Napoli, dichiarava la separazione dei coniugi addebitandola al marito, rigettando analoga richiesta di addebito mossa da quest’ultimo in danno della moglie, nonché ponendo a carico del marito un gravoso assegno per il mantenimento dei figli e uno separatizio in favore della moglie, a cui veniva altresì assegnata la casa familiare.

Avverso la sentenza del  giudice campano ricorreva in appello il marito, contestando il diritto all’assegno separatizio della moglie e la sua quantificazione, anche in considerazione della mancata prova degli asseriti redditi che lo stesso avrebbe percepito dal proprio lavoro autonomo.

La Corte d’Appello di Napoli rigetta tuttavia il gravame ritenendo:

  • che dalla prova escussa in primo grado non emergono ragioni per addebitare la separazione alla moglie;
  • che il reddito del A.A. non solo derivante da lavoro dipendente ma anche da lavoro autonomo è “certamente capiente” rispetto all’assegno, avendo egli oltretutto ereditato dalla madre la casa di piazza (Omissis) che pur se aggravata da un “temporaneo diritto abitazione in favore dei figli” gli consentirebbe agevolmente se venduta di fare fronte per molti anni a venire degli oneri di mantenimento.

Il ricorso per cassazione

Il coniuge decideva pertanto di ricorrere per cassazione avverso la predetta sentenza lamentando:

  • con il primo motivo “la violazione o falsa applicazione dell’art. 156 c.c., comma 1, essendosi la Corte territoriale limitata ad affermare che la moglie ha redditi assai modesti, trascurando però che l’assegno di mantenimento nella separazione -contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale – non mira a mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma assicura solo un contributo al coniuge economicamente più debole, sempre che, però, lo stesso si sia attivato per la ricerca di un lavoro, e non sia invece rimasto al riguardo del tutto inerte; in tal modo, la moglie ha aggravato ingiustificatamente la posizione debitoria del ricorrente”;
  • con il secondo motivo “il travisamento della prova in relazione all’art 360 n. 5 c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 115 e 132 comma 4 c.p.c. Il ricorrente deduce che la Corte d’Appello ha evidentemente travisato la prova circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti ed in particolare non ha valutato la relazione di consulenza tecnica del dott. C.C. e la documentazione fiscale allegata depositata dal ricorrente nel giudizio di primo grado, affermando sulla base di semplici presunzioni e considerazioni soggettive che esso ricorrente avrebbe un reddito fortemente superiore a quanto emerge dagli atti di causa, non valutando il documentato peggioramento delle sue condizioni economiche patrimoniali, né la effettiva consistenza del suo reddito che è pari ad Euro 1.715,00 mensili; lamenta che il giudice d’appello abbia omesso di valutare la situazione di sovraindebitamento dando valore al tenore di vita passato dei coniugi e allo svolgimento di ulteriore attività lavorativa che non è stata provata”;
  • con il terzo motivo “la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., e la nullità della sentenza in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in quanto il giudice territoriale non si è pronunciato sul motivo di appello relativo all’addebito della separazione posto a carico di esso ricorrente”.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, accoglie tutte e tre le doglianze alla luce dei seguenti condivisibili motivi.

Quanto al primo motivo, la Suprema Corte:

  • censura l’operato della Corte territoriale che, nel valutare la sussistenza dei presupposti per riconoscere il diritto della moglie a percepire un assegno separatizio, si era “limitata ad affermare che la moglie al momento della separazione non lavorava e che ha diritto di conservare l’elevato tenore di vita mantenuto in costanza di convivenza, senza valutare se ella sia in possesso di risorse economiche tra le quali rileva certamente, oltre che l’eventuale patrimonio, anche la capacità lavorativa, da valutarsi in concreto e non in astratto (Cass. n. 24049 del 06/09/2021)”;
  • chiarisce che:
    • il diritto all’assegno di mantenimento è quindi fondato sulla persistenza del dovere di assistenza materiale fintanto che il matrimonio non è sciolto; il principio di parità richiede che tale sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale (Cass. n. 34728 del 12/12/2023 in motivazione)”.
    • l’accertamento del diritto ad esser mantenuti dall’altro coniuge a seguito di separazione non è scisso dalla valutazione che la solidarietà presuppone un rapporto paritario e di reciproca lealtà, incompatibile con comportamenti parassitari diretti a trarre ingiustificati vantaggi dal coniuge separato”;
    • “…anche nelle relazioni familiari valga il principio di autoresponsabilità che è strettamente correlato alla solidarietà; tutte le comunità solidali presuppongono che ciascuno contribuisca al benessere comune secondo le proprie capacità e che nessuno si sottragga ai propri doveri”;
    • ferma la differenza tra assegno di divorzio e assegno di separazione, vi sono alcuni tratti comuni tra i due istituti e tra questi il presupposto che il richiedente sia privo di risorse adeguate”, con particolare riferimento al caso in cui “il richiedente sia dotato di concreta e attuale capacità lavorativa e non la metta a frutto senza giustificato motivo la assenza di adeguati redditi propri non può considerarsi un fatto oggettivo involontario ma una scelta addebitabile allo stesso interessato.
  • ritenendo che “…nella specie la Corte d’Appello di Napoli non ha fatto buon governo di questi principi nell’omettere qualsivoglia indagine sulle capacità lavorative concrete della richiedente assegno e non indagando sulla possibilità che la moglie si procuri redditi diversi, ad esempio da patrimonio, limitandosi ad affermare che la stessa al momento della separazione non lavorava.

