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a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4Il Tribunale di Mantova, con provvedimento del 10 maggio 2018, ha dichiarato la propria incompetenza a pronunciarsi sull’affido e mantenimento di un minore nato fuori dal matrimonio, in favore del giudice del luogo di residenza abituale dello stesso.

Come chiarito infatti nel provvedimento, è territorialmente competente a pronunciarsi su un ricorso ex art. 337 bis c.c. unicamente il giudice del luogo di residenza abituale del minore.

Ad avviso del Tribunale lombardo, infatti, ciò risulta chiaramente alla luce:

  • dell’art. 38 disp. att. c.c., il quale dispone “… che nei procedimenti in materia di affidamento e mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 e segg. c.p.c.”;
  • dell’applicazione, , in mancanza di più specifiche indicazioni normative, del criterio giurisprudenziale che individua il giudice competente “…in quello del luogo in cui ha il domicilio il soggetto della cui situazione giuridica si discute;
  • dell’espressa contemplazione da parte dell’art. 709 ter c.p.c. del criterio della residenza abituale del minore;
  • della conformità del predetto criterio “…al principio di prossimità previsto dalla legislazione comunitaria”, di cui all’art. 15 regolamento CE n. 2201/2003.

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[:it]a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4Lo scorso 12 aprile 2018, l’Avvocato Generale (di seguito anche A.G.) presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea, Maciej Szpunar, ha depositato le proprie conclusioni in vista dell’oramai prossima pronuncia della Corte di Lussemburgo sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Suprema Corte di Cassazione bulgara (causa C-338/17 Neli Valcheva c. Georgios Babanarakis.

Il giudizio a quo

La vicenda trae origine da un’intricata vicenda transfrontaliera familiare e dall’impossibilità per una nonna bulgara di intrattenere rapporti significativi con il nipote a seguito del suo trasferimento in Grecia, conseguente all’affidamento esclusivo dello stesso al padre, cittadino ellenico residente in Grecia, disposto dal giudice ellenico, competente in base al criterio della c.d. residenza abituale.

La nonna, in particolare, non essendo riuscita ad ottenere dalle autorità greche misure atte a garantire detto “contatto significativo” con il nipote, adiva il Tribunale distrettuale bulgaro al fine di veder riconosciuto il proprio diritto di visita e determinate le relative modalità di esercizio.

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, ritenendo, tuttavia, applicabile a detta controversia il regolamento Bruxelles II bis, dichiaravano la loro incompetenza ai sensi dell’art. 8 del regolamento medesimo individuando nel giudice ellenico, autorità dello Stato di residenza abituale del minore, l’unico competente a pronunciarsi su siffatta domanda.

La sig.ra Valcheva decideva pertanto di presentare ricorso per Cassazione. La Suprema Corte Bulgara, in qualità di giudice di ultima istanza, nonostante condividesse il pensiero delle Tribunali inferiori, decideva di adire la Corte di Giustizia sottoponendo la seguente questione pregiudiziale: «Se la nozione di “diritto di visita” utilizzata nell’articolo 1, paragrafo 2, lettera a) e nell’articolo 2, punto 10, del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretata in modo da ricomprendervi non solo la visita del minore da parte dei genitori, bensì anche la visita da parte di altri parenti distinti dai genitori, quali i nonni».

Il ragionamento dell’A.G.

Apprezzabile è il ragionamento tenuto dall’avvocato generale, il quale, preliminarmente, sottolinea l’impossibilità di scorporare la questione “internazionalprivatistica” relativa all’applicabilità o meno del citato regolamento Bruxelles II bis, da un’analisi della questione fondamentale ad essa sottesa: “…l’importanza per un minore di intrattenere rapporti personali con i propri nonni, nei limiti in cui tali contatti non siano contrari al suo interesse”, letta alla luce del primato che il superiore interesse del minore deve sempre ricoprire in qualsivoglia controversia lo riguardi.

