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Il caso

Con sentenza del 4 dicembre 1987, il Tribunale di Taranto dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ponendo a carico del padre il versamento di un contributo al mantenimento delle due figlie sino al termine degli studi universitari.

Nonostante le due figlie della coppia avessero conseguito la laurea e si fossero altresì sposate, rispettivamente nel 1994 e nel 1998, l’ex moglie notificava all’ex marito, in data 3 maggio 2006, un precetto di pagamento per il pagamento del mantenimento relativo agli ultimi 5 anni.

L’ex marito versava spontaneamente l’importo precettato, promuovendo successivamente un giudizio volto alla restituzione di quanto pagato, chiedendo in subordine il risarcimento del danno per appropriazione indebita.

I giudizi di primo e secondo grado

Il Giudice di prime cure, rigettava la domanda restitutoria, accogliendo, di contro, quella subordinata.

La pronuncia veniva impugnata da ambedue i coniugi.

La Corte d’Appello di Lecce, pronunciandosi sui due gravami:

  • rigettava quello del marito, ritenendo infondata la pretesa restitutoria “…sul presupposto che il suo obbligo contributivo fosse venuto meno solo con il provvedimento del Tribunale del 2 maggio 2007 che ne aveva decretato la cessazione a decorrere dal 13 ottobre 2006”;
  • accoglieva, di contro, quello della moglie e rigettava la domanda risarcitoria del marito “…escludendo l’ipotizzata appropriazione indebita sia perché la (moglie) aveva percepito le somme in forza di un titolo giudiziale, sia perché l’ipotizzato danno era riconducibile al comportamento inerte dello stesso (marito) il quale solo nell’ottobre 2006 si era attivato per la modifica delle statuizioni patrimoniali inerenti al divorzio”.

Il ricorso per Cassazione

Avverso detta sentenza ricorreva sino in Cassazione l’ex marito, dolendosi dell’esclusione del carattere indebito, ai sensi dell’art. 2033 c.c., del pagamento “essendo il vincolo obbligatorio, cioè la causa giustificativa del pagamento stesso, cessato quanto meno dal 1994 al 1998”.

Gli ermellini accolgono il ricorso del marito, offrendo i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • sulla base dell’accordo raggiunto dai genitori in sede di divorzio, l’obbligo di mantenimento delle figlie da parte del padre era venuto meno a seguito del conseguimento del diploma di laurea;
  • la circostanza che il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio sia stato introdotto dall’ex marito solo successivamente, “…non impedisce la proposizione dell’azione restitutoria delle somme corrisposte indebitamente, a norma dell’art. 2033 c.c. che ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa”;
  • “…l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio” (in senso conforme Cass. civ. n°11489/2014).

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[:it]

catturaLa Suprema Corte, con la pronuncia in oggetto, ritorna sul controverso funzionamento del filtro di ammissibilità dell’appello, previsto dall’art. 342 c.p.c. conferma l’inammissibilità del gravame che si limiti a riproporre le considerazioni svolte in primo grado e non individui con esattezza i punti della sentenza oggetto di censura.

Il caso

La vicenda trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale di Torino aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto avverso una sentenza del Giudice di pace per carenza di specificità dei motivi di impugnazione, ex art. 342 c.p.c., in quanto l’appellante:

  • si era limitato a riproporre le considerazioni svolte in primo grado;
  • non aveva neppure individuato con esattezza i punti della sentenza oggetto di censura.

 

Il ricorso per cassazione

A medesima sorte è destinato anche il successivo ricorso per cassazione, con cui il ricorrente si duole della violazione dell’art. 342 c.p.c..

La Suprema Corte, infatti, lo dichiara inammissibile per violazione del principio di specificità e mancato assolvimento dell’onere imposto al ricorrente ex art. 366 c.p.c., rilevando come il ricorso si sia limitato ancora una volta a riprodurre integralmente l’atto di gravame “senza individuare, come suo onere, quali passaggi di detto atto siano – sia pure a suo parere – idonei a confutare la statuizione impugnata, e segnatamente le due decisive carenze accertate dal Tribunale di Torino, segnatamente in merito alla formulazione di specifici motivi di appello, da un lato, ed alla individuazione dei passaggi decisionali di primo grado oggetto delle doglianze, dall’altro”.