Quanto al secondo motivo, la Suprema Corte, censura altresì l’operato del giudice di secondo grado ritenendo solo formalmente apparente la motivazione circa gli ulteriori redditi da lavoro autonomo del marito in quanto a fronte delle contestazioni dell’interessato il quale ha documentato il suo reddito da lavoro dipendente anche con una consulenza di parte, si è limitata a osservare che “come documenta la difesa dell’appellata” il reddito del A.A. è tuttora costituito non solo da proventi di lavoro o dipendente ma anche da introiti da lavoro autonomo ed è un importo complessivo lordo “certamente capiente” per il pagamento di cui è onerato” senza tuttavia offrire contezza delle relative ragioni, e in particolare:

  • senza specificare “né che tipo di lavoro autonomo svolge, su quali prove si fonda l’accertamento dello svolgimento di attività libero professionale e a quanto ammonta il reddito che ne ricaverebbe”;
  • valutando “…quale disponibilità economica l’essere proprietario della casa coniugale assegnata alla moglie” nonostante la predetta abitazione sia stata assegnata alla moglie in sede di separazione, con conseguente incidenza sulla “concreta appetibilità sul mercato di un bene con tale vincolo”.

Gli Ermellini accolgono da ultimo anche la terza censura rilevando che “la Corte d’Appello, limitandosi ad esaminare la domanda di addebito alla moglie, ha omesso effettivamente di pronunciarsi per intero sul motivo di appello, non cogliendone la effettiva portata” e ciò in quanto, nonostante il marito non abbia riportato nelle conclusioni dell’atto di appello la richiesta di addebito, “…tuttavia la parte dell’atto d’appello che egli trascrive è più che sufficiente a fare ritenere che egli abbia proposto detta questione, rendendo evidente che il suo obiettivo non era quella di ottenere una sentenza di addebito reciproco bensì una sentenza di addebito in via esclusiva alla moglie, e ponendo quindi una questione non adeguatamente esaminata dalla Corte d’Appello la quale si è limitata ad affermare che i litigi di cui aveva riferito il teste Stara non avevano avuto incidenza casuale sulla fine del rapporto e a richiamare, quanto alla incidenza causale dei comportamenti del A.A. una valutazione, resa da una teste nel giudizio canonico, e non fatti oggettivi. Si tratta quindi di una valutazione parziale che non tiene conto della complessiva esposizione del motivo di appello”.

[:it]Woman sitting on doorstep using phone

In questi anni è diventata sempre più comune la produzione “disinvolta” nei giudizi di separazione della corrispondenza scambiata dall’ex coniuge con l’amante – ottenuta di solito accedendo abusivamente allo smartphone del marito o della moglie – al fine di comprovare il tradimento e ottenere così l’addebito  nonostante la predetta condotta sia idonea ad integrare il reato di accesso abusivo a sistema informatico (specie se la relazione coniugale era già entrata in crisi, cfr. Cass. pen., sez. V^, sentenza n°2905/2019) e quello di cui all’art. 616 c.p. (violazione o sottrazione della corrispondenza, cfr. Cass. pen., sez. V^, sentenza n°18462/2016).

Il giudice della famiglia, tuttavia, ha dimostrato negli anni di essere sempre più incline a riconoscerne l’utilizzabilità ai fini dell’addebito nei giudizi di separazione.

Il caso

A riguardo, si segnala un recente giudizio di separazione tra coniugi, in cui la moglie ha chiesto al Tribunale civile di Velletri di pronunciare l’addebito della separazione all’ex marito sulla base proprio degli scambi whatsapp con l’amante, rinvenuti dalla moglie sul cellulare del coniuge e prodotti in giudizio.

Il Tribunale, pronunciandosi sull’addebito, ha preliminarmente ricordato:

  • che “….in punto di diritto la pronuncia di addebito della separazione presuppone l’accertamento da parte del giudice non solo, ovviamente, del comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi ai doveri coniugali, ma anche che tale violazione abbia causato la crisi matrimoniale e che sussista, pertanto, un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza, condizione presupposta per la pronuncia di separazione” (cfr. Cass. sez. 1, n. 279 del 12/01/2000; n. 23071 del 16/11/2005; n. 9877 del 28/04/2006; n. 18074 del 20/08/2014; sez. 6-1, ord. n. 3923 del 19/02/2018);
  • che “La pronuncia di addebito postula, quindi, in ogni caso, l’accertamento che il comportamento contrario ai doveri coniugali abbia causato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (Cass. Sez. I, 20/08/2014, n. 18074) mentre non può operare nei casi in cui emerga che il rapporto sia già compromesso per incompatibilità caratteriale o altre cause, poiché in questo caso la condotta è conseguenza e non causa della crisi coniugale già in atto”.
  • “…corollario di questi principi, e del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., la giurisprudenza è altrettanto consolidata nel ritenere che «grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà»” (così Cass. sez. 6-1, ord. n. 3923 del 19/02/2018; conforme sez. 1, sent. n. 2059 del 14/02/2012).

Passando al merito, il Tribunale ha ritenuto comprovati sia l’anteriorità della relazione adulterina che il nesso di causalità intercorrente con l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza sulla base degli scambi whatsapp prodotti dalla moglie tra il marito e l’amante, la quale, escussa come teste, aveva “…confermato la riconducibilità a sé dei messaggi Whatsapp intercorsi nell’agosto 2016 con [nome amante] in cui riferisce la esistenza della relazione antecedentemente alla convivenza con il  [nome marito] stesso”.

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kate-separatedIl Tribunale civile d’Ancona, si è recentemente pronunciato su una delle questioni più comuni che sorgono a seguito della disgregazione della famiglia “tradizionale” fondata sul matrimonio e dall’instaurazione di nuovi rapporti sentimentali da parte dell’ex moglie e l’ex marito: la debenza, o meno, dell’assegno divorzile.

