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[:it]Il Data Protection Officer

Dal 25 maggio 2018, come tutti sanno, è entro in vigore il c.d. GDPR – General Data Protection Regulation– che ha introdotto obblighi stringenti per professionisti e imprese, volti ad elevare il livello di informazione e tutela dei dati personali.

Tra le novità di maggior rilievo vi è senza dubbio quella del c.d. Data Protection Officer (D.P.O), il quale, ai sensi dell’art. 37, viene designato dal titolare e dal responsabile del trattamento, “…ogni qualvolta: a) il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali; b) le attività principali del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento consistono in trattamenti che, per loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala; oppure c) le attività principali del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento consistono nel trattamento, su larga scala, di categorie particolari di dati personali di cui all’articolo 9 o di dati relativi a condanne penali e a reati di cui all’articolo 10”.

I ruoli assegnati ex art. 39 al D.P.O. risultano di triplice natura:

  • un ruolo di consulenza “interna” in quanto, ai sensi della lettera a) è chiamato a fornire “…consulenza al titolare del trattamento o al responsabile del trattamento nonché ai dipendenti che eseguono il in merito agli obblighi derivanti dal presente regolamento nonché da altre disposizioni dell’Unione o degli Stati membri relative alla protezione dei dati, nonché, ai sensi della lettera c) a fornire, quanto richiesto, un proprio parere motivato “in merito alla valutazione d’impatto sulla protezione dei dati”;
  • un ruolo di sorveglianza, ai sensi delle lettere b e c, del rispetto delle normative in materia di protezione dei dati personali;
  • di punto di raccordo con le autorità di controllo, con le quali è chiamato a cooperare.

 

Le origini della controversia dinnanzi al T.A.R.

In data 13 settembre 2018 è stata pronunciata la prima sentenza di un tribunale italiano in punto di DPO (Data Protection Officer).

Il ricorso da cui è scaturita la pronuncia in oggetto trae la propria origine da un avviso pubblico di un’azienda sanitaria volto all’assunzione di un soggetto per lo svolgimento non solo dei compiti espressamente individuati dall’art. 39 del GDPR ma anche delle seguenti ulteriori funzioni:

  • l’aggiornamento giuridico e impostazione organizzativo-metodologica per la gestione aziendale della privacy, per la redazione del registro dei trattamenti, per lo svolgimento di valutazioni di impatto sulla protezione dei dati (DPIA)”;
  • Risk assessment relativo alla sicurezza informatica e alla conformità rispetto alle normative in punto di privacy, esteso anche alla compliance rispetto alle misure indicate nella Circolare AgID n°2/2017;
  • la “partecipazione alle attività di formazione interna continua e specifica sulle tematiche della protezione dei dati”.

L’avviso, rivolto esclusivamente a personale esterno all’azienda sanitaria stessa, individuava tra i requisiti di partecipazione “…il possesso, in capo a ciascun candidato, del diploma di laurea in Informatica o Ingegneria Informatica, ovvero in Giurisprudenza o equipollenti, nonché la certificazione di Auditor/Lead Auditor per i Sistemi di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni secondo la norma ISO/IEC/27001…”.

Uno dei candidati, vedendosi dichiarata inammissibile la propria candidatura, si rivolgeva al Tribunale amministrativo territorialmente competente ritenendo:

  • da un lato che l’avviso pubblico risultasse di oscura interpretazione, non comprendendosi se il requisito del possesso della certificazione ISO/IEC/27001 fosse requisito alternativo o ulteriore rispetto al possesso di una laurea in informatica o in giurisprudenza;
  • dall’altro che il requisito del possesso di tale certificazione escludesse i laureati in giurisprudenza, quandanche le mansioni richieste fossero senza dubbio maggiormente confacenti ai laureati nella predetta materia.

 

La decisione del T.A.R.

Esaminata la questione, il Tribunale amministrativo accoglie il ricorso ritenendo illegittima la richiesta del possesso della certificazione ISO/IEC/27001 quale “titolo abilitante”. Ad avviso del T.A.R., infatti:

  • detto requisito appare ultroneo rispetto ai compiti del DPO, trovando la suddetta certificazione “…prevalente applicazione nell’ambito dell’attività d’impresa” e poiché “…non coglie la specifica funzione di garanzia insita nell’incarico conferito, il cui precipuo oggetto non è costituito dalla predisposizione dei meccanismi volti ad incrementare i livelli di efficienza e di sicurezza nella gestione delle informazioni ma attiene semmai alla tutela del diritto fondamentale dell’individuo alla protezione dei dati personali”;
  • di contro la “…minuziosa conoscenza e l’applicazione della disciplina di settore restano, indipendentemente dal possesso o meno della certificazione in parola, il nucleo essenziale ed irriducibile della figura professionale ricercata dall’Azienda, il cui profilo, per le considerazioni anzidette, non può che qualificarsi come eminentemente giuridico”.