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[:it]Woman sitting on doorstep using phone

In questi anni è diventata sempre più comune la produzione “disinvolta” nei giudizi di separazione della corrispondenza scambiata dall’ex coniuge con l’amante – ottenuta di solito accedendo abusivamente allo smartphone del marito o della moglie – al fine di comprovare il tradimento e ottenere così l’addebito  nonostante la predetta condotta sia idonea ad integrare il reato di accesso abusivo a sistema informatico (specie se la relazione coniugale era già entrata in crisi, cfr. Cass. pen., sez. V^, sentenza n°2905/2019) e quello di cui all’art. 616 c.p. (violazione o sottrazione della corrispondenza, cfr. Cass. pen., sez. V^, sentenza n°18462/2016).

Il giudice della famiglia, tuttavia, ha dimostrato negli anni di essere sempre più incline a riconoscerne l’utilizzabilità ai fini dell’addebito nei giudizi di separazione.

Il caso

A riguardo, si segnala un recente giudizio di separazione tra coniugi, in cui la moglie ha chiesto al Tribunale civile di Velletri di pronunciare l’addebito della separazione all’ex marito sulla base proprio degli scambi whatsapp con l’amante, rinvenuti dalla moglie sul cellulare del coniuge e prodotti in giudizio.

Il Tribunale, pronunciandosi sull’addebito, ha preliminarmente ricordato:

  • che “….in punto di diritto la pronuncia di addebito della separazione presuppone l’accertamento da parte del giudice non solo, ovviamente, del comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi ai doveri coniugali, ma anche che tale violazione abbia causato la crisi matrimoniale e che sussista, pertanto, un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza, condizione presupposta per la pronuncia di separazione” (cfr. Cass. sez. 1, n. 279 del 12/01/2000; n. 23071 del 16/11/2005; n. 9877 del 28/04/2006; n. 18074 del 20/08/2014; sez. 6-1, ord. n. 3923 del 19/02/2018);
  • che “La pronuncia di addebito postula, quindi, in ogni caso, l’accertamento che il comportamento contrario ai doveri coniugali abbia causato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (Cass. Sez. I, 20/08/2014, n. 18074) mentre non può operare nei casi in cui emerga che il rapporto sia già compromesso per incompatibilità caratteriale o altre cause, poiché in questo caso la condotta è conseguenza e non causa della crisi coniugale già in atto”.
  • “…corollario di questi principi, e del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., la giurisprudenza è altrettanto consolidata nel ritenere che «grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà»” (così Cass. sez. 6-1, ord. n. 3923 del 19/02/2018; conforme sez. 1, sent. n. 2059 del 14/02/2012).

Passando al merito, il Tribunale ha ritenuto comprovati sia l’anteriorità della relazione adulterina che il nesso di causalità intercorrente con l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza sulla base degli scambi whatsapp prodotti dalla moglie tra il marito e l’amante, la quale, escussa come teste, aveva “…confermato la riconducibilità a sé dei messaggi Whatsapp intercorsi nell’agosto 2016 con [nome amante] in cui riferisce la esistenza della relazione antecedentemente alla convivenza con il  [nome marito] stesso”.

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[:it]Woman in black shirt carrying baby in gray onesie

Il Tribunale civile di Roma, si è recentemente pronunciato su una delle questioni attualmente più dibattute sorte a seguito dell’adozione delle misure di distanziamento sociale per contenere la diffusione della pandemia da Covid-19 (D.L. 18/2020 D.P.C.M. 22 marzo 2020): l’esercizio del diritto di visita del genitore non collocatario.

Come ragionevolmente osservato dal Giudice capitolino, dette misure impongono di bilanciare l’interesse primario dei figli minori e del genitore a veder garantito il pieno diritto alla bigenitorialità, con l’interesse alla tutela della salute pubblica individuale (dei minori e dei genitori) e collettiva (adottando precauzioni che non aumentino il rischio di contagio).

