[:it]

Il giudice civile, in caso di soccombenza totale di una parte, può oggi compensare le spese di giudizio, parzialmente o per intero, non solo nelle ipotesi di “assoluta novità della questione trattata” o di “mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti” ma anche quando sussistono “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.
Lo ha stabilito la sentenza 19 aprile 2018 n. 77 (relatore Giovanni Amoroso) con cui la Corte costituzionale ha ampliato l’ambito della compensazione delle spese rispetto alla riduzione effettuata dal legislatore nel 2014 allo scopo di contenere il contenzioso civile.
Si ricorda che il Decreto legge 132/2014, convertito nella legge n. 162/2014, aveva infatti sostituito la clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni” – con cui il giudice poteva derogare alla regola delle spese di lite a carico della parte totalmente soccombente – con due ipotesi tassative (oltre a quella della soccombenza reciproca): “l’assoluta novità della questione trattata” e il “mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti”.
Tuttavia, nonostante le modifiche restrittive, nella pratica applicativa si è sempre continuato a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione.

La Corte costituzionale ha ritenuto detta tassatività lesiva dei principi di di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto non comprendente altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa, come nel caso, ad esempio, di una norma di interpretazione autentica, di uno ius superveniens con effetto retroattivo;  di una sentenza di illegittimità costituzionale; di una decisione di una Corte europea; di  una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea o altre analoghe sopravvenienze che incidano su questioni dirimenti, da rimettersi necessariamente alla prudente valutazione del giudice della controversia.
Analogo discorso vale per l’altra fattispecie prevista dalla disposizione censurata –“l’assoluta novità della questione” – riconducibile, più in generale, a una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza e in relazione alla quale si possono ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, anch’esse riconducibili a “gravi ed eccezionali ragioni”.

Qui di seguito il testo della decisione:

Corte costituzionale
Sentenza 19 aprile 2018, n. 77
Presidente: Lattanzi – Redattore: Amoroso
[…] nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, promossi dal Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 30 gennaio 2016 e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritte rispettivamente al n. 132 del registro ordinanze 2016 e al n. 86 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2016 e n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di Antonio Benedetto, della REAR società cooperativa a rl, di Elvira Rasulova, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL);
udito nella udienza pubblica del 7 marzo 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati Alberto Piccinini e Amos Andreoni per Elvira Rasulova, Vincenzo Martino e Amos Andreoni per Antonio Benedetto, Giorgio Frus per la REAR società cooperativa a rl e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.
RITENUTO IN FATTO
1.- Il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudice del lavoro, con le ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio 2017, iscritte al n. 132 del 2016 e al n. 86 del 2017 del registro ordinanze, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162; disposizione questa che prevede che il giudice, se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero.
Le ordinanze fanno riferimento a plurimi parametri in parte coincidenti. Il Tribunale ordinario di Torino richiama gli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione; il Tribunale ordinario di Reggio Emilia deduce gli artt. 3, primo e secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111 Cost., nonché gli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e gli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.
Entrambi i giudici rimettenti incentrano i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione censurata sulla mancata previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Il solo Tribunale di Reggio Emilia deduce altresì la mancata considerazione del lavoratore ricorrente come parte “debole” del rapporto controverso al fine della regolamentazione delle spese processuali.
2.- In particolare, il Tribunale ordinario di Torino è investito del ricorso proposto da un socio lavoratore di una società cooperativa, con mansioni di addetto al controllo ingressi e alla viabilità, avente ad oggetto, in via principale, la domanda di ricalcolo retributivo in base ad un contratto collettivo diverso da quello applicato dalla datrice di lavoro, con conseguente richiesta di condanna della società resistente al pagamento delle relative differenze retributive; in via subordinata, il ricorso ha ad oggetto la domanda di condanna della società resistente al pagamento delle integrazioni contrattuali delle indennità legali di infortunio e malattia computate con riferimento al contratto collettivo applicato dalla società.
A fondamento della domanda il socio lavoratore ricorrente ha dedotto che la società aveva fatto applicazione di un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni datoriali e sindacali non sufficientemente rappresentative ed ha quindi chiesto l’applicazione, ai fini della verifica della congruità retributiva, di altro diverso contratto collettivo, già utilizzato in vertenze similari.
La società si è costituita ed ha chiesto il rigetto delle domande indicando, sempre ai fini del giudizio di congruità della retribuzione, quale termine di raffronto, un contratto collettivo ulteriormente diverso da quello invocato dal ricorrente. Quanto alla domanda subordinata, la resistente ha osservato che l’esclusione dell’integrazione contrattuale delle indennità legali di malattia e di infortunio aveva fatto seguito ad una delibera assembleare del 20 giugno 2011, approvata per garantire la sopravvivenza della società messa in stato di crisi, in conformità all’art. 6, comma 1, lettere d) ed e), della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore).
Ciò premesso, il rimettente, dopo aver disposto consulenza contabile, ha rigettato entrambe le domande con sentenza qualificata “non definitiva” e, con separata ordinanza, ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione del regolamento delle spese di lite; all’esito di discussione orale ha sollevato, d’ufficio, questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo novellato dall’art. 13, comma 1, del citato d.l. n. 132 del 2014, quale convertito in legge.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una sproporzione tra il fine perseguito – quello di «disincentivare l’abuso del processo» – e lo strumento normativo utilizzato, consistito nella «limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione» delle spese di lite. Mentre il testo, come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), era già «del tutto sufficiente a scongiurare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata».
Il medesimo parametro sarebbe poi violato – secondo il giudice rimettente – sotto il profilo del principio di eguaglianza, avuto riguardo alle situazioni contemplate dalla norma raffrontate, quali tertia comparationis, con quelle escluse, di pari gravità ed eccezionalità, individuate dalla giurisprudenza di legittimità.
Il tribunale rimettente deduce altresì la violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., in quanto la riduzione delle ipotesi di compensazione soltanto a due (oltre a quella tradizionale della soccombenza reciproca) «tende […] a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo (e punitivo) incongruo» nelle ipotesi in cui la condotta della parte, poi risultata soccombente, non integra casi di abuso del processo, ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona fede.
Parimenti sarebbe violato l’art. 111, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio del giusto processo, in quanto la disposizione censurata, consentendo la compensazione nei soli casi indicati, «limita il potere – dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo appropriato al caso concreto».
3.- Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Torino si sono costituite le parti del giudizio a quo, che hanno depositato memorie.
Il lavoratore socio ha aderito alle censure mosse dall’ordinanza di rimessione, ribadendo ciò con successiva memoria e concludendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
La società resistente ha rilevato in via preliminare che la regolamentazione delle spese di lite non è suscettibile di autonomo distinto giudizio, richiamando a tal proposito l’ordinanza n. 314 del 2008 di questa Corte. Nel merito sottolinea come la disposizione censurata non costituisca uno «strumento punitivo incongruo», essendo ragionevole porre, di regola, i costi del processo a carico di colui che lo ha attivato con esito negativo, e limitare la possibile compensazione delle spese di lite ad ipotesi tassativamente previste, stante il carattere eccezionale delle medesime.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. In particolare la difesa dell’interveniente afferma la ragionevolezza della individuazione da parte del legislatore, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui egli gode in materia processuale, di ipotesi specifiche e tassative che giustifichino la compensazione delle spese di lite. Si tratterebbe di una scelta che non entra in collisione con i parametri costituzionali che il giudice rimettente assume essere violati e che integrerebbe il giusto mezzo per conseguire la finalità deflativa al fine di «disincentivare» l’abuso del processo.
È intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), concludendo per l’ammissibilità dell’intervento e, nel merito, per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della censurata disposizione.
4.- Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia è investito di una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, azionata mediante ricorso proposto ai sensi dell’art.1, commi 48 e seguenti, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Si tratta di una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento intimatole in data 30 novembre 2015 dalla Italservizi srl (poi Agriservice MO srl in liquidazione) con decorrenza dal 31 dicembre 2015.
In particolare la lavoratrice ha agito nei confronti di numerosi convenuti (Burani Interfood spa, Servizi Commerciali Integrati srl, Agriservice MO srl e Burani Stefano Luigi personalmente ed in proprio), affermando l’esistenza «di un unico centro di imputazione giuridica o gruppo d’imprese e la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti», sicché l’intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei confronti di ognuno dei soggetti chiamati in causa.
Si è costituita, tra le altre parti, la Burani Interfood spa, che ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso essendo intervenuta il 25 gennaio 2016 la revoca del licenziamento da parte della Agriservice MO srl (successivamente in liquidazione).
All’esito della prima fase del procedimento (a cognizione sommaria) il rimettente ha pronunciato un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire della ricorrente per mancanza del licenziamento e, in merito alle spese di lite, ha condannato la lavoratrice al rimborso di quelle sostenute dalla attuale (almeno formalmente) datrice di lavoro Agriservice MO srl in liquidazione, mentre le ha compensate con riferimento alle altre parti convenute.
Nei confronti del capo dell’ordinanza relativo alla liquidazione delle spese della fase sommaria, la sola Burani Interfood spa ha proposto opposizione per la mancanza dei presupposti richiesti a tal fine dall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. e per l’assenza di motivazione in merito alla disposta compensazione per le altre parti, censurando infine la disparità di trattamento rispetto alla Agriservice MO srl.
Nel giudizio di opposizione si è costituita la lavoratrice per contestare in fatto e in diritto l’opposizione e ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., evidenziando come un’interpretazione rigida di tale disposizione determinerebbe un’illegittima riduzione della discrezionalità del giudice nella valutazione degli elementi idonei a giustificare la compensazione delle spese di lite.
Anche il Tribunale ordinario di Reggio Emilia chiede alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014, nella parte in cui – nelle cause di lavoro o di previdenza, nelle quali l’attore in primo grado è quasi sempre il lavoratore – non prevede il potere del giudice di valutare «i gravi ed eccezionali motivi» per compensare le spese di lite.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 24 e 111 Cost., in quanto la disposizione censurata «priva irragionevolmente il Giudice della essenziale funzione di giustizia, ovvero quella di adeguare la pronunzia alle peculiarità del modello processuale ed alle condizioni personali e circostanze concrete del caso di specie»; dà luogo alla manifesta violazione del principio di uguaglianza sostanziale «che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il soggetto più debole e costretto ad agire giudizialmente» per vedere accertata l’illegittimità del provvedimento datoriale, trattandosi, di regola, di «controversie a “controprova”»; «esercita di fatto una gravissima limitazione del diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia in danno del lavoratore», già gravato dagli oneri economici, non detraibili, del pagamento del contributo unificato, dell’anticipazione delle spese legali e dell’IVA; limita il diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia «in termini di pesante “deterrenza” in modo proporzionalmente (e vieppiù irragionevolmente) maggiore per quanto minore sia la capacità economica del lavoratore»; colpisce, irragionevolmente, anche la parte incolpevole che non ha «abusato» del processo o che non ha invocato diritti, «che a priori, sapeva essere inesistenti».
Inoltre, sempre ad avviso del rimettente, sarebbero violati gli artt. 25, primo comma, 102 e 104 Cost., in quanto l’intervenuto d.l. n. 132 del 2014 costituirebbe un’ingerenza del potere legislativo su quello giudiziario comprimendo oltremodo la discrezionalità del giudice.
Il tribunale rimettente deduce poi la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 47 CDFUE che esige l’effettività del diritto d’azione e di accesso alla giustizia e l’equità del processo, «quest’ultima irragionevolmente lesa da una sanzione che colpisce una parte che non ha “responsabilità” processuale (nelle cause “a controprova”)»; nonché in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, in rapporto al «diritto all’equo processo» ed al diritto ad un «ricorso effettivo», in quanto la modifica dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. in chiave specificamente deflativa, rappresenta un mezzo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito.
Altresì sarebbero violati gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in relazione al principio di non discriminazione, derivante dal divieto per il giudice di tener conto della condizione personale del lavoratore, «così pregiudicandone il diritto di azione proprio in ragione della limitata capacità economica, anche a prescindere da ragioni di “colpevolezza processuale”».
Il rimettente poi osserva che nel processo del lavoro sono frequenti le controversie cosiddette “a controprova”, nel senso che il lavoratore deve introdurle non disponendo di tutti i dati che incidono sulla legittimità, o meno, del provvedimento datoriale che egli ha già subito e di cui chiede al giudice il controllo di legittimità, da operare appunto all’esito dell’assolvimento della prova da parte del datore di lavoro convenuto in giudizio.
Con specifico riferimento alle controversie di lavoro, il rimettente deduce inoltre che il lavoratore, per introdurre la causa in primo grado, deve, di regola, sostenere l’onere del contributo unificato, l’anticipazione delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre all’IVA sulla prestazione dei professionisti; e tutti questi oneri, come pure quello eventuale delle spese di soccombenza, non sono detraibili. Al contrario, il datore, di regola, potrà recuperare l’IVA sulle prestazioni del difensore e detrarrà dal reddito la relativa parcella, come le spese di eventuale soccombenza.
In riferimento al principio di non discriminazione sancito nella CEDU, il rimettente osserva come la discriminazione vietata dall’art. 14 della Convenzione consista nel trattare in modo differente, salvo una giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone che si trovano in situazioni simili o analoghe e che una distinzione è discriminatoria se non persegua uno scopo legittimo o se non sussiste un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si è prefissata.
Quanto alla rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo pone in rilievo che la lavoratrice, originaria ricorrente nel procedimento per l’impugnazione del licenziamento, è convenuta in opposizione, dalla società cui non è stato ritenuto riconducibile il licenziamento, per essere condannata alla rifusione delle spese processuali sia della prima fase (sommaria), sia di quella attuale di opposizione; il rimettente afferma che la vicenda riveste una peculiarità oggettiva tale da rendere difficile una ricostruzione in fatto degli avvenimenti, per i numerosi passaggi subiti dal lavoratore da una società all’altra nonché per la necessità di procedere alla ricostruzione delle trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza delle quali le plurime aziende coinvolte, tra loro collegate di fatto o in diritto, hanno cambiato nome, assetto e composizione societaria, ceduto rami d’azienda ed effettuato altre intricate modifiche interne.