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imagesIl 2017 ha segnato un nuovo anno rivoluzionario nel diritto di famiglia, soprattutto per ciò che attiene ai presupposti per la concessione (an debeautur) e la quantificazione (quantum debeatur) dell’assegno divorzile.

La Suprema Corte, a partire dalla sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ha mutato il suo precedente orientamento, statuendo che la verifica giudiziale sull’an debeatur debba informarsi al “… principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento … [del] la sussistenza delle relative condizioni di legge – ‘mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive’” – “…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”;

Di recente, tuttavia, il Tribunale di Roma, appare aver quantomeno mitigato l’applicazione dei suddetti principi, valutando “la mancanza dei mezzi adeguati” proprio alla luce del divario economico tra i coniugi e dello stile di vita goduto in costanza di matrimonio.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine dal ricorso con cui un facoltoso collega ha chiesto al Tribunale civile di Roma:

  • di pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’ex moglie;
  • di revocare l’assegnazione della casa familiare, di sua esclusiva proprietà, disposta in sede di separazione;
  • di disporre il versamento diretto del mantenimento in favore della figlia, studentessa universitaria residente a Milano;
  • di statuire che nulla era dovuto a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, in quanto la stessa, pur non lavorando, poteva contare su un considerevole patrimonio immobiliare ricevuto in eredità, nonchè di depositi in denaro, pensione e rendite da terreni boschivi.

Si costituiva l’ex moglie, non opponendosi alla pronuncia sullo status, chiedendo:

  • la conferma dell’assegnazione della casa coniugale, in quanto tuttora frequentata dalla figlia in occasione dei suoi soggiorni romani;
  • il versamento in suo favore di un assegno divorzile del considerevole importo di € 13.000,00;
  • il versamento di ulteriori € 1.700,00 a titolo di mantenimento per la figlia, opponendosi al mantenimento diretto della stessa da parte del padre.

La conferma dell’assegnazione della casa familiare

Alla base della richiesta di revoca dell’assegnazione della casa familiare, il ricorrente poneva la circostanza incontestata del venir meno del relativo presupposto, ovvero la permanenza dei figli nella casa familiare, e ciò in quanto:

  • il figlio maggiore, da tempo economicamente autosufficiente, risiedeva stabilmente in Inghilterra;
  • la figlia, anch’essa maggiorenne ma ancora alle prese con l’università, risiedeva stabilmente a Milano, pernottando nella casa familiare unicamente durante i suoi viaggi a Roma, in occasione delle festività e delle visite a parenti e amici.

Il Tribunale romano, tuttavia, rigetta la domanda attorea, confermando l’assegnazione alla madre della casa familiare “…sino alla sopravvenuta indipendenza economica della figlia…” alla stregua delle seguenti motivazioni:

  • dalle dichiarazioni rese in udienza dalle parti era emerso che la figlia, ancorché non residente più a Roma, aveva mantenuto un legame, anche affettivo, con l’abitazione familiare, ivi soggiornandovi durante periodi di vacanza e festività.
  • la ridotta frequenza dei periodi trascorsi a Roma non sarebbe idonea a interrompere detto legame tra la figlia e la casa coniugale, rappresentando quest’ultima per la stessa un “…punto di riferimento nella città e nel quartiere ove è cresciuta”.
  • La conferma dell’assegnazione della casa familiare alla madre avrebbe pertanto “…[al]lo scopo di garantire alla medesima la conservazione dell’ambiente domestico, quale centro di riferimento di consuetudini, affetti ed interessi”.

L’ordine diretto di pagamento del mantenimento in favore della figlia maggiorenne, economicamente non autosufficiente, non risiedente più quotidianamente con i genitori

Il Tribunale accoglie invece la richiesta di pagamento diretto del mantenimento in favore della figlia, proprio in considerazione “…(del)la mancanza di quotidiana convivenza fra madre e figlia giustifica”.