La vicenda in esame

Il caso sottoposto al Tribunale di Roma trae origine dall’istanza con cui un padre denunciava la violazione del suo diritto di visita a causa del comportamento ostativo della madre la quale si trasferiva da Roma a Pejo, in Trentino Alto Adige, portando con se il figlio minore. Lo spostamento veniva comunicato al padre solamente una volta avvenuto.

Il ricorrente evidenziava, inoltre, i notevoli rischi a cui il minore era stato esposto dalla madre: il lungo viaggio dal Lazio al Trentino e, di conseguenza, la stretta vicinanza della prescelta località alle allora zone rosse della Lombardia.

La resistente, nelle proprie difese sottolineava invece come le proprie azioni fossero state intraprese precipuamente allo scopo di migliorare le condizioni di vita e di crescita del figlio. A parere della madre, il minore nell’attuale collocazione avrebbe potuto mantenere oltre agli “impegni scolastici, il contatto con la natura, le passeggiate nei boschi e le prime esperienze in bicicletta” e, dunque, a differenza di Roma, beneficiare di un effetto positivo per la sua crescita.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale romano, investito della questione, preliminarmente, in ossequio a quanto disposto dall’art. 83, comma 3, lett. a) del D.L. 18/2020[1], ha dichiarato l’urgenza dell’istanza avanzata dal ricorrente sulla considerazione dell’“interruzione delle frequentazioni tra il padre e il figlio minore”.

Passando al merito, il giudicante, nell’accogliere le motivazioni prospettate dal ricorrente, ha osservato che la frequentazione padre-figlio non comporta, anche nell’attuale situazione emergenziale, per il minore un rischio ulteriore a quello già esistente e che “la città di Roma appare realtà in sé meno rischiosa rispetto al Trentino Alto Adige, che è regione viciniore alla Lombardia e al Veneto, che sono notoriamente le regioni maggiormente colpite dall’epidemia da COVID-19”.

Il Tribunale capitolino ha pertanto disposto:

  • il rientro a Roma del minore con possibilità per il padre di avere con sé il figlio secondo le prescrizioni di cui all’ordinanza regolante le condizioni di frequentazione “fermi in ogni caso diversi accordi tra le parti che siano dettati nell’interesse prioritario del minore e tengano conto delle sue richieste”;
  • contestualmente ha ammonito la madre a dare esecuzione a quanto disposto nel provvedimento in esame pena l’adozione dei provvedimenti sanzionatori ex 709 ter c.p.c. e fatta salva la possibilità di diversi provvedimenti in tema di affido e di collocamento del minore, “adottando in ogni caso le cautele previste dalla vigente normativa in tema di spostamenti nella città e rispettando le misure di igiene previste nei provvedimenti governativi adottati per l’emergenza COVID-9.

[1]  L’art. 83, comma 3, lett. a) del D.L. n. 18 del 2020, contempla talune precise eccezioni in relazione alle seguenti controversie reputate più “urgenti” dal legislatore e pertanto sottratte alla sospensione dei termini processuali: cause di competenza del Tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio; cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali  della  persona; procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti  provvisori e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute; procedimenti di cui all’articolo 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833; procedimenti di cui all’articolo 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194; procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea; procedimenti di cui agli articoli 283, 351 e 373 del codice di procedura civile e, in genere, tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti. In quest’ultimo caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del  presidente del collegio, egualmente non impugnabile.

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classmates-snack-time-1465989-1279x1251La I^ sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 6471/2020, ha chiarito che “Il diritto–dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614 bis c.p.c. trattandosi di un potere–funzione che, non sussumibile negli obblighi la cui violazione integra, ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., una ”grave inadempienza”, è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata”.

Il caso:

La Corte d’Appello di L’Aquila, con decreto, confermava il provvedimento con cui il giudice di prime cure:

  • aveva sanzionato il padre ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. per inadempimento rispetto al diritto/dovere di visita;
  • aveva quantificato in euro 100,00 la somma da versare alla madre per ogni futuro inadempimento di tale obbligo.