Come sottolineato più volte negli ultimi anni dalla Suprema Corte, infatti, una mera relazione, priva dei caratteri di stabilità, non fa venir meno, di per sé, il diritto al c.d. assegno divorzile. Diverso discorso, invece, nel caso in cui l’ex moglie o l’ex marito si siano risposati ovvero abbiano creato una “nuova famiglia”. In tale caso infatti, “l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude” (sul punto, ex multis Cass. n°6855/2015 e n°2466/2016).

Secondo il condivisibile principio sopraesposto, la Suprema Corte, ha inteso:

  • privare di ogni rilevanza l’esistenza o meno dell’elemento formale del vincolo matrimoniale, al fine di appurare se la nuova unione possa o meno definirsi quale “nuova famiglia” – e ciò conformemente a quanto più volte ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (ex multis, Corte EDU, Vallianatos c. Grecia del 7 novembre 2013);
  • valorizzare la scelta libera e consapevole di chi, dopo il divorzio, decida di farsi non solo una nuova vita bensì anche una nuova famiglia, liberando conseguentemente l’ex coniuge da ogni dovere, anche di natura economica ed assistenziale, derivante dall’oramai sciolto vincolo matrimoniale;
  • responsabilizzare l’autore di tale scelta, escludendo che l’ex marito o l’ex moglie possano, in caso di fallimento della successiva unione – in particolar modo se more uxorio, dalla cui eventuale rottura, come noto, non discende per i partner alcun diritto ad assegni alimentari o di mantenimento a carico dell’ex partner – pretendere nuovamente una assistenza economica da parte dell’altro ex coniuge.

La vicenda in esame

Il caso sottoposto al Tribunale marchigiano vede contrapposto un ex marito che, stanco di versare un assegno divorzile alla propria ex moglie – la quale da tempo aveva instaurato una relazione more uxorio con un nuovo uomo e che si rifiutava immotivatamente di accettare o ricercare essa stessa posizioni lavorative che le permettessero di acquistare un’indipendenza economica – adiva l’autorità giudiziaria al fine di veder modificati i provvedimenti divorzili e revocato, o quantomeno ridotto significativamente, l’assegno mensilmente versato.

L’ex moglie si costituiva in giudizio opponendosi all’accoglimento della domanda, contestando l’esistenza di una stabile convivenza, eccependo l’impossibilità per motivi di salute a lavorare e chiedendo in via riconvenzionale l’aumento dell’assegno di mantenimento in favore dei figli, maggiorenni ma ancora non economicamente dipendenti.

Sulla prova della creazione di una nuova famiglia e la conseguente revoca dell’assegno divorzile.

La pronuncia del Tribunale di Ancona appare di particolare interesse per le considerazioni espresse dal giudicante in merito alla valenza delle prove fornite dalle parti a riprova e a confutazione dell’esistenza di una “nuova famiglia”.

In particolare, ad avviso del Tribunale marchigiano l’esistenza di una stabile convivenza risultava comprovata alla luce:

  1. dell’ammissione della resistente circa l’esistenza di un legame affettivo perdurante da anni e dalla mancata contestazione dell’inizio della suddetta relazione dopo la sentenza di divorzio;
  2. delle fotografie pubblicate sui social network raffiguranti la nuova coppia, non contestate dalla resistente;
  3. dei periodi di vacanza dagli stessi trascorsi insieme (a nulla rilevando la ripartizione delle relative spese tra i partner);
  4. della relazione investigativa in atti.

Con particolare riferimento alla suddetta relazione investigativa, il Tribunale, pur riconoscendo alla stessa mero valore indiziario, alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n°11516/2014), riteneva che le relative risultanze potessero ciò non di meno essere liberamente apprezzate dal giudice di merito e fossero utili al fine del decidere in quanto confermate dalle altre evidenze probatorie e attestanti la non occasionalità della frequentazione nonché la sua risalenza del tempo. Di fatti, dalla predetta investigazione emergevano plurimi elementi atti a confermare la natura della stabile convivenza e, in particolare:

  • il libero accesso del partner alla casa della resistente, anche quando quest’ultima era assente;
  • il pernottamento dello stesso presso la casa della resistente;
  • la circostanza che detta casa fosse punto di arrivo e di partenza della coppia in occasione dei loro viaggi insieme.

Di contro, alcun valore poteva attribuirsi alla tesi dell’asserita natura occasionale della predetta relazione, sostenuta invano dall’ex moglie in quanto:

  1. l’asserita circostanza che il partner avesse solo occasionalmente utilizzato la casa della resistente poiché erano in corso i lavori di ristrutturazione della propria abitazione, corroborava – anziché smentire – la tesi attorea “…posto che nell’impossibilità di utilizzare la propria abitazione lo stesso ha fatto riferimento proprio alla abitazione della compagna”;
  2. la mera sussistenza di un’abitazione propria del partner non escludeva tout court…la natura della stabile convivenza e la sussistenza di un comune progetto di vita”;
  3. le evidenze anagrafiche, parimenti, non avevano “…rilievo dirimente al fine di escludere la convivenza o la natura stabile di essa…” non potendosi fare dipendere l’accertamento della sussistenza del diritto all’assegno divorzile da risultanze anagrafiche che ben potrebbero essere inficiate da condotte strumentali delle parti.

Alla luce degli elementi sopra raffigurati e dell’adeguatezza dei redditi del nuovo partner, come ammesso dalla stessa resistente, il Tribunale ha pertanto ritenuto di poter affermare che quest’ultimo “…goda di proventi sufficienti per creare con la signora quella comunanza di risorse economiche che giustifica la revoca dell’assegno divorzile…”.