5.- Nel giudizio incidentale si è costituita la lavoratrice, depositando anche memoria, ed ha concluso per la fondatezza della questione.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. La difesa dell’interveniente svolge sostanzialmente le medesime argomentazioni già prospettate nell’altro giudizio incidentale, deducendo, in particolare, che nell’ambito di controversie in materia di lavoro, dove una delle parti in causa potrebbe risultare economicamente svantaggiata rispetto all’altra, l’indicazione tassativa delle ipotesi in cui è possibile procedere alla compensazione delle spese di lite non determina un effetto preclusivo del ricorso alla tutela giurisdizionale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta al n. 132 del registro ordinanze 2016, il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa, ossia l’«assoluta novità della questione trattata» e il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti».
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile promosso da un socio lavoratore di una società cooperativa, per ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per l’attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo ritenute applicabili ai sensi dell’art. 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), e dell’art. 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2008, n. 31. In via subordinata lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di un’integrazione contrattuale delle indennità previste in caso di infortunio e di malattia.
Il tribunale, pronunciandosi nell’instaurato contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata “non definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, concernente il regolamento delle spese di lite. In tale sede, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., con riferimento ai parametri suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale sia contraria al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un’eccessiva remora a far valere i propri diritti in giudizio.
Secondo il tribunale rimettente, nella specie, l’esito della lite, sfavorevole al lavoratore, è dipeso da elementi di fatto nuovi, non previsti né prevedibili: da una parte una contrattazione collettiva utilizzata parametricamente dal consulente tecnico d’ufficio per calcolare le rivendicate differenze retributive, la quale era diversa sia da quella applicata dalla società, sia da quella allegata dal lavoratore a sostegno della sua pretesa; d’altra parte una non conosciuta delibera della società che aveva (legittimamente) sospeso l’erogazione del trattamento integrativo di malattia e di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore.
2.- Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, per contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma; 24; 25, primo comma; 102; 104 e 111 Cost.; nonché degli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e degli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.
La questione è stata sollevata nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento, promossa con il rito di cui all’art. 1, comma 48, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), da una lavoratrice nei confronti non solo della società che aveva intimato il licenziamento, ma anche di altre società, sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase sommaria si concludeva con un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il licenziamento revocato. Quanto alle spese di lite il tribunale condannava la lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della società che aveva formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento; invece le compensava tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi della compensazione delle spese di lite e chiedendo la condanna della lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest’ultima ha resistito all’opposizione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.; eccezione che il giudice dell’opposizione ha accolto promuovendo l’incidente di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri sopra indicati e muovendo censure analoghe a quelle del Tribunale di Torino, nonché lamentando che non venga in rilievo la posizione del lavoratore quale parte “debole” del rapporto controverso.
Secondo il tribunale rimettente l’utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte non solo della società datrice di lavoro, ma anche di altre società, aveva creato l’apparenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro con conseguente grave incertezza in ordine a chi fosse il reale datore; sicché non ingiustificata appariva l’evocazione in giudizio delle varie società interessate.
3.- Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sono in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro trattazione congiunta mediante riunione dei giudizi.
4.- Va preliminarmente considerato che nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione del giudice del lavoro di Torino è intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), aderendo alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale.
L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa della società costituita hanno eccepito l’inammissibilità di tale intervento.
L’intervento è inammissibile.
La costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n. 237 e n. 82 del 2013, n. 272 del 2012, n. 349 del 2007, n. 279 del 2006 e n. 291 del 2001) è nel senso che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo.
Nella specie – essendo la CGIL titolare non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti – il suo intervento in questo giudizio deve essere dichiarato inammissibile.
5.- Ancora in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per mancata interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno, con motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata osservando che il recente ripetuto intervento del legislatore sulla disposizione censurata, di cui si dirà oltre, mostra chiaramente che si è inteso restringere sempre più la discrezionalità del giudice della controversia fino a definire le sole ipotesi che facoltizzano il giudice, in caso di soccombenza totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite; ipotesi che quindi sono tassative: la soccombenza reciproca ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Non è possibile pertanto estendere in via interpretativa tale facoltà del giudice ad altre ipotesi che parimenti consentano la compensazione delle spese di lite.
Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità della questione, anche in ragione della più recente giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime «perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)», ciò però non significa che «ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito» (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017).
6.- L’Avvocatura generale dello Stato ha inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per insufficiente descrizione della fattispecie.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno descritto in dettaglio la fattispecie al loro esame nei termini sopra riportati ed hanno chiaramente evidenziato la necessità di applicare nei giudizi a quibus la disposizione censurata in ordine alla quale hanno motivatamente argomentato i loro dubbi di legittimità costituzionale.
Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono quindi ammissibili, sotto l’indicato profilo, e sussiste altresì la loro rilevanza.
7.- C’è poi un ulteriore, più delicato, profilo di ammissibilità concernente le questioni oggetto dell’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Torino, che – come già rilevato – ha deciso con sentenza, qualificata “non definitiva”, tutto il merito della causa ed ha riservato solo la decisione sulle spese di lite, in riferimento alla quale, con distinta ordinanza, ha posto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte nell’ordinanza n. 395 del 2004 ha affermato che la regolamentazione delle spese, in quanto accessoria alla decisione di merito, non è suscettibile di un autonomo giudizio.
La citata ordinanza ha riguardato una situazione analoga: quella di un giudice rimettente (di primo grado) che, nel censurare il medesimo art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., aveva parimenti deciso, con sentenza, il merito della causa disponendo con ordinanza la sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria sulle spese legali, perché, ritenendo di dover fare uso della facoltà di compensarle, ai sensi della citata disposizione nel testo originario, dubitava della legittimità costituzionale di tale norma, «così come interpretata dalla giurisprudenza pressoché univoca e costante della Suprema Corte», secondo cui non vi era alcun obbligo di motivare il capo della sentenza col quale fosse disposta la compensazione delle spese «per giusti motivi», trattandosi di statuizione discrezionale, assistita da una presunzione di conformità a diritto.
Questa Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, affermando che «il “diritto vivente” in questione […] si risolve in una regola – insindacabilità della compensazione delle spese non motivata – della quale è diretto destinatario il giudice dell’impugnazione, e solo indirettamente il giudice munito del potere (discrezionale) di disporre la compensazione delle spese del giudizio da lui definito». Sicché il canone dell’insindacabilità della motivazione della compensazione delle spese di lite, all’epoca ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità, costituiva regola di giudizio per il giudice dell’impugnazione, legittimato in ipotesi a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale, ma non già per un giudice di primo grado, quale era il giudice rimettente. Da ciò, l’inammissibilità manifesta della questione di legittimità costituzionale.
La Corte però ha poi aggiunto – seppur senza che ciò costituisse, o concorresse a costituire, la ratio decidendi della pronuncia di inammissibilità – che il giudice rimettente comunque «aveva consumato il suo potere decisorio». In ragione di ciò si potrebbe ora sostenere che anche il Tribunale ordinario di Torino abbia esaurito il suo potere decisorio dopo essersi pronunciato su tutto il merito della causa, di talché la questione di legittimità costituzione sarebbe, sotto tale profilo, inammissibile.
8.- In realtà, la questione è ammissibile anche sotto questo profilo.
Nel processo civile una sentenza non definitiva è possibile allorché il giudice di primo grado – qual è il rimettente Tribunale ordinario di Torino – limiti la sua decisione alla questione di giurisdizione, o a questioni pregiudiziali o preliminari di merito, o anche solo ad alcune questioni di merito impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa (art. 279, secondo comma, cod. proc. civ.). Il giudice infatti può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e sempre che la loro «sollecita definizione» sia di «interesse apprezzabile» per la parte che ne abbia fatto istanza (art. 277, secondo comma, cod. proc. civ.).
Ma se il giudice decide totalmente il merito della causa, accogliendo o rigettando tutte le domande, emette una sentenza definitiva, alla quale si accompagna la pronuncia sulle spese di lite, che – come già rilevato da questa Corte (nell’ordinanza n. 314 del 2008, richiamata dalla difesa della società costituita) – ha «natura accessoria» rispetto alla decisione sul merito. Non di meno però la decisione sulle spese di lite ha una sua distinta autonomia nella misura in cui è possibile l’impugnativa di questo solo capo della sentenza definitiva sicché, in tale evenienza, il giudizio di impugnazione è destinato ad avere ad oggetto la sola regolamentazione delle spese di lite.
Questo legame di accessorietà della pronuncia sulle spese alla sentenza che decida tutte le questioni di merito non è quindi indissolubile e, in particolare, è recessivo allorché il giudice – come il Tribunale ordinario di Torino – abbia un dubbio non manifestamente infondato in ordine soltanto alla disposizione che governa le spese di lite e di cui egli debba fare applicazione.
Il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), coniugato con il favor per l’incidente di legittimità costituzionale – il quale preclude che alcun giudice possa fare applicazione di una disposizione di legge della cui legittimità costituzionale dubiti – suggerisce che non sia ritardata la decisione del merito della causa rispondendo ciò all’«interesse apprezzabile» delle parti alla «sollecita definizione» di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della disposizione indubbiata (ex art. 277, secondo comma, citato). Del resto, come argomento a fortiori, può richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto, al fine dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, che il potere decisorio del giudice rimettente non venga meno neppure quando egli abbia, al contempo, adottato la misura cautelare richiesta da una parte e, con separato provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare investendo questa Corte con incidente di legittimità costituzionale proprio sulla disposizione di cui abbia fatto applicazione provvisoria e temporanea (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2013, n. 236 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008; ordinanza n. 25 del 2006).
Si ha quindi che, nella specie, non erroneamente il Tribunale ordinario di Torino non ha sacrificato l’interesse delle parti alla sollecita decisione del merito – segnatamente, di tutto il merito – della causa ed ha legittimamente limitato la sospensione del giudizio, obbligatoria ex art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a quanto strettamente necessario per la decisione della questione di legittimità costituzionale.
La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello stesso tribunale, della sentenza che ha deciso tutto il merito della causa, come pronuncia “non definitiva” anziché “definitiva” ex art. 279 cod. proc. civ., rileva al fine non già dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, ma del regime dell’impugnazione di tale pronuncia quanto alla possibilità, o no, della riserva facoltativa d’appello ex art. 340 cod. proc. civ.
9.- Nel merito la questione, sollevata congiuntamente dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, è fondata.
10.- La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile risponde alla regola generale victus victori fissata dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizione dell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civile del 1865 – prevede che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa». Quindi la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite. L’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito affermato che «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento» (sentenza n. 135 del 1987).
La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.). Il «normale complemento» dell’accoglimento della domanda – ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa.