Il ricorso per cassazione

Il padre, visto il decreto della Corte d’Appello, propone ricorso per cassazione sostenendo che le statuizioni di coercizione indiretta previste dall’art. 614 bis c.p.c. non sarebbero applicabili agli obblighi di frequentazione della prole, poiché al diritto del minore a ricevere la visita del genitore corrisponderebbe il diritto potestativo non coercibile di quest’ultimo, rimesso alla sua disponibilità e, in ogni caso, non assoggettabile ai provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale ed alle sanzioni di cui all’art. 709 ter c.p.c..

La decisione della Suprema Corte:

La I^ sezione, investita della questione, con ordinanza n. 6471/2020, ha accolto il ricorso alla luce delle seguenti condivisibili motivazioni:

  • a differenza del diritto generale delle obbligazioni, caratterizzato per l’apprestamento di un rimedio ordinamentale coercitivo a fronte dell’inadempimento del debitore – nel diritto di famiglia, il diritto–dovere del genitore di far visita al figlio minore, di cui all’art. 316 c.c., si caratterizza per la sua intensa strumentalità rispetto alla realizzazione degli interessi superiori del minore stesso;
  • la predetta posizione giuridica del genitore:
  • in quanto diritto, e quindi nella sua declinazione attiva, è tutelabile ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. rispetto ai comportamenti dell’altro genitore che siano tali da ostacolare l’altrui diritto di visita del figlio;
  • in quanto dovere, e quindi nella sua declinazione passiva, resta fondata sull’autonoma e spontanea osservanza del genitore interessato nell’ambito della propria capacità di autodeterminazione e sempre in vista dell’attuazione del superiore interesse del minore ad una crescita sana ed equilibrata, e, come tale, non è suscettibile né di coercizione indiretta ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. – che presuppone un provvedimento di condanna non compatibile con la posizione giuridica del genitore – né dei rimedi di cui all’art. 709 ter c.p.c. che prevede ipotesi di risarcimento a fronte di un danno già integrato e non una coercizione preventiva e indiretta di un dovere nel caso di una sua inosservanza futura.

La Suprema Corte evidenzia, altresì:

  • che “…l’emanazione di un provvedimento ex art. 614 bis c.p.c. si pone in evidente contrasto con l’interesse del minore il quale viene a subire in tal modo una monetizzazione preventiva e una conseguente grave banalizzazione di un dovere essenziale del genitore nei suoi confronti, come quello alla sua frequentazione”;
  • la non coercibilità del dovere di visita del genitore non collocatario non vale ad escludere che al mancato suo esercizio non conseguano effetti, potendo comportare l’affidamento esclusivo in capo all’altro genitore, la decadenza o l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale, la responsabilità penale per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiarequando le condotte contestate, con il tradursi di una sostanziale dismissione delle funzioni genitoriali, pongano seriamente in pericolo il pieno ed equilibrato sviluppo della personalità del minore”.

Di qui, la decisione della Suprema Corte di cassare senza rinvio il provvedimento impugnato.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

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separazione-e-soldi_smallLa Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n°5603 del 29 novembre 2019, depositata in cancelleria il 28 febbraio 2020, ha statuito – alla luce dei principi già affermati in materia – che non può riconoscersi il diritto a percepire l’assegno di mantenimento all’ex moglie che svolge un lavoro in nero di cui non possa accertarsi l’effettivo guadagno che la stessa realizza.

Il caso

La vicenda trae origine da una causa di cessazione degli effetti civili del matrimonio nella quale il Tribunale di Rovigo, investito della questione, riconosceva all’ex moglie il diritto a percepire un assegno divorzile nella misura di euro 300,00. Dolendosi di tale decisione, l’ex marito ricorreva alla Corte di Appello di Venezia, che confermava la decisione del giudice di prime cure, rilevando come il marito godesse di una situazione economica migliore rispetto a quella della moglie, la quale, dopo la separazione, si era ritrovata a svolgere prestazioni di manicure in modo irregolare e non stabile.