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[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, SS.UU., con ordinanza 5 giugno 2017, n. 13912, si è pronunciata sul ricorso ex art. 41 c.p.c. presentato dalla resistente in un ricorso per la modifica della condizioni di separazione.

In particolare, l’ex moglie, costituitasi in giudizio aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, essendosi la stessa trasferita negli USA da oltre due anni unitamente alla figlia.

Con decreto del 28 ottobre 2015, tuttavia, il presidente del Tribunale adito non aveva condiviso l’eccezione della resistente “perché il provvedimento di modifica delle condizioni della separazione aveva natura “integrativa” di quello di separazione, in relazione al quale la signora (OMISSIS) aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano” disponendo pertanto la comparizione personale delle parti.

Di qui la presentazione da parte dell’ex moglie di un ricorso ex art 41 c.p.c. alla Suprema Corte:

  1. deducendo la violazione dell’art. 12 del regolamento UE n°2201/2003 (c.d. Regolamento “Bruxelles II bis, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000), in quanto “l’accettazione della giurisdizione del giudice italiano nel procedimento di separazione sarebbe stato erroneamente riferito – nel corso dello stesso – anche al successivo procedimento di revisione, laddove la norma teste’ richiamata, al n. 2, lettera b), prevede che “la competenza esercitata ai sensi del paragrafo 1 (domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio”), cessa non appena la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio sia passata in giudicato”;
  2. deducendo l’omesso esame del trasferimento de facto della residenza abituale del marito nel luogo in cui lo stesso esercitava la propria attività commerciale;
  3. censurando l’interpretazione e la legittimità dell’ 37 della l. n°218/1995, attributiva della competenza giurisdizionale italiana “…anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia”, nella parte in cui non riconosce primazia alla residenza abituale del minore, criterio consacrato nei regolamenti internazionalprivatistici dell’Unione europea e in varie convenzioni internazionali.

La Corte, investita della questione, preliminarmente afferma:

  • la ricevibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c. in quanto “ … la mera delibazione, in via incidentale, in ordine al tema della giurisdizione, contenuta in un provvedimento che, come chiaramente si desume anche dalla parte dispositiva, ha carattere meramente istruttorio ed è quindi privo di natura decisoria – essendo per altro nella specie ogni pronuncia riservata al collegio e non al presidente del tribunale – non può ritenersi preclusiva della proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione”(sul punto Cass., Sez. U, 20 febbraio 2013, n. 4218; Cass., Sez. U., 27 novembre 2011, n. 22382).
  • l’irrilevanza dei provvedimenti assunti nel giudizio a quo successivamente alla proposizione dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, da ritenersi condizionati alla conferma del potere giurisdizionale dell’autorità che li ha pronunciati.

Entrando nel merito, poi, gli Ermellini:

  • ribadiscono l’autonomia esistente tra il giudizio di separazione e il giudizio volto alla modifica delle condizioni ivi determinate;
  • negano conseguentemente che l’accettazione della giurisdizione italiana da parte della ricorrente nel giudizio di separazione personale possa riverberare “…la sua efficacia anche nel giudizio di revisione”;
  • affermano che “…il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla c.d. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore (Corte giustizia, 5 ottobre 2010, in causa 296/10), assume una pregnanza tale da comportare anche l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione” (Cass., Sez. U, 30 dicembre 2011, n. 30646);
  • affermano che, poiché la richiesta di revisione da parte dell’ex marito verteva unicamente sull’affidamento allo stesso della minore, avente doppia cittadinanza italiana e statunitense, detta doppia cittadinanza rende applicabile il principio, già affermato dalle SS.UU. con sentenza del 9 gennaio 2001, n°1, secondo cui “…ai fini del riparto della giurisdizione e della individuazione della legge applicabile, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta; pertanto quelli che, pur incidendo sulla potestà dei genitori, perseguono una finalità di protezione del minore, rientrano nel campo di applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 42, il quale rinvia alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961. Invero nel caso di minore con doppia cittadinanza non può applicarsi l’articolo 4 della Convenzione, che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale”.

Alla luce dei suddetti principi, la Corte conclude affermando il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice della residenza abituale della minore in quanto:

  • “…sotto il profilo oggettivo, del richiamo della citata L. n. 218 del 1995, articolo 42 all’articolo 1 della richiamata Convenzione dell’Aja, anche con riferimento alle misure relative ai figli minori che vengono adottate in sede di separazione personale o di divorzio dei genitori, trova giustificazione nella circostanza che l’Italia non si è avvalsa della facoltà, prevista dall’articolo 15 della Convenzione stessa, di creare una competenza speciale per le misure attinenti ai minori”.
  • “…il parametro della residenza abituale, posto a salvaguardia della continuità affettivo relazionale del minore, non è in contrasto ma, al contrario, valorizza la preminenza dell’interesse del minore” (Cass. SS.UU, 19 gennaio 2017, n°1310 e Cass., 22 luglio 2014, n°16648).

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[:it]separazione-e-soldi_smallLa Suprema Corte si è recentemente pronunciata su un’annosa vicenda familiare relativa alla debenza e alla quantificazione degli assegni di mantenimento dovuti verso i figli e l’ex coniuge, affermando il seguente condivisibile principio: “…le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre e non può la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre”.