Ma non è una regola assoluta proprio in ragione del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite, come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato un’ipotesi di contenzioso – il processo tributario prima della riforma del 1992 – in cui non era affatto prevista la regolamentazione delle spese di lite sì che la parte soccombente non ne sopportava l’onere e la parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha infatti affermato questa Corte (sentenza n. 196 del 1982) che «l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile»: come è consentito al giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni di cui al secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. (disposizione attualmente censurata), così rientra nella discrezionalità del legislatore modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite. Analogamente, con riferimento al giudizio di opposizione a sanzioni amministrative, questa Corte (ordinanza n. 117 del 1999) ha ribadito che «l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge – con riguardo al tipo di procedimento – in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale». Parimenti è stata ritenuta non illegittima una regola di settore che, all’opposto, escludeva in ogni caso la compensazione delle spese di lite in ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento del danno esercitata nel processo penale dalla parte offesa costituitasi parte civile nel regime precedente la riforma del codice di procedura penale del 1987 (sentenza n. 222 del 1985).
Ampia quindi è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2012, n. 446 del 2007 e n. 158 del 2003) e segnatamente nel regolamentare le spese di lite. Sicché è ben possibile – ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del 2014) – «una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982), non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del 1999)».
11.- Muovendo da questa affermata possibile derogabilità della regola che prescrive la condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno ora esaminate le censure mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimettenti, che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a tale regola. Le quali, da epoca risalente e per lungo tempo, sono state affidate ad una clausola generale che chiamava in gioco la discrezionalità del giudice al momento della decisione della causa. Disponeva infatti il secondo comma dell’art. 370 cod. proc. civ. del 1865: «Quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte». Il secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. del 1940 ha ripetuto la stessa norma derogatoria: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». Nella relazione al Guardasigilli per la redazione del nuovo codice di procedura civile si espresse l’opzione di dare continuità all’analoga disposizione del codice di rito del 1865 e, con riferimento alla facoltà demandata al giudice di compensare le spese di lite, oltre al caso di soccombenza parziale, anche quando ricorressero «motivi giusti» – che, con mera inversione testuale sarebbero diventati «giusti motivi» – si evidenziò che «tale regola […] risponde ad un evidente criterio di giustizia», ritenendo non «attendibili» alcune osservazioni in senso critico rivolte da una parte della dottrina contro questa clausola generale, la quale affidava tale criterio derogatorio, nel momento della decisione della lite, al prudente apprezzamento del giudice, che era quello che meglio conosceva le peculiarità della causa.
La norma espressa dal secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ., attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, è rimasta per lungo tempo invariata anche in occasioni di profonde riforme del codice di rito, quale quella del 1950 apportata con la legge 14 luglio 1950, n. 581 (Ratifica del decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile) e quella del 1990 introdotta con la legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile); ma non è rimasta immune da critiche di parte della dottrina. Ed in effetti, già nella vigenza dell’art. 370 cod. proc. civ. del 1865, un’autorevole dottrina del tempo aveva denunciato l’abuso nella pratica della compensazione per i motivi più vari.
Il punctum dolens era la motivazione dei «giusti motivi» che facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il principio di diritto, che era stato alla fine fissato in una tralaticia massima di giurisprudenza, affermava che la valutazione dei «giusti motivi» per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 luglio 2005, n. 14989).
Sempre più però si poneva in discussione questo orientamento giurisprudenziale fino al radicarsi di un vero e proprio contrasto, poi composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che operarono una significativa correzione di rotta affermando che la decisione di compensazione, totale o parziale, delle spese di lite per «giusti motivi» dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598).
12.- Intanto il legislatore era intervenuto ed aveva modificato, dopo quasi centocinquant’anni, la norma in questione confermando sì la clausola generale dei «giusti motivi», quale presupposto della compensazione delle spese di lite, ma richiedendo che questi fossero «esplicitamente indicati nella motivazione» (art. 2, comma 1, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, recante «Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato»).
La prescrizione dell’espressa indicazione dei «giusti motivi» nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite. L’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), ha così riformulato il secondo comma dell’art. 92: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
I «giusti motivi» sono diventati le «gravi ed eccezionali ragioni»: ciò significava che il perimetro della clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità – che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte – che una più estesa applicazione della regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile.
13.- Al fondo di questo contesto riformatore è la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera.
Da ciò l’adozione, in epoca recente, di istituti processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR (Alternative Dispute Resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale. Nella stessa linea è la previsione in generale, nel codice di rito (art. 185-bis cod. proc. civ.), di un momento processuale che vede la formulazione della proposta di conciliazione ad opera del giudice, introdotta in generale dall’art. 77, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, generalizzando quanto era già stato stabilito, qualche anno prima, per le controversie di lavoro attraverso la modifica dell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., introdotta dall’art. 31, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).
Per altro verso, quando non di meno la lite arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare giustificato che l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente secondo una più stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di «gravi e eccezionali ragioni» la facoltà per il giudice di compensare le spese di lite.
Questo raggiunto equilibrio è stato però alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ.
14.- Da ultimo infatti, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato ancora oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: non più la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», ma due ipotesi nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
Così ha disposto, da ultimo, l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014 (norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014). Si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge n. 132 del 2014: «Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione».
Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti.
15.- Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa.
La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Questa evenienza sopravvenuta – che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito – non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 11 luglio 2011, n. 15144).
Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» – sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia.
Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni».
Del resto la stessa ipotesi della soccombenza reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente nominate dalla disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a compensare le spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice che è chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto più che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata l’ipotesi di soccombenza reciproca anche in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438).
Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.
16.- Per la riconduzione a legittimità della disposizione censurata può anche considerarsi che più recentemente lo stesso legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi anni, è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Infatti, dopo l’introduzione della disposizione attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo tributario. In particolare l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 (Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6 e 10, comma 1, lettere a e b, della legge 11 marzo 2014, n. 23), ha sostituito gli originari commi 2 e 2-bis dell’art. 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega governativa nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991 n. 413) ed ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere espressamente motivate.
Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l’«assoluta novità della questione trattata» ed il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» – hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale.
Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizione dell’art. 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.
17.- L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, Cost. – indicati da entrambe le ordinanze di rimessione – comporta l’assorbimento della questione in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (artt. 25, primo comma; 102 e 104 Cost.; nonché, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perché tutti orientati ad ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.
Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro.
La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente – un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l’effetto opposto.
Sarebbero altresì violati, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., anche gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, «sulla ricchezza» o su «ogni altra condizione» (art. 14 CEDU) o sul «patrimonio» (art. 21 CDFUE).
18.- La questione non è fondata.
Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo comma dell’art. 111 Cost. secondo cui «[o]gni processo si svolge […] tra le parti, in condizioni di parità». Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” – ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio – trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione».
Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la disposizione censurata che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite – le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di «gravi e eccezionali ragioni» – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso.
Finanche la legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) – la quale pur conteneva disposizioni ispirate al favor per questo contenzioso al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle che prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11) – non aveva derogato al disposto dell’art. 92 cod. proc. civ., quanto alla condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni caso per il lavoratore operava la regola generale della condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la facoltà per il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale, all’epoca vigente, dei «giusti motivi». Ed opera tuttora la stessa regola, salva la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano, secondo la disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dal secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ., oltre – a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – anche altre analoghe «gravi ed eccezionali ragioni».
Solo per le controversie in materia previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed assistenza l’art. 9 della legge n. 533 del 1973 aveva sostituito l’art. 152 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, disponendo che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non fosse manifestamente infondata e temeraria; disposizione questa, peraltro anticipata, in una portata più limitata, dal dettato dell’art. 57 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) e successivamente estesa anche alle controversie di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del 1979.
Ma il collegamento dell’esonero con la condizione di «non abbiente» è stato dapprima prefigurato, come possibile, da questa Corte (sentenza n. 135 del 1987) e poi posto a fondamento della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, in legge 14 novembre 1992, n. 438, per aver, tale disposizione, operato un’indiscriminata abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti (sentenza n. 134 del 1994); esonero poi ripristinato dall’art. 42, comma 11, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, in favore della parte soccombente che risulti «non abbiente», essendo l’esonero condizionato all’integrazione di un requisito reddituale significativo della debolezza economica del ricorrente (ordinanza n. 71 del 1998).
Quindi da una parte la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa comportare siffatto esonero.
La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente «non abbiente», e quindi “debole”, risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo comma dell’art. 38 Cost., che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito.
Invece la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) – per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimento all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nel testo vigente fino al 2009; ma lo stesso può affermarsi nell’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiarazione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – segnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle «gravi ed eccezionali ragioni» che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite.
19.- Né la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori basati sul censo.
La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. con l’innesto della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Si sono già ricordate le disposizioni di favore contenute negli artt. 10 e 11 della legge n. 533 del 1973 (peraltro successivamente abrogati); ad esse può aggiungersi anche l’art. 13, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», il quale prevede che il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego.
Più in generale può dirsi che è rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione (art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002).
20.- In conclusione risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. – un’ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile l’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d. l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014, sollevate, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