L’avvocato Generale, pertanto, opera un’analisi testuale, storica e teleologica del regolamento n°2201/03 al fine di chiarire se esso concerna non solo il diritto di visita dei genitori ma anche degli altri membri della famiglia, anche allargata:

  • partendo dal dato testuale, l’avvocato Szpunar pone in evidenza come l’art. 2, punti 7, 8 e 10 del citato regolamento, utilizzi espressioni e formule volontariamente generiche – quali “i diritti e i doveri”, “qualsiasi persona, “in particolare” – che testimonierebbero “…la volontà del legislatore dell’Unione di optare per una definizione ampia del diritto di cui trattasi” con la conseguenza di poter ritenere che “…il regolamento n. 2201/2003 includa anche un diritto di visita distinto da quello concesso dal diritto nazionale a uno dei due genitori (la madre, nel caso di specie) e se, di conseguenza, l’esercizio di tale diritto possa essere richiesto anche da terzi, come i nonni”;
  • passando ad un’interpretazione teleologica delle disposizioni del regolamento in parola, l’A.G. evidenzia come, nonostante la pacifica l’assenza di disposizioni specifiche relative al diritto di visita di un nonno, non sussista nel regolamento alcuna lacuna normativa in quanto “…dagli obiettivi del regolamento n. 2201/2003 emerge chiaramente che nulla giustifica l’esclusione del diritto di visita dall’ambito di applicazione di tale regolamento qualora il richiedente il diritto di visita sia una persona diversa dai genitori, avente legami familiari di diritto o di fatto con il minore, come nel caso di specie”;
  • detto pensiero risulterebbe poi confermato da un’interpretazione storica delle disposizioni del regolamento, lette alla luce dei lavori preparatori, nonché da un lettura congiunta dello stesso con gli altri strumenti internazionali concernenti le relazioni personali con i minori, quali la Convenzione dell’Aja del 1996;
  • da ultimo, l’avvocato generale pone in evidenza come anche questioni di opportunità e di economia processuale rendano certamente preferibile concentrare la competenza giurisdizionale sul giudice dello Stato di residenza abituale del minore, al fine di evitare provvedimenti conflittuali e contrasti di giurisdizione.

In conclusione, L’A.G. ritiene pertanto che nulla osti a ricomprendere nella nozione di diritto di visita, di cui al regolamento 2201/2003/CE “…persone diverse dai genitori ma aventi legami familiari di diritto o di fatto con il minore (in particolare, sorelle o fratelli, oppure l’ex coniuge o l’ex partner di un genitore). Infatti, tenuto conto delle costanti trasformazioni della nostra società e dell’esistenza di nuove forme di strutture familiari, le possibilità, riguardo alle persone interessate dall’esercizio del diritto di visita ai sensi del regolamento n. 2201/2003, potrebbero essere numerose. Il caso dell’ex partner del genitore titolare della responsabilità genitoriale e, conseguentemente, dei genitori di detto ex partner – considerati dal minore come nonni – o, ancora, il caso di una zia o di uno zio incaricati, nell’assenza temporanea di uno o di entrambi i genitori, di occuparsi del minore sono soltanto alcune illustrazioni con le quali la Corte potrebbe eventualmente confrontarsi nel contesto dell’interpretazione del regolamento in parola”.

L’avvocato della Corte è tuttavia chiaro nell’affermare che, se da un lato è quanto mai essenziale “…disporre di una regola di competenza unica e uniforme, vale a dire quella delle autorità dello Stato membro della residenza abituale del minore, al fine di garantire il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni pronunciate nei vari Stati membri”, dall’altro spetterà solo ed unicamente al legislatore nazionale chiarire “…a chi sarà – o meno – concesso un diritto di visita”.

In conclusione

Le conclusioni testè analizzate senza dubbio rappresentano un passo in avanti verso la tutela del diritto di visita degli ascendenti e/o discendenti nonché dei membri delle sempre più frequenti famiglie allargate; questo non solo per il dato probabilistico dell’allineamento della Corte al pensiero del suo A.G., circostanza questa che statisticamente avviene nella maggioranza assoluta dei casi.

Occorre tuttavia sottolineare l’importante ruolo che conserva il legislatore nazionale nell’individuazione dei familiari a cui tale diritto di visita possa essere riconosciuto con conseguente possibile frustrazione di legittime pretese a fronte della divergente disciplina sostanziale in vigore nello Stato di residenza abituale del minore.

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kate-separatedLa rottura del nucleo familiare comporta assai spesso la rideterminazione di equilibri, spazi e ruoli. Questo processo, tuttavia, non sempre avviene armonicamente tra i genitori. Anzi, sin troppo spesso assistiamo nelle aule di Tribunale così come nell’intimità della casa ad ex che, incapaci di elaborare il lutto della fine della propria relazione, tentano in ogni modo di allontanare i figli dai propri ex, screditandoli costantemente ai loro occhi sia come persone che come genitori.