A fronte del rigetto del suo gravame da parte della Corte d’Appello, il ricorrente, adiva la Suprema Corte deducendo come il Giudice di merito avesse fondato la conferma del suo obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento alla moglie esclusivamente sulla circostanza che la saltuaria occupazione dalla medesima svolta non fosse tale da assicurarle un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio.

Il giudizio della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, ha accolto il ricorso dell’ex marito alla stregua del consolidato principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite, sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 e ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. I, Ord. n. 1882 del 23 gennaio 2019, secondo cui all’assegno divorzile deve attribuirsi oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa. Detta natura discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate e senza che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, venga finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma piuttosto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

In conclusione

Gli Ermellini:

  • hanno rilevato che la Corte territoriale non si è attenuta a tali principi, applicando, di contro, l’ormai superato criterio del tenore di vita goduto dal coniuge richiedente in costanza di matrimonio;
  • non hanno accertato, in applicazione dei suddetti principi “…l’effettivo guadagno che la (omissis) realizza con l’attività svolta, che comunque – in quanto in concreto accertata – evidenzia una capacità lavorativa e reddituale della medesima”;
  • hanno conseguentemente cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa composizione, affinché proceda ad un nuovo esame del merito della questione alla luce dei principi giurisprudenziali sopra enunciati.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella.[:]

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separazione-e-soldi_smallIl caso:

Un ex marito ricorreva al Tribunale di Campobasso al fine di ottenere una riduzione dell’importo dell’assegno divorzile, dallo stesso versato in favore dell’ex moglie e quantificato concordemente concordato in sede di divorzio congiunto nella somma mensile di € 450,00, in considerazione:

  • della dedotta impossibilità per l’ex marito di continuare a vivere con il modesto importo di € 450,00, residuante dopo il pagamento del mutuo immobiliare contratto e del versamento del predetto assegno divorzile in favore della moglie;
  • del nuovo matrimonio dallo stesso contratto;
  • del mutamento in melius delle condizioni economiche dell’ex moglie, che, prima disoccupata, aveva da poco trovato un’occupazione lavorativa come badante, con una retribuzione mensile di € 500,00, superiore pertanto all’assegno dalla stessa percepito.

A fronte del rigetto del suo ricorso da parte della Corte d’Appello, il ricorrente, lungi dal darsi per vinto, adiva la Suprema Corte dolendosi dell’omessa considerazione da parte del giudice di merito delle dedotte circostanze di fatto da cui risultava evidente la sopravvenuta sproporzione reddituale tra le parti.

Il giudizio della Suprema Corte.

Di diverso avviso gli Ermellini, che dichiarano inammissibile il suo ricorso, evidenziando come il Giudice di secondo grado aveva considerato le circostanze dedotte dal ricorrente, giudicandole tuttavia ininfluenti ,alla luce del seguente principio di diritto enunciato dalle SS.UU. con la celeberrima sentenza n°18287 dell’11 luglio 2018 e recentemente ribadito dalla Suprema Corte, sez. I^, con ordinanza n°21926 del 30 agosto 2019: “L’assegno divorzile ha una imprescindibile funzione assistenziale, ma anche, e in pari misura, compensativa e perequativa. Pertanto, qualora vi sia uno squilibrio effettivo, e di non modesta entità, tra le condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi, occorre accertare se tale squilibrio sia riconducibile alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli all’interno della coppia e al sacrificio delle aspettative di lavoro di uno dei due. Laddove, però, risulti che l’intero patrimonio dell’ex coniuge richiedente sia stato formato, durante il matrimonio, con il solo apporto dei beni dell’altro, si deve ritenere che sia stato già riconosciuto il ruolo endofamiliare dello stesso svolto e – tenuto conto della composizione dell’entità e dell’attitudine all’accrescimento di tale patrimonio – sia stato già compensato il sacrificio delle aspettative professionali oltre che realizzata con tali attribuzioni l’esigenza perequativa, per cui non è dovuto, in tali peculiari condizioni, l’assegno di divorzio”.