[:]

[:it]

Alcune modifiche al Codice Deontologico ForensePubblicata nella Gazzetta Ufficiale la delibera del Consiglio Nazionale Forense del 23 febbraio 2018 che ha modificato integralmente l’art. 20,  e  l’art. 27,  comma 3, del Codice Deontologico Forense.

Qui di seguito il testo degli articoli modificati:
«Art. 20 – Responsabilità disciplinare»
1. La violazione dei doveri e delle regole di condotta di cui ai precedenti articoli e comunque le infrazioni ai doveri e alle regole di condotta imposti dalla legge o dalla deontologia costituiscono illeciti disciplinari ai sensi dell’art. 51, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247.
2. Tali violazioni, ove riconducibili alle ipotesi tipizzate ai titoli II, III, IV, V e VI del presente codice, comportano l’applicazione delle sanzioni ivi espressamente previste; ove non riconducibili a tali ipotesi comportano l’applicazione delle sanzioni disciplinari di cui agli articoli 52 lettera c) e 53 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, da individuarsi e da determinarsi, quanto alla loro entità, sulla base dei criteri di cui agli articoli 21 e 22 di questo codice.

«Art. 27 – Dovere di informazione»
Comma 1 e 2 invariati.
Comma 3. L’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve informare chiaramente la parte assistita della possibilità di avvalersi del procedimento di negoziazione assistita e, per iscritto, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; deve altresì informarla dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge

Comma da 4 9 invariati.

[:]

[:it]

downloadI fatti di causa:

La Suprema Corte – con ordinanza n°31207 del 29 Dicembre 2017, pubblicata il 28 aprile 2018 – si è pronunciata su un ricorso per cassazione proposto da una società avverso la sentenza con cui la C.d’A. dell’Aquila, confermando la decisione del Tribunale di Vasto, l’aveva condanna a risarcire i danni conseguenti alla mancata costituzione di un rapporto di lavoro con una sua dipendente, in ottemperanza a quanto era stato previamente disposto con provvedimento cautelare.

Nel predetto giudizio si costituiva la stessa lavoratrice, eccependo l’inammissibilità del predetto ricorso “…per tardività della notifica in quanto effettuata oltre le ore 21.00 dell’ultimo giorno utile. Su proposta del relatore, il Presidente della VI^ sezione fissava con decreto la camera di consiglio, al fine di chiarire “…se la notifica telematica effettuata dopo le 21.00 del giorno di scadenza del termine per proporre il ricorso sia o meno tempestiva”.