Ad avviso del Tribunale, infatti, “…la circostanza che allo stato la figlia, pur mantenendo lo stabile collegamento sopra detto con la ex casa coniugale assegnata alla madre, sia domiciliata a (omissis) per motivi di studio e faccia rientro a (omissis) dalla madre solo in occasione dei periodi di vacanza, comporta che sia maggiormente opportuno il versamento della somma di euro 1.500,00 direttamente in suo favore da parte del padre e del residuo importo (euro 200,00 mensili) in favore della madre ed in relazione alle spese necessarie, in proporzione al tempo da questa trascorso presso la casa di (omissis) alla gestione di tale immobile”.

Il diritto dell’ex coniuge all’assegno divorzile in considerazione dell’inadeguatezza dei mezzi, a loro volta considerati alla luce del divario economico tra le parti.

Passando poi alla determinazione della spettanza o meno dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, il collegio ripercorre puntualmente l’iter dei giudizi di separazione e di modifica delle condizioni di separazione, analizzando la situazione patrimoniale della resistente, confermando la debenza dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, reputando che la stessa avesse dimostrato “…di non disporre di mezzi adeguati e di non essere in grado di procurarseli per ragioni oggettive”.

Come espressamente ammesso dallo stesso Tribunale, il collegio è arrivato a tale conclusione “…all’esito della valutazione comparativa della complessiva condizione economica delle parti, dalla quale emerge un rilevantissimo divario economico tra le stesse che in alcun modo consente alla resistente, ove non colmato mediante l’assegno in questione di mantenere il medesimo elevato tenore di vita goduto della famiglia durante la convivenza coniugale”.

All’esito della fase istruttoria, era infatti emerso che:

  • il ricorrente, partner di un importante studio legale, vantava una “elevatissima capacità reddituale”, grazie a redditi professionali mensili di circa 30.000,00 euro oltre a immobili e partecipazioni societarie;
  • la resistente, di contro, percepiva un reddito mensile di circa € 1.000,00 a titolo di contributo AGEA per dei boschi siti in Sicilia, era proprietaria di beni immobili per un valore stimato dal C.T.U. di euro 1.827.000,00, disponeva di un fondo pensione e di circa € 80.000,00 su proprio conto corrente bancario.

Ad avviso del Tribunale la corresponsione di un assegno divorzile in favore dell’ex moglie era altresì pienamente conforme a quanto statuito dalla Suprema Corte, la quale, con la succitata sentenza n°11504/17 aveva ribadito: “…la natura assistenziale dell’assegno divorzile e da ciò ha enunciato il principio della “autoresponsabilità economica” degli ex coniugi, quale fondamento della valutazione relativa alla sussistenza del diritto della parte richiedente l’assegno (ad avviso della Suprema Corte infatti nella prima fase prevista dall’art. 5 della legge n. 898/70 e successive modificazioni – quella dell’an debeatur – occorre prescindere, nell’individuare l’adeguatezza o meno dei mezzi del richiedente l’assegno o comunque la sua possibilità di procurarseli, dal parametro del tenore di vita goduto durante la convivenza coniugale e dalla conseguente comparazione delle rispettive condizioni economiche degli ex coniugi e rifarsi piuttosto ad indici specificamente individuali dal giudice di legittimità e concernenti esclusivamente le condizioni del soggetto richiedente quali “1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza … della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.

In particolare, secondo il Tribunale:

  • era indubbio il “…rilevante divario economico tra le parti, tanto dal punto di vista reddituale, quanto da quello patrimoniale”;
  • dall’istruttoria era altresì emerso che la resistente, cinquantacinquenne non aveva mai svolto “…rilevante attività lavorativa nel corso del matrimonio (se non saltuariamente quale restauratrice) e non sembra avere, nonostante le normali condizioni di salute (nulla essendo stato rappresentato in contrario), effettive e concrete possibilità di lavoro personale, peraltro essendosi prevalentemente dedicata nel corso del matrimonio – nell’ambito di un progetto di vita condiviso dagli allora coniugi – al sostegno della brillante carriera del marito ed al soddisfacimento delle esigenze della famiglia e della casa”;
  • il godimento da parte della stessa della casa familiare non poteva essere presa in considerazione in quanto la medesima le sarebbe rimasta assegnata sino all’oramai prossima indipendenza economica della figlia;
  • i redditi derivanti dai contributi AGEA erano appena sufficienti a “provvedere a tutte le esigenze della ex casa coniugale assegnatale”;
  • il patrimonio immobiliare della resistente, ancorché consistente, era inidoneo a produrre elevato reddito da locazione, in quanto un immobile era concesso in comodato d’uso gratuito al padre della stessa; un ulteriore immobile di cui era proprietaria al 20% era abitato per motivi di studi dalla figlia; ulteriori due appartamenti in comproprietà tra i coniugi erano a disposizione per l’utilizzo della figlia; i rimanenti immobili erano ruderi dai quali poteva ricavare non più di € 5.000,00 annui.