Il Tribunale di Cosenza, di recente, si è occupato dell’ennesimo caso di alienazione parentale, che ha visto coinvolti non solo i genitori e il figlio minore ma anche le rispettive famiglie. La vicenda si snoda all’interno di un giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, durato 3 anni, e vede come protagonista il giovane figlio di una coppia divorzianda che manifesta una forte ostilità nei confronti della madre, a cui fa da contrappeso un rapporto para-simbiotico con la figura paterna.

All’esito della ctu disposta, gli specialisti evidenziavano un avanzato processo di alienazione della figura materna, rinvenendone le radici nella costante opera di svilimento operata dal marito e della sua famiglia di origine, il tutto alla presenza dello stesso minore. Quest’ultimo, troppo giovane e troppo attaccato al padre per poter avere una sua visione critica ed autonoma, aveva infatti fatto proprie le costanti critiche rivolte alla madre, finendo col disprezzarla immotivatamente e a non volere avere più contatti con la stessa.

Proprio a causa delle risultanze della C.T.U., il Tribunale, il giudice di prime cure ritiene:

  • di dover rigettare la richiesta di affido esclusivo del bambino al padre, avanzata da quest’ultimo, non essendo la relativa domanda sorretta da “valide motivazioni circa l’idoneità genitoriale della resistente” ed avendo il padre manifestato una grave inidoneità genitoriale, derivante dalla sua incapacità a preservare e garantire “…la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore” (in senso conforme, Corte di Cassazione, sez. I^ Civile, sentenza n°6919/16), tale da rischiare di determinare un’ulteriore marginalizzazione della figura materna agli occhi del minore;
  • di non poter disporre tantomeno l’affido esclusivo del bambino alla madre, peraltro non richiesto dalla stessa, in quanto, non “… pronta, in ragione dei tratti caratteriali e temperamentali ben delineati dalla ctu e dalla oggettiva problematicità dell’attuale dinamica relazionale con il figlio, ad assumersi le correlate responsabilità ….”;
  • di dover escludere altresì la prosecuzione del regime dell’affidamento condiviso, in considerazione dell’assenza di risultati positivi durante i tre anni di giudizio, nonché della “…incapacità dei genitori di gestire il conflitto personale con modalità idonee a preservare l’equilibrio psichico del figlio…”;
  • di non poter disporre l’affido del minore tantomeno ai membri delle rispettive famiglie di origine, non avendo i genitori fornito l’indicazione di “…persone affettivamente vicine al minore in grado di assumere la responsabilità dell’affidamento e di svolgerne i compiti mantenendo una posizione equidistante rispetto alle due figure genitoriali”.

In conclusione, pertanto, il Giudice ritiene percorribile unicamente la via dell’affidamento del bambino ai Servizi Sociali, con collocamento prevalente presso la casa paterna, sulla scorta del seguente ordine di motivi:

  • pur in assenza di un’espressa previsione legislativa, il giudice ha il potere-dovere di disporre tale forma di affidamento, rientrando la stessa nei provvedimenti che il giudice ha il potere-dovere di adottare, ai sensi dell’art. 337-ter, co. 1 c.c. “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”;
  • l’affido ai servizi sociali appare l’unica via percorribile al fine anche di monitorare costantemente i rapporti tra i genitori e con il figlio, favorendo un progressivo riequilibrio degli stessi;
  • nonostante in astratto il rimedio da adottarsi in caso di alienazione parentale consista nell’immediato “allontanamento del minore dal genitore alienante”, purtuttavia, la giovanissima età del minore rende in concreto tale rimedio impercorribile, con conseguente necessità di confermare il prevalente collocamento dello stesso presso la casa paterna.

Da ultimo, il Tribunale decide altresì di ammonire il padre ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. nonché di condannarlo al risarcimento dei danni endofamiliari causati tanto al diritto del figlio alla bigenitorialità quanto al diritto della madre ad intrattenere rapporti continuativi e costanti con quest’ultimo, quantificati in via equitativa in € 5.000,00 cadauno, sulla “della condizione di disagio psichico in cui versa il minore, della durata della emarginazione della figura materna, delle presumibili sofferenze patite dalla (madre) per il distacco fisico ed emotivo dal figlio, e, per altro verso, della già evidenziata concorrente responsabilità di quest’ultima…”.