Il primo grado di giudizio

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un ex marito al fine di veder modificate le condizioni della separazione personale omologata dal Tribunale di Bologna, in forza delle quali lo stesso era onerato del mantenimento dei tre figli con assegno mensile di € 5.400,00 (€ 1.800,00 per ciascun figlio) nonché dell’ex moglie, in favore della quale corrispondeva mensilmente l’importo di € 1.600,00. Si costituiva in giudizio l’ex moglie, chiedendo in via riconvenzionale l’aumento del proprio assegno separatizio in caso di revoca o riduzione del mantenimento corrisposto in favore dei tre figli.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Bologna decideva di:

  • revocare l’assegno di mantenimento in favore del primo genito, oramai maggiorenne ed economicamente autosufficiente;
  • ridurre da € 1.800,00 ad € 1.000,00 il contributo al mantenimento per il figlio secondogenito in quanto maggiorenne ma non ancora economicamente autosufficiente;
  • ha confermato l’assegno di mantenimento di € 1.800,00 in favore del terzo genito, ancora minorenne;
  • accogliere la domanda riconvenzionale dell’ex moglie, aumentando il suo mantenimento da € 1.600,00 ad € 2.400,00 in conseguenza del “…l’incremento delle disponibilità economiche del T. conseguenti alla riduzione dell’onere contributivo a favore dei figli”.

Il grado d’appello

La Corte d’appello di Bologna, adita dai coniugi, riteneva tuttavia di discostarsi dalla decisione del Tribunale di primo grado e, respinto il reclamo dell’ex moglie, accoglieva il reclamo incidentale del marito ritenendo che non potesse disporsi automaticamente un aumento del mantenimento versato in favore dell’ex moglie in conseguenza dei minori esborsi per i figli.

Il ricorso in cassazione

L’ex moglie decideva tuttavia di non darsi per vinta ricorrendo sino in Cassazione, aimè senza fortuna, eccependo da un lato il miglioramento delle condizioni economiche dell’ex marito, conseguenti alla riduzione degli assegni in favore dei figli, dall’altro il peggioramento delle sue condizioni economiche, non potendo più contare sull’assegno di mantenimento in favore dei figli al fine di far fronte alle gravose spese di manutenzione della casa familiare.

Convincente la motivazione degli Ermellini, ad avviso dei quali “…Presupposto per la modifica delle condizioni della separazione è il sopravvenire di circostanze nuove rispetto a quelle esistenti al momento della pronuncia o della omologa della separazione e in ordine alle quali sussiste a carico della parte ricorrente l’onere di dedurle e provarle” (sul punto Cass. civ., sez. 1, n. 4905 del 20 maggio 1999).

In ossequio a tale principio, la Corte d’Appello aveva giustamente ritenuto che l’ex moglie non aveva assolto all’onere di dedurre e comprovare il sopravvenire di circostanze tali da legittimare un aumento dell’assegno separatizio percepito in quanto:

  • la ricorrente si era limitata a dedurre genericamente un miglioramento delle condizioni economiche dell’obbligato senza offrire alcuna prova;
  • di contro, nessuna conseguenza automatica poteva discendere “…dalla riduzione quantitativa dell’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli connesso al raggiungimento della loro totale o parziale indipendenza economica…”.

Soffermandosi proprio sull’incidenza della diminuzione o revoca dell’assegno in favore dei figli su quello disposto in favore dell’ex moglie, la Suprema Corte evidenzia come:

  • “…le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre…”;
  • “…il beneficio economico che ne trae il genitore esonerato non legittima di per sé l’accoglimento della contrapposta domanda di automatico aumento delle contribuzioni rimaste a suo carico…”;
  • “…per ciò che concerne l’assegno di mantenimento in favore del coniuge più debole economicamente, deve aversi riguardo alla circostanza per cui la misura dell’assegno, precedentemente stabilita o concordata, fosse o meno condizionata dal concorrente onere economico nei confronti dei figli e quindi se risultasse o meno sufficiente a integrare di per sé la previsione normativa che impone la corresponsione dell’assegno per il mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri…”;
  • conseguentemente, in mancanza di prova contraria da parte del coniuge beneficiario “…deve presumersi che la misura dell’assegno corrispondesse alla prescritta necessità di cui all’art. 156c. e non risultasse compressa dal concorrente onere di contribuire al mantenimento dei figli”;
  • parimenti, nessun rilievo può essere dato all’incidenza negativa della revoca e diminuzione del mantenimento in favore dei figli sulle risorse economiche dell’ex moglie – la quale aveva dedotto il loro parziale utilizzo per fare fronte all’onerosa manutenzione della casa familiare – essendo l’onere manutentivo della casa familiare già stato valutato in sede di separazione consensuale.

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[:it]kate-separatedIn questi tempi di crisi crearsi una nuova vita dopo la separazione può essere arduo, soprattutto dal punto di vista economico, a causa della (quasi) duplicazione delle spese a cui il nucleo familiare, oramai scisso, è destinato inesorabilmente ad andare incontro.

Di qui l’idea di due coniugi comaschi, che da tempo vivevano come “separati in casa” di rivolgersi congiuntamente al Tribunale di Como per sentir pronunciare la loro separazione personale senza tuttavia interrompere la convivenza sotto lo stesso tetto. La coppia, infatti, motivava la propria scelta su basi prettamente economiche, consistenti nella necessità e volontà di utilizzare i propri risparmi per la crescita del figlio e l’assistenza sanitaria della moglie, ritenendo maggiormente sostenibile e conveniente continuare a usufruire della stessa casa congiuntamente, seppur dormendo in camere separate, sino a quando, in un incerto futuro, uno dei due avesse potuto permettersi di prendere un’altra abitazione in affitto.