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downloadIl caso

Con ricorso depositato il 5 luglio 2012, una signora cagliaritana adiva il Tribunale di Cagliari al fine di ottenere la modifica delle condizioni concordate in sede di separazione consensuale due anni prima, richiedendo un sostanzioso aumento dell’assegno separatizio in suo favore nonché di quello per la figlia alla luce della scomparsa del padre, il quale, sino ad allora, aveva garantito alla figlia e alla nipote un notevole sostegno economico.

Il Giudice di primo grado, accogliendo la domanda della moglie, poneva a carico del marito un assegno divorzile di € 800,00 e un assegno per il mantenimento della figlia minorenne pari ad € 2.000,00, oltre al 70% delle spese straordinarie, in misura peraltro maggiore rispetto a quella richiesta dalla stessa ricorrente.

Il marito proponeva reclamo avverso il predetto decreto, chiedendo di ridurre l’assegno di mantenimento della figlia nella misura di € 300,00, concordata in sede di separazione, revocando altresì l’assegno separatizio in favore della moglie.

La Corte d’Appello, tuttavia, con decreto n°1653/16, rigettava il reclamo rilevando:

  • che la morte del padre della moglie “…aveva determinato un rilevante mutamento delle sue condizioni facendo venir meno il consistente aiuto economico in favore della figlia e della nipote, aiuto che aveva consentito sino ad allora alla ___ di integrare il modesto importo dell’assegno previsto della separazione consensuale”;
  • che, sebbene la moglie avesse in astratto un’abilità lavorativa, essendo laureata e avendo conseguito l’abilitazione all’attività di giornalista, in concreto la “…la sua capacità reddituale è pressoché inesistente non avendo maturato, all’età di 50 anni, alcuna esperienza lavorativa”;
  • che non erano state comprovate dal reclamante né l’acquisto di un immobile da parte della moglie né un’asserita stabile convivenza con il nuovo compagno della stessa;
  • che l’aumento dell’assegno di mantenimento per la figlia – che all’epoca della separazione consensuale aveva 6 anni – poteva ben essere giustificata dalla presunzione di un incremento delle sue esigenze proporzionalmente alla sua età.

 

Il ricorso per cassazione

Il marito, lungi da darsi per vinto, proponeva ricorso per cassazione deducendo, inter alia:

  • che la Corte d’Appello avrebbe “…errato nel ritenere la morte del padre della M un mutamento di fatto tale da giustificare un mutamento delle condizioni economiche concordate in sede di separazione consensuale, trattandosi di un evento non eccezionale né imprevedibile”;
  • che la Corte d’Appello avrebbe violato il principio dispositivo confermando la sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto alla moglie una somma addirittura superiore a quella richiesta.

La decisione della Suprema Corte

Di diverso avviso gli Ermellini che, con l’ordinanza in oggetto, rigettavano il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali alla luce della seguente motivazione:

  • l’aggravarsi delle condizioni di salute del padre e la conseguente morte all’età di 71 annicostituiscono una circostanza sopravvenuta e rilevante ai fini della modifica delle condizioni economiche della separazione per il venire meno dell’importante contributo economico destinato dal padre della M al mantenimento della figlia e della nipote”;
  • il riconoscimento da parte del giudice di prime cure della somma di € 2.000,00 rispetto alla somma di € 1.800,00 richiesta con il ricorso introduttivo, “…ha comportato una elevazione solo per ciò che concerne la misura del contributo riconosciuto al mantenimento della figlia”. Ciò è pienamente legittimo alla luce del principio per cui “…per ciò che concerne la determinazione degli obblighi di mantenimento dei figli minorenni il giudice non è soggetto al principio della domanda”.

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separazione-e-soldi_smallCon sentenza n°32871 del 3 dicembre 2018, depositata in data 19 dicembre 2018, la I^ sezione della Corte di Cassazione è tornata nuovamente a chiarire le conseguenze della creazione di una nuova famiglia sul diritto del coniuge separato e/o divorziato all’assegno di mantenimento.