Passando poi alla quantificazione del predetto assegno, il Tribunale romano ricorre ancora una volta al raffronto della “…condizione economica complessiva delle parti”, quantificandolo in € 6.500,00 mensili, reputandolo congruo sulla scorta:

  • del predetto divario economico tra i coniugi;
  • del “…l’apporto che ciascuna delle parti ha fornito alla costituzione del patrimonio familiare atteso che se è vero che il nucleo familiare è stato essenzialmente ed egregiamente sostenuto economicamente dal ricorrente in misura largamente prevalente è altrettanto innegabile (e non contestato) che la resistente, fondamentalmente casalinga, abbia provveduto a coordinare la gestione della casa e ad occuparsi della crescita dei figli, dedicandosi con successo alla cura delle relazioni sociali del marito, così fortemente necessaria in relazione alla professione da esso svolta ad elevatissimi livelli”;
  • della rilevante durata del matrimonio.

A sommesso avviso di chi scrive, il ragionamento del Tribunale romano non appare scevro da critiche ponendosi forsanche in contrasto con le linee tracciate dalla Suprema Corte nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ad avviso della quale:

  • il divario economico tra i coniugi entra in gioco non già nella determinazione dell’an debeatur ma esclusivamente nella sua eventuale successiva quantificazione;
  • pertanto a nulla rilevando la circostanza che, in costanza di matrimonio, i superiori redditi dell’ex coniuge avevano permesso un tenore di vita più elevato “…se è accertatoche (il richiedente) è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.

Di contro, il Tribunale appare aver dato peso al fine della determinazione dell’adeguatezza dei mezzi proprio a quel divario economico trai coniugi che in tale sede non dovrebbe affatto essere preso in considerazione.

L’applicazione rigida del criterio dell’indipendenza economica, infatti, avrebbe certamente dovuto condurre il Tribunale a ritenere sufficiente a garantire l’indipendenza economica della signora:

  • la percezione di un reddito certo di oltre € 1.000,00 mensili, somma che consente la sopravvivenza a diversi milioni di nostri concittadini;
  • la titolarità di diritti reali per oltre € 1.800.000,00 euro;
  • una pensione;
  • la disponibilità di € 80.000,00 sul conto corrente.

La sensazione che anima lo scrivente è che il Tribunale romano abbia tentato di lenire la durezza dei principi ribaditi dalla Suprema Corte in considerazione delle particolarità del caso concreto, volendo apprestare tutela a tutte quelle donne ultracinquantenni che abbiano dedicato, di comune accordo, tutta la propria vita alla cura della famiglia e della casa nonché ad una vita di relazioni sociali e che si ritrovino, dopo un’intera vita matrimoniale, a non poter contare sulla solidità economica dell’ex coniuge per poter continuare a condurre il medesimo stile di vita avuto per tutta una vita.

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[:it]download (1)La PAS (Sindrome da Alienazione Parentale)

Il fallimento della propria unione è difficile da accettare, ancor di più per i propri figli. È per questo che è importante fare capir loro che l’amore del papà e della mamma non verrà mai meno, perché padre e madre si resta anche dopo una separazione.

Aimè, tuttavia, nelle liti familiari che riempiono i tribunali italiani sta emergendo in modo sempre più preoccupante il fenomeno della c.d. alienazione parentale, definita dal celebre psichiatra americano Richard A. Gardner, come: «Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile».

Nella giurisprudenza degli ultimi anni il riferimento alla PAS sta divenendo sempre più recente, ancorché se l’esistenza e i connotati di questa patologia siano ancora discussi in ambito medico.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n°21215 del 13 settembre 2017, si è recentemente imbattuta in un caso di alienazione parentale degno di nota, anche per le misure assunte dai giudici nei primi gradi di giudizio al fine di porvi rimedio.

I primi gradi di giudizio.

La vicenda di cui ci si occupa trae origine da una delle tante cause di divorzio in cui, oltre alle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento per il coniuge e i figli, le parti hanno demandato al Tribunale di Napoli di pronunciarsi sul regime di affido e mantenimento di una figlia minore.