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[:it]imagesGli “addetti al mestiere” lo sanno. Purtroppo gli effetti della rottura di una relazione assai spesso si riverberano anche sui figli. Sempre più spesso, infatti, i figli diventano vittime e armi nelle guerre di separazione e divorzio che contrappongono marito e moglie.

Di recente, però, c’è una importante novità che sta prendendo piede, per ora nei tribunali del nord Italia: il c.d. coordinatore genitoriale.

Chi è il coordinatore genitoriale?

Il coordinatore genitoriale è una figura professionale che viene incaricata dal Tribunale di famiglia affinché vigili e risolva le problematiche di gestione dei figli in coppie caratterizzate da un’elevata conflittualità.

Il caso.

A distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, con sentenza del 5 maggio 2017, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di garantire il corretto esercizio della responsabilità genitoriale da parte di una coppia sposata.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge, seppur concordando nella scelta dell’affidamento condiviso. Il marito, tuttavia, aveva chiesto anche la condanna della moglie ex art. 709 ter c.p.c. a causa dei comportamenti tenuti dalla moglie dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli.

Il Tribunale, dopo aver ascoltato i Servizi sociali e il C.T.U. nominato, riteneva comprovata l’elevata conflittualità tra i genitori e gli ingiustificati comportamenti della madre, che rendeva estremamente difficile per il padre non solo esercitare con regolarità il suo diritto di visita ma anche a parlare semplicemente al telefono con i figli.

Dall’altro lato, però, i giudici davano atto dell’assenza di problemi nella gestione dei figli nei tempi in cui questi stavano con l’uno o l’altro genitore e della mancanza di alcuna carenza educativa nelle due figure genitoriali. Per questo motivo, il Tribunale, pur affidamento i bambini ad ambedue i genitori, decideva di nominare un coordinatore genitoriale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, individuando puntualmente i suoi compiti come segue:

  1. monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

In conclusione

Attraverso il controllo di un coordinatore, il Tribunale mira dunque non solo a “tenere sotto controllo” i comportamenti dei genitori in caso di conflitto ma ad affiancare loro un esperto che possa aiutarli nell’adozione condivisa di scelte nell’interesse dei ragazzi e decidere egli stesso qualora i genitori non si mettano d’accordo.

Il fallimento o il successo di tale figura dipenderà, tuttavia, non solo dalla capacità e professionalità del coordinatore genitoriale incaricato ma, soprattutto, dalla presa di coscienza da parte degli ex coniugi che la fine del matrimonio non comporta la fine della famiglia né dei doveri genitoriali.[:]

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Welpe im ScheidungskriegChi ha un cane o un animale domestico lo sa, l’amore che si prova per i nostri amici a quattro zampe va oltre l’immaginabile. E quando ci si lascia, aimè, decidere chi e come potrà vedere e tenere con sé l’amato “Fido” sta diventando sempre più motivo di litigio tra gli ex.

Purtroppo queste problematiche non hanno ancora avuto una risposta chiara dal nostro legislatore. Da anni, infatti, è ferma in parlamento una proposta di legge volta ad applicare agli animali domestici la stessa disciplina che il nostro codice prevede per l’affidamento dei figli minori. L’auspicata riforma prevede, infatti, l’introduzione nel nostro codice civile dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”.

Nel mentre crescono le cause promosse dinnanzi ai tribunali da ex che si contendono gli animali domestici. Interessante, a riguardo, è una recente sentenza del Tribunale civile di Roma, n°5322 del 12-15 marzo 2016.

La vicenda sottoposta al giudice romano trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno – il quale, dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, le avrebbe sottratto il suo cane – al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale di Roma, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione del sopra richiamato art. 455 ter c.c..

Ad avviso del Tribunale, inoltre, la proprietà formale del cane non rileverebbe, dovendo il suo affidamento (condiviso ed esclusivo) basarsi solo sul legame d’amore esistente con il/i proprietari e, dunque, sul suo superiore interesse.

 Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;
  • condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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Welpe im ScheidungskriegIl Tribunale civile di Roma, con sentenza n°5322 del 12/15 marzo 2016, ha applicato per la prima volta la disciplina dell’affidamento condiviso ad un cane conteso da due ex conviventi more uxorio.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno, il quale le avrebbe sottratto il suo cane dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”. Di fatti, ad avviso del Tribunale, “dal punto di vista del cane, che è l’unico che conta ai fini della tutela del suo interesse, non ha assolutamente alcuna importanza che le parti siano state sposate o meno”.

Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;

condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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dieta-vegana-cibi-vegetali-proteici-vegan-foodI motivi di conflitto tra genitori separati possono essere innumerevoli, dagli sport alla scuola da frequentare, dalle vacanze alle gite scolastica, sino ad arrivare al regime d’alimentazione da fare seguire ai figli. Tale ultimo motivo, di recente, è finito alla ribalta a seguito della diffusione di stili alternativi di alimentazione, quale la dieta vegetariana e vegana.

Proprio un conflitto tra due genitori circa il regime alimentare da fare seguire alla figlia è stato recentemente risolto dal Tribunale civile di Roma, sez. I^, con ordinanza del 19 ottobre 2016.

Il caso trae origine da un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. presentato da un padre separato, preoccupato dalla dieta vegana imposta unilateralmente dalla madre alla propria figlia non soltanto a casa ma anche a scuola. In particolare, ad avviso del padre, tale dieta, sarebbe stata assolutamente dannosa per la bambina tanto da un punto di vista salutistico, come confermato da una relazione del pediatra asseverante la ridotta crescita della stessa, quanto psicologico, a seguito della costrizione per la bambina di seguire una dieta diversa dagli altri compagni, nonostante l’assenza di malattie o allergie tali da renderla necessaria.

Si costituiva in giudizio la madre la quale tentava inutilmente di minimizzare sostenendo che la dieta seguita dalla stessa e fatta seguire alla figlia fosse in realtà vegetariana, comprensiva pertanto del consumo di uova e latticini, e che, in ogni caso, tale dieta sarebbe decisamente più salutare rispetto al consumo di carne, stante l’incertezza dei controlli sulla stessa, e la presenza in molti prodotti preconfezionati di sostanze nocive. Ad avviso della madre, inoltre, ben poteva la bambina seguire la “dieta paterna” durante i periodi trascorsi con il padre, ferma la dieta vegana tanto a casa quanto a scuola.

Di diverso avviso è, tuttavia, il Tribunale di Roma.

I giudici capitolini, investiti della questione, chiariscono preliminarmente che“…la decisione relativa al regime alimentare del figlio minore deve indubbiamente essere considerata di maggiore interesse” e pertanto, nel regime di affidamento condiviso vigente nel caso di specie, deve essere rimessa, in caso di disaccordo tra i genitori, al giudice.

Il Tribunale, pertanto, dopo aver analizzato la documentazione medica in atti e rilevato l’assenza di ragioni connesse alla salute della minore, quali allergie o intolleranze, tali da far prediligere la dieta vegana, ha ritenuto di dover “…applicare parametri di normalità statistica che impongono di far seguire alla figlia minore della parti un regime alimentare privo di restrizioni.”

Secondo la condivisibile motivazione del Tribunale, infatti, la scelta sul regime alimentare da far seguire alla bambina deve prescindere totalmente dalle convinzioni alimentari dei genitori, dovendosi compiere facendo riferimento “…alle condotte normalmente tenute dai genitori nella generalità dei casi per la cura e l’educazione dei figli”. E tale è il regime alimentare, privo di restrizioni ad alcun alimento, normalmente seguito dalle scuole italiane, le cui mense sono (o meglio dovrebbero) essere sottoposte all’attento controllo pubblico.

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download (1)Non è un mistero che la separazione e/o il divorzio legale tra marito e moglie, così come la separazione di fatto tra partners di coppie non coniugate, rischiano di avere gravi e dolorose ripercussioni anche sui figli, usati come arma in un vero e proprio conflitto tra i genitori. Troppo spesso, infatti, la crisi della coppia si estende alla coppia genitoriale, con grave e, aimè, irreparabile danno per i bambini.