Il Tribunale lombardo, tuttavia, rigetta l’istanza d’omologa. A non convincere il giudicante sarebbero le seguenti considerazioni in fatto:

  • la finalità assistenziale nei confronti del figlio ben poteva essere soddisfatta vivendo in separate case, non essendo la situazione economica dei genitori tale da pregiudicare una sua crescita “dignitosa”, perdipiù in considerazione dei non irrilevanti risparmi che i genitori avevano già messo da parte per le sue future esigenze;
  • le asserite necessità di assistenza sanitaria della moglie apparivano generiche e prive di sostegno probatorio;
  • i coniugi non avevano fissato un termine a questa forma ibrida di convivenza, limitandosi a far dipendere l’abbandono della casa da parte di uno dei due a un miglioramento delle loro condizioni economiche, improbabile essendo i due dipendenti;

Ad avviso del Tribunale, inoltre, presupposto della separazione è proprio l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, con la conseguenza che “…l’ordinamento non può dare riconoscimento, con le relative conseguenze di legge, a soluzioni “ibride” che contemplino il venir meno tra i coniugi di gran parte dei doveri derivanti dal matrimonio, pur nella persistenza della coabitazione, la quale ex art. 143 cc costituisce anch’essa uno di questi doveri e rappresenta la “cornice” in cui si inseriscono i vari aspetti e modi di essere della vita coniugale”;

Ad avviso del Tribunale di Como dunque, se “…è vero che in costanza di matrimonio tale dovere può essere derogato, per accordo tra i coniugi, nel superiore interesse della famiglia, per ragioni di lavoro, studio ecc.. sì da non escludere la comunione di vita interpersonale (cfr. Cass. 19439/11, 17537/03), ma ciò non autorizza a ritenere il contrario, cioè ad affermare la validità di un accordo (con le conseguenze di legge della separazione) volto a preservare e legittimare la mera coabitazione una volta che sia cessata la comunione materiale e spirituale tra le parti”.

Nell’ultima parte motiva emerge tuttavia una seconda ragione dagli aspetti ben più pratici: il rischio che, acconsentendo ad una separazione che prescinda dall’interruzione della convivenza, si facilitino “operazioni elusive o accordi simulatori”, a cui, aimè, assai spesso coppie ricorrono per opportunità e/o necessità al fine, soprattutto, di ottenere benefici fiscali.

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[:it]imagesGli “addetti al mestiere” lo sanno. Purtroppo gli effetti della rottura di una relazione assai spesso si riverberano anche sui figli. Sempre più spesso, infatti, i figli diventano vittime e armi nelle guerre di separazione e divorzio che contrappongono marito e moglie.

Di recente, però, c’è una importante novità che sta prendendo piede, per ora nei tribunali del nord Italia: il c.d. coordinatore genitoriale.

Chi è il coordinatore genitoriale?

Il coordinatore genitoriale è una figura professionale che viene incaricata dal Tribunale di famiglia affinché vigili e risolva le problematiche di gestione dei figli in coppie caratterizzate da un’elevata conflittualità.

Il caso.

A distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, con sentenza del 5 maggio 2017, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di garantire il corretto esercizio della responsabilità genitoriale da parte di una coppia sposata.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge, seppur concordando nella scelta dell’affidamento condiviso. Il marito, tuttavia, aveva chiesto anche la condanna della moglie ex art. 709 ter c.p.c. a causa dei comportamenti tenuti dalla moglie dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli.

Il Tribunale, dopo aver ascoltato i Servizi sociali e il C.T.U. nominato, riteneva comprovata l’elevata conflittualità tra i genitori e gli ingiustificati comportamenti della madre, che rendeva estremamente difficile per il padre non solo esercitare con regolarità il suo diritto di visita ma anche a parlare semplicemente al telefono con i figli.

Dall’altro lato, però, i giudici davano atto dell’assenza di problemi nella gestione dei figli nei tempi in cui questi stavano con l’uno o l’altro genitore e della mancanza di alcuna carenza educativa nelle due figure genitoriali. Per questo motivo, il Tribunale, pur affidamento i bambini ad ambedue i genitori, decideva di nominare un coordinatore genitoriale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, individuando puntualmente i suoi compiti come segue:

  1. monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

In conclusione

Attraverso il controllo di un coordinatore, il Tribunale mira dunque non solo a “tenere sotto controllo” i comportamenti dei genitori in caso di conflitto ma ad affiancare loro un esperto che possa aiutarli nell’adozione condivisa di scelte nell’interesse dei ragazzi e decidere egli stesso qualora i genitori non si mettano d’accordo.

Il fallimento o il successo di tale figura dipenderà, tuttavia, non solo dalla capacità e professionalità del coordinatore genitoriale incaricato ma, soprattutto, dalla presa di coscienza da parte degli ex coniugi che la fine del matrimonio non comporta la fine della famiglia né dei doveri genitoriali.[:]

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imagesA distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di vigilare e risolvere le problematiche di gestione dei figli in una coppia separata, caratterizzata da un’elevata conflittualità tra coniugi.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge. In particolare, ad avviso del ricorrente, il fallimento del matrimonio sarebbe da addebitarsi all’anaffettività e agli atteggiamenti offensivi che la moglie aveva tenuto tanto nei suoi confronti quanto nei confronti della cerchia parentale. Il marito, inoltre, si lamentava dei comportamenti tenuti dalla moglie, dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli, chiedendo, nonostante l’affido condiviso con collocamento prevalente dei figli presso la madre, la condanna di quest’ultima ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.. La resistente, costituitasi in giudizio, chiedeva a sua volta l’addebito al marito, affermando che l’intollerabilità della convivenza era dipesa unicamente dall’esistenza di una relazione adulterina, nonché l’affido congiunto dei figli con collocamento prevalente presso di lei.

All’esito della fase istruttoria, il Tribunale accoglieva la richiesta di addebito della moglie ritenendo comprovata l’ascrivibilità del fallimento del matrimonio al tradimento del marito non solo dalla perizia investigativa depositata quanto dalla stessa ammissione da parte del ricorrente durante l’udienza presidenziale. Il Tribunale decideva, altresì, di accogliere la domanda di condanna della madre ex art. 709 ter c.p.c. “…atteso che dagli atti emerge come, in più occasioni, la resistente abbia ingiustificatamente frapposto ostacoli alla regolare frequentazione fra il padre e i figli…”.