L’iter argomentativo seguito dalla Corte

Partendo dal dato legislativo, la Corte chiarisce come l’art.3-bis, comma 3, della L. n. 53 del 1994, aggiunto dalla L. n°221/2012, distingue “… la posizione di chi effettua la notifica e di chi la riceve, prevedendo che “La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’art. 6, comma 2″ medesimo D.P.R. 12. Quindi, per il soggetto notificante la notifica si perfeziona nel momento in cui la richiesta viene accettata dal sistema, generando la ‘ricevuta di accettazione’”.

Ratio della suddetta scissione discende dall’opportunità che non ricadano “…sul soggetto che effettua la notifica ritardi derivanti da meccanismi che egli non governa e sui quali non ha possibilità di incidere”.

Ciò chiarito, la Suprema Corte, interrogandosi sui “…termini entro i quali una notifica deve essere fatta e quindi, rimanendo nell’ottica del soggetto notificante, entro i quali egli deve richiedere la notifica”, rileva come lo stesso Legislatore del 2014, in sede di lavori parlamentari, si fosse interrogato sull’applicabilità alle notifiche telematiche del disposto dell’art. 147 c.p.c. – ai sensi del quale “Le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21” – risolvendo la predetta questione mediante la previsione, operata con la  L. n°114/14, che: “La disposizione dell’art. 147 codice di procedura civile si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”, con conseguente “…applicabilità dei limiti temporali fissati dalla norma del codice per le notificazioni tradizionali anche alle notificazioni telematiche”.

Il legislatore, pertanto:

  1. ha esteso “…le delimitazioni di orario dettate per le notificazioni effettuate tramite ufficiale giudiziario anche alle notificazioni telematiche”;
  2. ha trasformato, nelle notificazioni telematiche “…quello che nell’art. 147 è un divieto di compiere materialmente l’atto in un meccanismo per cui la notificazione se viene comunque eseguita, ‘si considera perfezionata’ solo alle 7 del giorno dopo”;
  3. nel considerare perfezionate le notifiche telematiche eseguite dopo le ore 21 del giorno precedente dalle ore 7:00 del giorno successivo, “non ha distinto la posizione del notificante da quella del destinatario della notifica”.

Ad avviso degli Ermellini, a ciò consegue che, in applicazione della regola generale di cui all’art. 3-bis della L.53/94, nel caso di notifica telematica:

  • “…se il notificante ha richiesto la notifica prima delle 21 e la consegna è avvenuta dopo le 21, la notifica si è perfezionata quel giorno, in quanto rimane fermo che per lui ciò che vale è la ricevuta di accettazione della richiesta …”;
  • se invece egli ha richiesto la notifica dopo le 21, il perfezionamento, per espressa previsione normativa, si considera avvenuto alle 7 del giorno dopo”.

Detta interpretazione, ad avviso della Suprema Corte:

  • sarebbe, d’altronde, quella “…condivisa dalla maggior parte dei giudici di merito che si sono pronunciati e dalla Corte di cassazione nei suoi due precedenti: Cass. sez. lav., 4 maggio 2016, n. 8886 e Cass., sez. terza, 21 settembre 2017, n. 21915”;
  • non violerebbe il diritto di difesa del notificante “…che rimane nella medesima condizione di chi notifica con metodo tradizionale o di chi sceglie la notifica a mezzo posta ed è soggetto ai limiti di orario degli uffici postali”;
  • non violerebbe “…il principio di uguaglianza per il tramite di una pretesa irragionevolezza nel trattare in modo simile situazioni difformi, in quanto la possibilità di porre medesimi o analoghi limiti temporali a soggetti che scelgono di adottare tecniche di notifica diverse rientra nello spazio decisionale riservato al legislatore”.

La Corte, pertanto, conclude, dichiarando l’inammissibilità del ricorso, alla luce del seguente condivisibile principio di diritto: “Ai sensi del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-septies convertito con modificazioni nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, qualora la notifica con modalità telematiche venga richiesta, con rilascio della ricevuta di accettazione, dopo le ore 21.00, si perfeziona alle ore 7.00 del giorno successivo. È pertanto inammissibile, perchè non tempestivo, il ricorso per cassazione la cui notificazione sia stata richiesta, con rilascio della ricevuta di accettazione dopo le ore 21.00 del giorno di scadenza del termine per l’impugnazione”.

[:]

[:it]downloadLa Suprema Corte, con ordinanza n°402 del 21 settembre 2017, depositata in data 12 gennaio 2018, si è pronunciata su un ricorso presentato dalla Prefettura di Genova a seguito dell’annullamento da parte del G.d.P. di Genova, confermato in secondo grado, di un’ordinanza d’ingiunzione di pagamento notificata ai sensi dell’art. 140 c.p.c. per incompletezza della relativa relata.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un cittadino avverso un’ordinanza d’ingiunzione notificatagli dalla Prefettura di Genova ai sensi dell’art. 140 c.p.c., eccependo la mancata contestazione dell’illecito.

Il giudice di primo grado accoglieva le lagnanze attoree “…in dipendenza della buona fede dell’opponente”.

La Prefettura decideva di impugnare la decisione dinnanzi al Tribunale di Genova, il quale, tuttavia, rigettava il suddetto gravame rilevando che la dicitura presente sulla relata “stante l’impossibilità di eseguire la consegna del presente atto per irreperibilità/incapacità/rifiuto delle persone di cui all’art. 139 c.p.c.” – era estremamente equivoca, giacché la formulazione adoperata era “assolutamente inidonea ad attestare l’esistenza di uno di presupposti legittimanti“.

La Prefettura, lungi dal desistere, presentava ricorso per Cassazione deducendo:

  • che “nel caso di specie l’impossibilità di eseguire la consegna ha riguardato non già il destinatario dell’atto – che se rifiuta di ricevere l’atto, la notificazione si considera “fatta in mani proprie” ai sensi dell’art. 138 c.p.c., comma 2, – ma le persone legittimate ai sensi dell’art. 139 c.p.c.; che conseguentemente le attestazioni di cui alla relata di notificazione sono senz’altro idonee a dar ragione del legittimo ricorso all’iter notificatorio ex art. 140 c.p.c.”;
  • che “…non ha alcun rilievo la mancata indicazione delle generalità delle persone che si sarebbero rifiutate di ricevere l’atto”.

Il ragionamento della Suprema Corte

Gli Ermellini, tuttavia, rigettano il ricorso sulla base del seguente condivisibile iter argomentativo:

  • “…la speciale forma di notificazione prevista dell’art. 140 c.p.c., è consentita soltanto quando non sia possibile la notificazione a mani proprie o nella residenza, dimora o domicilio ai sensi degli artt. 138 e 139 c.p.c., e la sussistenza di tali presupposti deve risultare in modo inequivoco dalla relazione di notificazione, a pena di nullità…”(sul punto, Cass. 31.7.2007, n°16899).
  • “…il ricorso alla procedura di notifica di cui all’art. 140 c.p.c., presupponendo la non conoscenza o la non conoscibilità dell’indirizzo del destinatario, richiede che l’organo delle notificazioni indichi specificamente le ragioni per cui non ha potuto procedere secondo le forme previste dall’art. 139 c.p.c.” (cfr. Cass. 18.9.2009, n°20098);
  • a ciò consegue che, come prospettato dall’opponente-controricorrente, “…la relazione di notificazione indichi ‘tutte le ragioni previste dalla legge indistintamente senza precisare quale di queste fosse effettivamente riscontrabile in concreto, equivale a non indicarne nessuna’”.