Uno degli effetti maggiormente pregiudizievoli per i bambini è la c.d. PAS, ovvero sindrome da alienazione genitoriale (o PAS, dall’acronimo di Parental Alienation Syndrome). Questo disturbo psicopatologico, ancorché ancora al centro di discussioni e non ancora riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale, colpirebbe proprio i bambini coinvolti nel conflitto genitoriale determinando una vera alienazione degli stessi da una delle figure genitoriali, specie quella non convivente con il minore.

Lasciando da parte le prese di posizione di psicoterapeuti e tribunali sull’esistenza stessa della PAS, rimane un dato oggettivo e sconcertante: sempre più spesso i genitori non conviventi lamentano continue e costanti interferenze degli ex partner, rei di ostacolare i rapporti liberi dei figli con l’altro genitore, spingendosi sino a svilire costantemente la sua figura, senza tenere in minima considerazione gli effetti tragici che tale condotta rischia di avere sulla crescita serena e corretta della prole. Quel che maggiormente preoccupa, poi, è che la tutela giurisdizionale dei diritti del genitore non convivente viene assai spesso frustrata dai tempi “biblici” della giustizia italiana e dal ricorso da parte dei tribunali ad una serie di misure automatiche e stereotipate, assolutamente inidonee a ristabilire i rapporti tra genitore e figlio non convivente.

Questa allarmante situazione è stata di recente oggetto di una serie di importanti condanne da parte della Corte EDU, ad avviso della quale il nostro Paese non si sarebbe dotato di misure idonee a rendere effettivo il diritto di visita, frustrando ingiustamente tanto il diritto del genitore non convivente alla genitorialità (diritto di rango costituzionale) quanto il diritto del bambino alla c.d. bigenitorialità, ovvero ad avere rapporti paritetici ed effettivi con ambedue i minori, a prescindere dal suo collocamento presso l’uno o l’altro genitore. Tali diritti, è bene ricordarlo, traggono la loro origine tanto dalla nostra Costituzione, in particolare dagli articoli 2, 29 e 30 Cost., quanto da una serie di Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, tra cui, in primis, la stessa CEDU (acronimo per Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali) che, all’art. 8, rubricato “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, recita: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Un’analisi di alcune delle recenti condanne da parte della Corte EDU appaiono pertanto utili, se non indispensabili, per capire quali sono i comportamenti in positivo che dovrebbero tenere gli organi dello Stato – partendo dai Tribunali, passando per assistenti sociali e centri di mediazione – al fine di tutelare tanto il diritto del padre alla genitorialità e, nello specifico, l’esercizio effettivo del suo diritto di visita, quanto il diritto del figlio alla bigenitorialità, salvo i casi eccezionali in cui lo stesso risulti pregiudizievole al minore.

Partiamo dunque con il chiarire che esiste un vero e proprio obbligo del Tribunale di attivarsi al fine di rimuovere celermente ogni ostacolo frapposto al rapporto tra figlio e genitore convivente, e a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre del minore (così CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 81; in senso conforme CEDU, Macready c. Repubblica ceca, ric. nn°4824/06 e 15512/08, sentenza del 22 aprile 2010, par. 66), mediante l’adozione di “…misure idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti tra i genitori” (così, CEDU, Strumia c. Italia, ric. n°53377/13, sentenza del 23 giugno 2016, par. 110). Tale obbligo positivo non è limitato unicamente alla vigilanza “…affinchè il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di raggiungere tale risultato” (così CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 62). Dette misure, aggiunge la Corte, non possono consistere unicamente in quelle “automatiche e stereotipate” (quali le richieste di informazioni a periti incaricati ovvero la delega delle funzioni di controllo delle visite ai servizi sociali) che, spesso, non scalfiscono la situazione di alienazione già esistente, anzi contribuiscono alla sua acuizione mediante il decorso del tempo.

Qualora poi, come spesso accade, sia ravvisabile una mancanza di collaborazione da parte del genitore collocatario, dovuta soprattutto a tensioni esistenti tra i genitori, la stessa non può “…dispensare le autorità competenti dall’utilizzare tutti gli strumenti atti a consentire il mantenimento del legame familiare” (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 74; CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 82; CEDU, Lombardo c. Italia, ric. n°25704/11, sentenza del 29 gennaio 2013, par. 91; CEDU, Santilli c. Italia, ric. n°51930/10, sentenza del 17 dicembre 2013, par. 74). In altri termini, secondo il condivisibile parere della Corte Europea, il Tribunale ha il potere nonché il dovere di attivarsi al fine di rimuovere celermente ogni ostacolo frapposto al rapporto tra figlio e genitore convivente, con specifico riferimento alla mancanza di collaborazione in tal senso da parte del genitore collocatario, e a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre del minore” (così CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 81; in senso conforme CEDU, Macready c. Repubblica ceca, ric. nn°4824/06 e 15512/08, sentenza del 22 aprile 2010, par. 66), mediante l’adozione di “…misure idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti tra i genitori” (così, CEDU, Strumia c. Italia, ric. n°53377/13, sentenza del 23 giugno 2016, par. 110).