Il caso in esame

In accoglimento dell’appello promosso da un marito avverso la sentenza di separazione, con cui il giudice di prime cure aveva riconosciuto all’ex moglie il diritto a percepire un assegno separatizio, la Corte d’Appello di Perugia, con sentenza n°26/2015, revocava il predetto assegno di mantenimento:

  • ritenendo comprovata instaurazione di una famiglia di fatto da parte dell’appellata;
  • ritenendo applicabile al caso di specie la giurisprudenza di legittimità formatasi in punto di assegno divorzile.

Avverso la predetta sentenza ricorreva per cassazione la moglie, denunciando, con unico motivo, la “violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3” ritenendo che la Corte territoriale avrebbe errato:

  • nel qualificare quale convivenza more uxorio la sua nuova relazione, nonostante l’assenza dei caratteri di stabilità della predetta;
  • nel non “…aver accertato e valutato se, dalla nuova convivenza, la ricorrente ritraesse benefici economici idonei a giustificare la diminuzione dell’assegno o, addirittura, la sua revoca”.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, investita della questione, respinge tuttavia il ricorso, alla stregua della seguente condivisibile motivazione:

  • partendo dalla disciplina normativa relativa al divorzio, gli Ermellini evidenziano come l’art. 5, comma 10, L. div. preveda espressamente che “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”;
  • la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla celebre sentenza n°6855/15 ha poi esteso la causa estintiva di cui all’art. 5, co. 10, l. div. anche all’ipotesi in cui l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile abbia costituito una nuova famiglia, ancorché non fondata sul matrimonio, affermando il seguente principio di diritto: L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost., come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo(in senso conforme anche Cass., sez. V-1^, ordinanza n°2466 del 2016);
  • recentemente la Suprema Corte, con la recente sentenza n°16982/2018, ha enunciato il seguente analogo principio in punto di assegno separatizio: “In tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento che grava sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi “more uxorio” siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce “in melius” sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati”. (Cass. civ., sez. I^, sentenza n. 16982 del 27 giugno 2018).

La Corte, ribadendo il succitato principio, fornisce altresì i seguenti opportuni chiarimenti:

  • Il fondamento della cessazione dell’obbligo di contribuzione deve esser individuato, per quel che riguarda il divorzio ma anche la separazione personale, nel principio di autoresponsabilità, ossia nel compimento di una scelta consapevole e chiara, orgogliosamente manifestata con il compimento di fatti inequivoci, per aver dato luogo ad una unione personale stabile e continuativa, che si è sovrapposta con effetti di ordine diverso, al matrimonio, sciolto o meno che sia”;
  • come nel divorzio, “anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (per quanto – come si è già detto – il suo esito si renda assai probabile) si opera una rottura tra il preesistente “tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale” ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale”.

La Suprema Corte, da ultimo, enuncia il seguente ulteriore principio di diritto: “Anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (assai più che probabile) si opera una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale, con il conseguente riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venire definitivamente meno”.

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[:it]Il Data Protection Officer

Dal 25 maggio 2018, come tutti sanno, è entro in vigore il c.d. GDPR – General Data Protection Regulation– che ha introdotto obblighi stringenti per professionisti e imprese, volti ad elevare il livello di informazione e tutela dei dati personali.

Tra le novità di maggior rilievo vi è senza dubbio quella del c.d. Data Protection Officer (D.P.O), il quale, ai sensi dell’art. 37, viene designato dal titolare e dal responsabile del trattamento, “…ogni qualvolta: a) il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali; b) le attività principali del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento consistono in trattamenti che, per loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala; oppure c) le attività principali del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento consistono nel trattamento, su larga scala, di categorie particolari di dati personali di cui all’articolo 9 o di dati relativi a condanne penali e a reati di cui all’articolo 10”.