[:]

[:it]

downloadLa Suprema Corte, con ordinanza n°30139 del 14 dicembre 2017 è ritornata sull’annosa questione della necessità o meno di indicare un domiciliazione fisica, a seguito dell’introduzione – ad opera dell’art. 16 sexies del D.L. n°170/12, convertito con L. n°114 dell’11 agosto 2014 –della c.d. domiciliazione “digitale”, ovvero dell’indirizzo pec comunicato dall’avvocato al proprio ordine di appartenenza.

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato a seguito della valutazione, da parte di un Tribunale, della piena validità della notificazione di un atto di appello avvenuta presso la cancelleria del Giudice di pace, e non mediante invio di una pec al difensore domiciliatario patrocinante extra districtum ovvero alla società dallo stesso rappresentata, nonostante i suddetti indirizzi fossero reperibili rispettivamente dal REGINDE e dall’INIPEC.

La III^ sezione accoglie il ricorso del ricorrente alla luce della seguente condivisibile iter motivazionale.

Partendo dal dato normativo, i giudici transtiberini osservano che:

  • l’art. 16 sexies del D.L. n°179/12 prevede testualmente: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”;
  • “…tale norma, dunque, nell’ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., per il giudizio di cassazione), impone alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo PEC risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, (codice dell’amministrazione digitale) ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. n. 44 del 2011, gestito dal Ministero della giustizia, escludendo che tale notificazione possa avvenire presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo PEC, per causa da addebitarsi al destinatario della notificazione”;
  • che, tale prescrizione, in aggiunta, “…prescinde dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l’indirizzo PEC del difensore, stante l’obbligo in capo ad esso di comunicarlo al proprio ordine e dell’ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE”;
  • che, pertanto, la norma in esame “…svuota di efficacia prescrittiva anche il R.D. n. 37 del 1934, art. 82, posto che, stante l’obbligo di notificazione tramite PEC presso gli elenchi/registri normativamente indicati, potrà avere un rilievo unicamente in caso, per l’appunto, di mancata notificazione via PEC per causa imputabile al destinatario della stessa, quale localizzazione dell’ufficio giudiziario presso il quale operare la notificazione in cancelleria”.

A supporto di quanto sopraesposto, gli Ermellini richiamano quanto statuito con sentenza n°17048 del 11 luglio 2017: “In materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, (conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012), come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla L. n. 114 del 2014), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”.

La Suprema Corte, pertanto, conclude accogliendo il ricorso:

  • dichiarando che “…la notificazione dell’appello effettuata direttamente (ed esclusivamente) presso la cancelleria del Giudice di pace di Torre Annunziata è affetta da nullità, ma non già da inesistenza, essendo quest’ultima configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto quale notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale, tra cui, in particolare, i vizi relativi all’individuazione del luogo di esecuzione, nella categoria della nullità (cfr. Cass., S.U., n. 14916/2016 e Cass. n. 21865/2016)”;
  • cassando con rinvio al Tribunale, in funzione di giudice d’appello, al fine di provvedere alla rinnovazione della notificazione del gravame.

[:]

[:it]downloadLa Suprema Corte è recentemente tornata sull’annosa questione dell’ammissibilità di un ricorso introduttivo notificato tramite un servizio di posta privato.

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato da un avvocato avverso la pronuncia con cui la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva confermato la pronuncia con cui il CTP di Napoli aveva dichiarato inammissibile il suo ricorso in quanto notificato non a mezzo Poste Italiane bensì a mezzo di un suo competitor privato.

La Suprema Corte, tuttavia, conferma la pronuncia resa in primo grado e confermata dalla CTR Campania sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • antecedentemente all’entrata in vigore della legge 4 agosto 2017 n°124, il D.lgs. n°261/99, pur liberalizzando il settore dei servizi postali, ha stabilito che “…per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale, (cioè Poste Italiane S.p.A.) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con le notificazioni di atti giudiziari di cui alla L. 20.11.1982 n. 890 e successive modificazioni”… tra cui rientrano anche le notificazioni a mezzo posta degli atti tributari sostanziali e processuali;
  • la legge 4 agosto 2017 n°124, all’art. 1, comma 57, lett. b), disponendo l’abrogazione della citata norma, ha soppresso l’attribuzione in esclusiva alle Poste Italiane di tali servizi ma esclusivamente a decorrere dal 10 settembre 2017;
  • a ciò consegue l’inesistenza della notificazione del ricorso di primo grado eseguita anteriormente a tale data a mezzo posta privata, con conseguente insanabilità dello stesso mediante la costituzione in giudizio delle controparti (come chiarito dalle SS.UU. con le sentenze nn°13452 e 13453 del 29 maggio 2017).

[:]

[:it]downloadLe Sezioni Unite – con sentenza n°22253 del 25 settembre 2017, pubblicata il 1° novembre 2017 – sono tornate in questi giorni a pronunciarsi sui limiti entro i quali la testimonianza dell’avvocato avverso il proprio cliente debba considerarsi pienamente legittima e conforme ai doveri deontologici del difensore.

La vicenda vede come protagonista un collega meneghino il quale, dopo aver difeso in un procedimento per possesso di stupefacenti una cliente, sig.ra C.B., instaura con quest’ultima un rapporto di amicizia. Conclusosi il mandato, tuttavia, l’ex cliente maturando una forte gelosia nei confronti della nuova collega di studio di quest’ultimo, avv. A.S., iniziava ad ossessionarla mediante continue telefonate. L’avv. A.S. decideva pertanto di querelare la sig.ra B. citando come testimone il collega, il quale riferiva che la sig.ra C.B. “…era affetta da ‘una sorta di compulsività maniacale’ e da ‘mania di persecuzione’, che aveva in passato oltraggiato un agente di custodia e che, infine, aveva gravemente e reiteratamente insultato il predetto avvocato A.S.”.

Il Consiglio dell’Ordine di appartenenza, con deliberazione del 1° luglio 2013, decideva di sospendere il collega dall’esercizio della professione per mesi due, addebitandogli di “Essere venuto meno ai doveri di lealtà per avere reso testimonianza, su fatti appresi nell’esecuzione del mandato, contro la ex cliente sig.ra C.B., in un procedimento penale…”. Detta decisione veniva confermata dal Consiglio Nazionale Forense con sentenza del 31 dicembre 2016.