Passando alla regolamentazione dell’affidamento dei figli, il Tribunale osserva preliminarmente come tanto i Servizi sociali quanto la C.T.U. esperita nel giudizio abbiano evidenziato “…che entrambi i genitori sono in grado di gestire singolarmente i figli e che le difficoltà nelle relazioni (in particolare del padre) dipendono esclusivamente dalla mai sopita conflittualità (presente anche durante la convivenza) fra gli adulti…”.

Il Tribunale decide, tuttavia, che la sola conflittualità tra i coniugi non sia sufficiente per disporre l’affido esclusivo degli stessi a l’uno o all’altro genitore – dando peraltro atto che ambedue i coniugi avevano richiesto l’affido condiviso dei figli – ritenendo non “…positivamente dimostrata l’inidoneità educativa ovvero la manifesta carenza del ricorrente…”, disponendo pertanto l’affido condiviso degli stessi con collocamento prevalente presso la madre “…avendo i figli instaurato un più solido legame affettivo con essa ed essendo costei in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica, come chiaramente emerge dalla consulenza tecnica”. D

A causa della comprovata ed elevata conflittualità tra i genitori e dei comportamenti posti in essere dalla madre e tesi ad ostacolare i rapporti dei ragazzi con il padre, il Tribunale decide, tuttavia, di nominare una figura esterna, il c.d. coordinatore genitoriale o educatore professionale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, incaricandolo all’uopo di:

  1. di monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. di coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • di redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

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downloadLa Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condannato l’Italia per violazione dell’art. 8, sanzionando l’operato dei suoi tribunali, rei di non aver posto in essere misure efficaci e rapide al fine di tutelare il diritto di visita di un padre separato.

L’iter giudiziario italiano

Il ricorso alla Corte di Strasburgo trae le proprie origini da una triste quanto comune vicenda giudiziaria all’italiana. Un uomo, a seguito della decisione di separarsi dalla moglie, lasciava la casa familiare, incontrando da allora una forte opposizione della stessa a qualsiasi contatto padre-figlio. Il padre ricorreva pertanto al Tribunale per i Minorenni di Brescia, lamentando oltre alle predette circostanze anche un comportamento pregiudizievole della madre verso il minore – la quale continuava ad allattare il bambino, nonostante avesse già più di 5 anni, e a dormire con lui – e chiedendo pertanto il suo affido in via esclusiva, all’esito di una perizia. La madre, costituitasi, contestava la fondatezza di tali accuse, affermando che il padre si era da sempre disinteressato del figlio e chiedendo pertanto la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale.

Il Tribunale, investito della questione, disponeva pertanto una perizia psicologica, dalla quale emergeva l’opportunità di un affido condiviso, affiancata ad una procedura di mediazione familiare, e dell’esercizio del diritto di visita da parte del padre senza la presenza della madre.

Il Tribunale, conseguentemente, aderendo parzialmente alle risultanze della predetta perizia, decideva di affidare il minore ad entrambi i genitori, con collocamento prevalente presso la madre, concedendo al padre di vedere il figlio due giorni alla settimana. La decisione veniva impugnata, senza successo, da ambedue gli ex coniugi dinnanzi alla Corte d’Appello, che confermava pertanto le statuizioni del giudice di primo grado.

Decorsi pochi anni, il padre adiva nuovamente il Tribunale chiedendo che il figlio potesse trascorrere con lui le prossime vacanze pasquali. Il Tribunale, in tale occasione, accoglieva la domanda del ricorrente, respingendo la successiva richiesta di revoca presentata dalla madre. Successivamente il Tribunale, dando atto della volontà del minore a passare più tempo con il padre, pernottando altresì presso di lui, dell’atteggiamento ostruzionistico persistente della madre e dell’assenza di una sua collaborazione con i servizi sociali, estendeva il diritto di visita e di alloggio anche ad un fine settimana alternato, incaricando i servizi sociali di monitorare il rispetto di tali prescrizioni.

La madre, tuttavia, continuava ad opporsi a qualsiasi incontro padre-figlio senza la sua presenza, impedendo di fatto l’esercizio del diritto di visita stabilito dal Tribunale. Tale condizione, a detta del padre, spingeva quest’ultimo non solo a rifiutarsi di vedere il figlio e di tenerlo con lui ma anche a contattarlo telefonicamente e a passare con lui le vacanze. All’esito di ulteriori ricorsi presentati dai due genitori, la madre veniva autorizzata a trasferirsi a Torino, per motivi economici e di opportunità, alla luce anche del mancato esercizio del diritto di visita da parte del padre. Veniva rigettata, invece, la domanda dell’ex moglie di decadenza del padre dalla responsabilità genitoriali sul minore. Nei mesi successivi il padre persisteva nel suo rifiuto di collaborare con i servizi sociali di Torino e di vedere il figlio, nonostante la prescrizione da parte del Tribunale di incontri protetti, pertanto, senza la presenza della madre.

Il ricorso alla Corte europea

Il ricorrente decideva pertanto di adire la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione, dal momento che le autorità italiane avrebbero tollerato il comportamento inaccettabile posto in essere dalla madre – volto ad ostacolare il libero esercizio di visita da parte del padre e “…aizzare il minore contro di lui” – in aperta violazione delle condizioni fissate dal tribunale italiano.