Un ultimo aspetto di fondamentale importanza sottolineato poi dalla Corte è che “per essere adeguate, le misure volte a riunire genitore e figlio devono essere attuate rapidamente, in quanto il decorso del tempo non può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il minore e il genitore non convivente (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 63, CEDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 73; si veda anche CEDU, Lombardo c. Italia, ric. n°25704/11, sentenza del 29 gennaio 2013; CEDU, Santilli c. Italia, ric. n°51930/10, sentenza del 17 dicembre 2013). In tale ottica, qualora si ravvisino opposizioni del genitore collocatario all’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore, sarà “necessaria una risposta rapida a tale situazione tenuto conto dell’incidenza, in questo tipo di cause, del trascorrere del tempo, che può avere effetti negativi sulla possibilità per il genitore interessato di riallacciare un rapporto con il figlio (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 70).

I sopramenzionati principi sono stati di recente recepiti dalla Suprema Corte di Cassazione nella recente sentenza 16 febbraio – 8 aprile 2016, n°6919, in cui ha opportunamente sottolineato come: «in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015). Non può esservi dubbio che tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell’affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rilevi la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore.

Ad avviso della Suprema Corte, quindi, gli ostacoli frapposti dal genitore all’esercizio del diritto di visita da parte dell’ex coniuge sono un elemento che deve essere valutato al fine di giudicare la sua capacità genitoriale, potendo legittimare anche l’affidamento del bambino all’altro genitore.

Che cosa fare dunque se il vostro ex compagno o ex coniuge vi impedisce di vedere vostro figlio secondo le modalità concordate o decise dal Tribunale? Denunciate subito l’accaduto tramite il vostro avvocato e chiede quanto prima la modifica delle modalità di affidamento. Come infatti chiarito dalla Cassazione, in tali casi “il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente/a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.

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downloadNon basta la volontà del figlio “di stare con la mamma” per determinare il genitore presso il quale sarà disposto il suo collocamento abitativo. A dirlo è la Suprema Corte di Cassazione, sez. VI^-1, con ordinanza del 5 luglio 2016 n°23324, pubblicata il 16 novembre 2016.

La vicenda trae origine da una “classica” separazione all’italiana. Una giovane coppia si sposa e ha un figlio. Dopo poco i litigi aumentano sino a portare ad una situazione di inconciliabile conflitto, che sfocia a sua volta in un giudizio di separazione. Il conflitto aimè travolge anche il figlio, conteso dai due genitori che ne chiedono il collocamento presso di loro.

Il giudice, investito della causa, dispone una consulenza tecnica, al fine di verificare la capacità genitoriale dei coniugi e la volontà del bambino. In quella sede, il bambino, ascoltato da un’esperta psicologa, manifesta senza esitazione la volontà di rimanere con la madre. Ad avviso dell’esperta, tuttavia, sarebbe opportuno procedere al collocamento del minore presso il padre, una volta terminato l’anno scolastico. Tale trasferimento, infatti, appariva necessario per garantire “un suo equilibrato sviluppo, ovvero per allentare il rapporto ‘quasi simbiotico e di eccessiva dipendenza’ che lo lega alla madre e per evitare un diradamento degli incontri con il padre in un momento in cui ha invece bisogno di rafforzare il rapporto con tale figura genitoriale”.

Il giudice di primo grado, seguendo il parere dell’esperta, decide pertanto di disporre l’affidamento congiunto del minore e la sua collocazione presso il padre una volta terminato l’anno scolastico in corso.

La madre decide allora di presentare appello avverso la sentenza, ritenendo necessario procedere al collocamento presso di lei del figlio anche alla luce dell’avvenuto trasferimento per motivi di lavoro del padre a Roma – lontano dai parenti, dalla scuola e dagli amichetti del figlio – chiedendo di procedere nuovamente all’audizione del figlio.