All’esito della CTU svoltasi in primo grado, da cui era emersa una forte manipolazione della bambina ad opera della madre –  tale da spingerla a provare risentimento nei confronti del padre sulla base di motivi artificiosi creati ad arte dalla madre e a rifiutarsi di incontrarlo – il Tribunale partenopeo aveva deciso:

  • di affidare la minore per un periodo di 6 mesi alla zia paterna, disciplinando puntualmente gli incontri dei genitori con la bambina
  • di porre a carico di ambedue i genitori un congruo assegno di mantenimento;
  • di rigettare la domanda di assegnazione della casa familiare e di assegno di mantenimento per il coniuge avanzata dalla madre.

La madre, tuttavia, propone ricorso avverso detta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Napoli, chiedendo di disporsi l’affido condiviso della figlia con collocamento prevalente presso la stessa.

La Corte di secondo grado, tuttavia non solo rigetta l’appello della madre ma decide – essendosi concluso il periodo di 6 mesi di affidamento della bambina alla zia paterna – di disporre l’affido esclusivo della piccola al padre, ponendo a carico dell’ex moglie un assegno di mantenimento di € 400,00 e disciplinando degli incontri protetti madre – figlia presso i Servizi Sociali.

Le risultanze della C.T.U.

Alla base della decisione, ancora una volta, gli esiti della C.T.U. svoltasi in primo grado che così ha descritto l’ex moglie, la quale:

  • “…mostra un tratto passivo aggressivo, alternando momenti in cui si percepisce vittima a momenti in cui perseguita lei stessa il C…. percepisce pericoli incombenti da cui difendersi e lottare ed è presente una spinta sadomasochistica con tendenza al vittimismo… tende a voler definire lei il ruolo paterno del sig. C., e durante i colloqui mostra un atteggiamento svalutante nei confronti del padre”;
  • “…non le [alla figlia] riconosce il diritto di amare il suo papà e, in maniera consapevole o inconsapevole, agisce con ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente…”;

Ancor più significative, poi, sono le risultanze con riferimento alla figlia, la quale:

  • “…in presenza della madre, si disperava dicendo di non voler andare con il padre ma, non appena la genitrice si allontanava, subito si rasserenava, confortata dall’affettuosità paterna”;
  • “…non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, nonché una coatta e forzosa ostilità verso il padre… si riscontra una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre…”.

Ad avviso dell’esperta nominata dal Tribunale, il condizionamento che aveva subito la minore era di tale entità da rendere insussistenti “…le condizioni per intraprendere un favorevole percorso terapeutico, al fine di agevole la ripresa dei contatti della bambina con il padre…” e da escludere altresì “…l’opportunità dell’affidamento della minore alla madre”.

Il giudizio in Cassazione

La madre decideva di ricorrere avverso detta sentenza sino alla Corte di Cassazione, eccependo che la decisione del giudice di secondo grado era fondata sulla diagnosi della sindrome d’alienazione parentale, senza che la Corte avesse provveduto “…alla verifica scientifica della teoria posta alla base della diagnosi”.

La Suprema Corte, tuttavia, rigetta l’appello della donna sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • preliminarmente, “…l’allegazione, nel ricorso per cassazione, di un mero dissenso scientifico, che non attinga un vizio nel processo logico seguito dalla Corte territoriale, si traduce in una inammissibile domanda di revisione nel merito del convincimento del giudice” (tra le molte, cfr. Cass. sez. I^, sent. 9.1.2009, n. 282);
  • la decisione della Corte d’Appello si è basata non solo sulla C.T.U. espletata ma anche sulle risultanze di uno specialista che ha seguito la bambina nel corso del giudizio d’appello, esprimendo le medesime valutazioni della consulente tecnica e alla conclusione dell’inidoneità della madre all’esercizio della responsabilità genitoriale;
  • dirimente per la decisione della corte d’appello non è stata la ricorrenza di una patologia, quale la PAS, bensì ma “…l’adeguatezza di una madre a svolgere il proprio ruolo nei confronti di una figlia minore che si trova in grave difficoltà, avrebbe bisogno del sostegno di entrambi i genitori, ma non riceve la collaborazione di cui ha bisogno dalla madre, in base alle univoche risultanze di causa…”;
  • la Corte d’Appello, infatti, ha correttamente fatto proprie le risultanze della CTU svoltasi in primo grado, dalla quale è emerso che “la P. ha cercato di esautorare il C., padre della piccola A. e di sostituirlo, nello svolgimento del ruolo paterno, con la figura del suo attuale compagno convivente. Infatti la stessa P. dichiarava che la figlia chiamava “papà” il compagno della mamma”.

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