I ruoli assegnati ex art. 39 al D.P.O. risultano di triplice natura:

  • un ruolo di consulenza “interna” in quanto, ai sensi della lettera a) è chiamato a fornire “…consulenza al titolare del trattamento o al responsabile del trattamento nonché ai dipendenti che eseguono il in merito agli obblighi derivanti dal presente regolamento nonché da altre disposizioni dell’Unione o degli Stati membri relative alla protezione dei dati, nonché, ai sensi della lettera c) a fornire, quanto richiesto, un proprio parere motivato “in merito alla valutazione d’impatto sulla protezione dei dati”;
  • un ruolo di sorveglianza, ai sensi delle lettere b e c, del rispetto delle normative in materia di protezione dei dati personali;
  • di punto di raccordo con le autorità di controllo, con le quali è chiamato a cooperare.

 

Le origini della controversia dinnanzi al T.A.R.

In data 13 settembre 2018 è stata pronunciata la prima sentenza di un tribunale italiano in punto di DPO (Data Protection Officer).

Il ricorso da cui è scaturita la pronuncia in oggetto trae la propria origine da un avviso pubblico di un’azienda sanitaria volto all’assunzione di un soggetto per lo svolgimento non solo dei compiti espressamente individuati dall’art. 39 del GDPR ma anche delle seguenti ulteriori funzioni:

  • l’aggiornamento giuridico e impostazione organizzativo-metodologica per la gestione aziendale della privacy, per la redazione del registro dei trattamenti, per lo svolgimento di valutazioni di impatto sulla protezione dei dati (DPIA)”;
  • Risk assessment relativo alla sicurezza informatica e alla conformità rispetto alle normative in punto di privacy, esteso anche alla compliance rispetto alle misure indicate nella Circolare AgID n°2/2017;
  • la “partecipazione alle attività di formazione interna continua e specifica sulle tematiche della protezione dei dati”.

L’avviso, rivolto esclusivamente a personale esterno all’azienda sanitaria stessa, individuava tra i requisiti di partecipazione “…il possesso, in capo a ciascun candidato, del diploma di laurea in Informatica o Ingegneria Informatica, ovvero in Giurisprudenza o equipollenti, nonché la certificazione di Auditor/Lead Auditor per i Sistemi di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni secondo la norma ISO/IEC/27001…”.

Uno dei candidati, vedendosi dichiarata inammissibile la propria candidatura, si rivolgeva al Tribunale amministrativo territorialmente competente ritenendo:

  • da un lato che l’avviso pubblico risultasse di oscura interpretazione, non comprendendosi se il requisito del possesso della certificazione ISO/IEC/27001 fosse requisito alternativo o ulteriore rispetto al possesso di una laurea in informatica o in giurisprudenza;
  • dall’altro che il requisito del possesso di tale certificazione escludesse i laureati in giurisprudenza, quandanche le mansioni richieste fossero senza dubbio maggiormente confacenti ai laureati nella predetta materia.

 

La decisione del T.A.R.

Esaminata la questione, il Tribunale amministrativo accoglie il ricorso ritenendo illegittima la richiesta del possesso della certificazione ISO/IEC/27001 quale “titolo abilitante”. Ad avviso del T.A.R., infatti:

  • detto requisito appare ultroneo rispetto ai compiti del DPO, trovando la suddetta certificazione “…prevalente applicazione nell’ambito dell’attività d’impresa” e poiché “…non coglie la specifica funzione di garanzia insita nell’incarico conferito, il cui precipuo oggetto non è costituito dalla predisposizione dei meccanismi volti ad incrementare i livelli di efficienza e di sicurezza nella gestione delle informazioni ma attiene semmai alla tutela del diritto fondamentale dell’individuo alla protezione dei dati personali”;
  • di contro la “…minuziosa conoscenza e l’applicazione della disciplina di settore restano, indipendentemente dal possesso o meno della certificazione in parola, il nucleo essenziale ed irriducibile della figura professionale ricercata dall’Azienda, il cui profilo, per le considerazioni anzidette, non può che qualificarsi come eminentemente giuridico”.

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