Di diverso avviso si sono rivelate tuttavia le Sezioni Unite della Suprema Corte che, in accoglimento del ricorso dell’avvocato meneghino, cassa la sentenza in quanto affetta dal vizio di falsa applicazione della norme,  annullando la sanzione inflitta dal C.O.A. di Milano, sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • l’art. 58 del Codice Deontologico vigente ratione temporis statuisce che: “Per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto. L’avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo”;
  • detta norma deve essere letta alla luce delle disposizioni del codice di procedure penale in punto di testimonianza, ed in particolare dell’art. 200 c.p.p., ai sensi del quale è coperto dal segreto professionale esclusivamente quanto appreso dall’avvocato “…nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto”;
  • nel caso di specie, invece, la Suprema Corte ha ritenuto che la testimonianza resa dal collega non abbia integrato la violazione dell’art. 58 C.D.F. in quanto: a) esulante da fatti e circostanze apprese nel corso del mandato difensivo; b) si è trattato non di fatti o circostanze empiriche bensì di “…opinioni ed apprezzamenti circa la personalità dell’imputata, per nulla collegati al rapporto di mandato difensivo intercorso tra i due”; c) la sentenza del C.N.F., da ultimo, non ha escluso che detti apprezzamenti siano stati maturati, dopo la cessazione del mandato difensivo, nel successivo rapporto di amicizia e frequentazione instauratosi tra i due.

[:]

[:it]

downloadNella recente ordinanza del 19 luglio 2017, pubblicata il 3 agosto 2017, il Tribunale civile di Bologna ha dichiarato l’improcedibilità di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, a seguito della mancata promozione della mediazione nel termine perentorio assegnato all’opponente, con conseguente definitività dell’opposto decreto ingiuntivo.

Il caso:

Con atto di citazione, un opponente aveva svolto domanda di opposizione a decreto ingiuntivo, contestandone l’ammontare alla luce dell’asserito pagamento di parte dell’importo precettato. Si costituiva l’opposto, insistendo per la concessione della provvisoria esecutorietà del decreto e contestando l’entità dell’importo effettivamente già versato dall’opponente.

All’esito della prima udienza il Tribunale disponeva la provvisoria esecutorietà del decreto avuto riguardo al minore importo riconosciuto e la prosecuzione del giudizio nelle forme di cui all’art. 702 ter c.p.c.. Alla successiva udienza il giudice, ritenendo sussistere l’opportunità di addivenire ad una soluzione conciliativa, disponeva la mediazione delegata di cui all’art. 5, IV° co., lett. a) del d.lgs. n°28/2010, che recita: “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”.

Le motivazioni del Tribunale:

Ambedue le parti, tuttavia, omettevano di promuovere detta mediazione nei termini assegnati dal Tribunale che, conseguentemente dichiarava l’improcedibilità del giudizio per le seguenti condivisibili ragioni:

  • l’art. 5, II^ co., del d.lgs. n°28/2010 espressamente sanziona il mancato esperimento della mediazione con l’improcedibilità del giudizio;
  • detta improcedibilità attiene “…alla domanda formulata dall’opponente con l’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, con conseguente definitività del decreto ingiuntivo opposto”;
  • l’onere di esperire il tentativo di mediazione è posto unicamente sulla parte opponente, a tal fine richiamando l’univoco orientamento della Suprema Corte, cristallizzato nella sentenza n°24629 del 3 dicembre 2015, in cui la stessa ha affermato “…in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione verte sulla parte opponente poiché l’art. 5 del d.lgs. n.28 del 2010 deve essere interpretato in conformità con la sua ratio e, quindi, al principio della ragionevole durata del processo, sulla quale può incidere negativamente il giudizio di merito che l’opponente ha interesse ad introdurre;
  • non può pertanto aderirsi alla tesi della parte opposta, fondata sul dato letterale della norma in parola – ad avviso della quale l’onere di esperire la mediazione incomberebbe anche sulla parte opponente, con conseguente improcedibilità anche della domanda svolta con ricorso monitorio, esperimento della mediazione – che porterebbe a conclusioni “eccentriche” e contrastanti con le finalità deflattive proprie del d.lgs. n°28/2010.

[:]

[:it]

Immagine correlataL’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo ex art. 650 c.p.c. è consentita a chi intenda negare che il decreto gli sia mai stato validamente notificato oppure intenda dolersi della sola irregolarità della sua notificazione e non, come nel caso in esame, la notifica dell’atto di opposizione effettuata dal medesimo opponente.

La notifica a mezzo posta elettronica certificata, ai sensi dell’art. 645 c.p.c., effettuata allegando la sola procura alle liti con la relata, firmate digitalmente, omettendo, quindi, l’atto di opposizione configura la fattispecie della inesistenza dell’atto stesso, determinando l’insussistenza della conoscibilità legale dell’atto cui tende la notificazione in favore della controparte, neanche sanabile con l’avvenuta costituzione dell’opposta al solo fine di eccepirla. Tale conclusione è conforme ai principi affermati dalle Sezioni Unite della Cassazione con le sentenze del 20 luglio 2016, n. 14916 e 14917, secondo cui l’inesistenza della notificazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità.

[:]

[:it]Immagine correlataAfferma la terza Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza 13 giugno 2017 n. 14625,  che, in tema di sfratto per morosità alla cui convalida l’intimato si sia opposto, qualora il giudice erroneamente, anziché adottare i provvedimenti di cui agli artt. 665 e 667 c.p.c., emetta ordinanza di convalida, questa assume natura decisoria e contenuto sostanziale di sentenza e l’impugnazione deve essere proposta con l’appello. Con tale atto l’intimato può chiedere di essere rimesso nei termini per espletare l’attività difensiva che non gli è stata consentita in primo grado, fermo restando che il giudice d’appello deciderà la controversia nel merito, giacché l’omissione del mutamento di rito non integra alcuna delle ipotesi tassativamente previste dagli artt. 343 e 354 c.p.c. per la rimessione della causa al primo giudice

Il caso in esame: un locatore intimava sfratto per morosità da un locale, da lui concesso in locazione per uso diverso ad una conduttrice, la quale a sua volta aveva ceduto l’azienda e con essa il contratto di locazione ad un altro conduttore. Quest’ultimo si era reso moroso nel pagamento di alcune mensilità. Il conduttore moroso si opponeva alla convalida di sfratto proposto dinnanzi alla sezione distaccata del Tribunale territorialmente competente. Successivamente, a seguito della soppressione della sezione distaccata, gli atti del processo in questione venivano trasferiti alla sede centrale del Tribunale, il quale all’udienza fissata ed in assenza del conduttore moroso, convalidava lo sfratto.

L’intimato allora proponeva appello avverso l’ordinanza di convalida di sfratto eccependone la nullità per non essere stato avvisato dell’udienza all’uopo fissata dal Tribunale adito dopo la soppressione della sezione distaccata innanzi alla quale era stata originariamente incardinata la causa.
La Corte di appello adita dichiarava con sentenza la nullità dell’ordinanza di convalida dello sfratto osservando che la stressa era stata emessa in difetto dei relativi presupposti; tuttavia, entrando nel merito della controversia, accoglieva la domanda di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore.

L’intimato proponeva allora ricorso per Cassazione, denunciando violazione del diritto di difesa ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e riguardante la mancata comunicazione della data di rinvio dell’udienza celebratasi innanzi al Tribunale in sede centrale ma senza successo.

Ad avviso della III^ Sezione della Cassazione la Corte territoriale aveva correttamente deciso la causa nel merito. L’intimato avrebbe potuto richiedere, tuttalpiù, al giudice di secondo grado di essere rimesso in termini per espletare l’attività difensiva che gli era stata impedita in primo grado per via dell’errore che ha condotto all’annullamento del provvedimento appellato.

[:]

© Copyright - Martignetti e Romano - P.Iva 13187681005 - Design Manà Comunicazione Privacy Policy Cookie Policy