I principi individuati dalla Corte

La Corte, investita della questione, chiarisce preliminarmente come lo scopo dell’art. 8 CEDU sia quello di  …premunire l’individuo contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri ”, garantendo il rispetto della vita familiare, inclusiva altresì del rispetto delle relazioni reciproche tra individui, tra cui le relazioni tra genitore non convivente e figli.

A tal fine, l’articolo in oggetto “…non si limita a imporre allo Stato di astenersi da simili ingerenze: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata o famigliare”. Tra tali misure positive la Corte individua anche “…la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate…idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori”, richiamando sul punto una sua sterminata giurisprudenza (ex multis, Ignaccolo-Zenide c. Romania, n. 31679/96, § 108, CEDU 2000 I, Sylvester c. Austria, nn. 36812/97 e 40104/98, § 68, 24 aprile 2003). Tali obblighi positivi, chiarisce la Corte, “…non implicano solo che si vigili affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di giungere a tale risultato.

Fondamentale poi, ad avviso della Corte, ai fini dell’adeguatezza delle predette misure è la rapidità con cui le stesse vengano attuate “…in quanto il trascorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili per le relazioni tra il minore e il genitore che non vive con lui”. Di contro, l’infruttuosità delle misure adottate al fine di riunificare padre e figlio non comportano automaticamente la violazione da parte dello Stato membro degli obblighi ex art. 8 CEDU e ciò in considerazione, da un lato, del carattere non assoluto di tale diritto e, dall’altro, dalla necessità di considerare altresì il comportamento e la comprensione tenuta da tutte le persone coinvolte nel caso concreto. Di fatti, alle autorità non è consentito, se non in via del tutto residuale e limitata, l’utilizzo della coercizione, dovendo le stesse tenere sempre in primaria e prevalente considerazione il diritto superiore del minore. Al fine di giudicare la legittimità dell’azione delle istituzioni, dunque, si dovrà verificare da un lato l’adozione di “…tutte le misure neessarie che ragionevolmente era possibile attendersi da loro per mantenere i legami tra il ricorrente e suo figlio…” (sul punto si veda anche Manuello e Nevi c. Italia, n°107/10, § 52, 20 gennaio 2015) e, dall’altro, “…esaminare il modo in cui le autorità sono intervenute per agevolare l’esercizio del diritto di visita del ricorrente come definito dalle decisioni giudiziarie (sul punto Kuppinger c. Germania, n. 62198/11, § 105, 15 gennaio 2015).

Applicazione di questi principi al presente caso

Passando poi all’applicazione dei suddetti principi, la Corte ritiene necessario distinguere tra due periodi distinti.

Nel primo periodo, compreso tra la separazione iniziale e la manifestazione da parte del padre della volontà di non esercitare più il diritto di visita, la Corte ha ritenuto che il diritto di visita del ricorrente sia stato gravemente pregiudicato dall’operato delle autorità, le quali, nonostante fossero consapevoli del comportamento consapevolmente ostruzionistico tenuto dalla madre, non avevano posto in essere misure idonee ed adeguate a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre” e “…misure utili ai fini dell’instaurazione di contatti effettivi”. In particolare la Corte, pur riconoscendo le elevate difficoltà del caso di specie a seguito della conflittualità acerrima tra i genitori, ha ritenuto che la mancanza di cooperazione tra gli stessi “…non possa dispensare le autorità competenti dall’utilizzare tutti gli strumenti atti a consentire il mantenimento del legame familiare” (si vedano Fourkiotis c. Grecia n. 74758/11 § 72, 16 giugno 2016).

Per quanto attiene invece al secondo periodo, terminante con la presentazione del ricorso dinnanzi alla Corte, la stessa ha ritenuto insussistente la violazione dell’art. 8 CEDU in quanto i servizi sociali, incaricati dal Tribunale di vigilare sulla questione, avrebbero profuso “…tutti gli sforzi che si poteva ragionevolmente attendersi da loro per garantire il rispetto del diritto di visita del ricorrente, conformemente alle esigenze del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione”. Di contro, invece, sarebbe stato proprio il padre ad assumere da allora “…un atteggiamento negativo poiché ha prima annullato diversi incontri e poi ha deciso di non partecipare più alle visite”.

Da ultimo, la Corte rigetta la richiesta di risarcimento del danno morale presentata dal ricorrente, ritenendo “…che la constatazione di una violazione fornisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per qualsiasi danno morale eventualmente subito…”.

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Welpe im ScheidungskriegChi ha un cane o un animale domestico lo sa, l’amore che si prova per i nostri amici a quattro zampe va oltre l’immaginabile. E quando ci si lascia, aimè, decidere chi e come potrà vedere e tenere con sé l’amato “Fido” sta diventando sempre più motivo di litigio tra gli ex.

Purtroppo queste problematiche non hanno ancora avuto una risposta chiara dal nostro legislatore. Da anni, infatti, è ferma in parlamento una proposta di legge volta ad applicare agli animali domestici la stessa disciplina che il nostro codice prevede per l’affidamento dei figli minori. L’auspicata riforma prevede, infatti, l’introduzione nel nostro codice civile dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”.

Nel mentre crescono le cause promosse dinnanzi ai tribunali da ex che si contendono gli animali domestici. Interessante, a riguardo, è una recente sentenza del Tribunale civile di Roma, n°5322 del 12-15 marzo 2016.

La vicenda sottoposta al giudice romano trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno – il quale, dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, le avrebbe sottratto il suo cane – al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale di Roma, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione del sopra richiamato art. 455 ter c.c..

Ad avviso del Tribunale, inoltre, la proprietà formale del cane non rileverebbe, dovendo il suo affidamento (condiviso ed esclusivo) basarsi solo sul legame d’amore esistente con il/i proprietari e, dunque, sul suo superiore interesse.

 Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;
  • condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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