La Corte d’appello, tuttavia, non accoglie le doglianze della moglie, respingendo la sua impugnazione.

Presentano allora ricorso per cassazione avverso il provvedimento tanto il padre quanto la madre, il primo al fine di ottenere l’affidamento esclusivo del figlio e l’esonero dall’obbligo di contribuire al mantenimento della moglie, la seconda al fine di ottenere il suo collocamento presso di lei nonché l’aumento della cifra disposta per il suo mantenimento.

In particolare, la giovane madre si duole del fatto che i giudici di merito non avrebbero dato il giusto rilievo alla volontà manifestata dal figlio durante la C.T.U. di primo grado di restare a vivere con la madre, illegittimamente negando il suo ascolto diretto nel giudizio d’Appello, senza tenere in debito conto il sopravvenuto trasferimento del padre a Roma.

Ad avviso della Suprema Corte, tuttavia, l’operato dei giudici di I^ e II^ grado è esente da censure alla luce delle seguenti condivisibili osservazioni:

  • il sopravvenuto trasferimento per lavoro del padre è circostanza inidonea ad incidere di per sé sul regime di affidamento del minore, assumendo “…rilievo solo con riguardo alle modalità di collocazione abitativa del minore e di sua frequentazione con il coniuge non collocatario”, con conseguente non necessarietà di una nuova audizione del minore;
  • la sentenza impugnata aveva dato atto del desiderio espresso dal figlio di restare a vivere con la madre, condividendo tuttavia la necessità, evidenziata nella C.T.U., di disporre il collocamento dello stesso presso il padre “…al fine di garantire un suo equilibrato sviluppo, ovvero per allentare il rapporto ‘quasi simbiotico e di eccessiva dipendenza’ che lo lega alla madre e per evitare il diradamento degli incontri con il padre in un momento in cui ha invece bisogno di rafforzare ed identificare il rapporto con tale figura genitoriale”;
  • conseguentemente ben avevano fatto il Tribunale e la Corte d’Appello a ritenere che la volontà espressa dal bambino non corrispondesse al suo vero interesse e che, conseguentemente, il collocamento del bambino presso la madre avrebbe determinato un ulteriore deterioramento dei rapporti con il padre, ponendosi in contrasto con il principio di bigenitorialità.

Dalla sentenza in esame è possibile trarre un’importante conclusione, in linea con le principali convenzioni europee ed internazionali a tutela del superiore interesse del minore. Il giudice ha l’obbligodi procedere all’ascolto del minore. Tale obbligo tuttavia non è assoluto, potendosi escludere lo stesso esclusivamente sulla base della sua età, della sua maturità e del pregiudizio che ne possa derivare. La volontà che il bambino esprime, però, non può considerarsi vincolante in termini assoluti per il giudice. Quando, infatti, il giudice ritiene che questa contrasti con il suo superiore interesse, egli è e deve essere libero di decidere ciò che ritiene maggiormente confacente al suo superiore interesse, debitamente motivando nel provvedimento tale sua convinzione.

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downloadLa Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza del 5 luglio 2016 n°23324, pubblicata il 16 novembre 2016, si è pronunciata sul ricorso presentato da una moglie avverso la sentenza di separazione con cui il Tribunale di La Spezia prima e la Corte d’Appello di Genova poi avevano disposto l’affidamento condiviso del figlio minore con suo collocamento, a partire dall’inizio del successivo anno scolastico, presso il padre, ufficiale della M.M. trasferitosi a Roma, ponendo altresì a carico di quest’ultimo un assegno separatizio di € 500,00 a favore della ricorrente.

In particolare, la giovane madre si duole del fatto che i giudici di merito non avrebbero dato il giusto rilievo alla volontà manifestata dal figlio durante la C.T.U. di primo grado di restare a vivere con la madre, illegittimamente negando il suo ascolto diretto nel giudizio d’Appello, nonostante il sopravvenuto trasferimento del padre a Roma, lontano dunque dalla scuola, dai parenti e dalle amicizie del bambino.

Ad avviso della Suprema Corte, tuttavia, l’operato dei giudici di I^ e II^ grado è esente da censure alla luce delle seguenti condivisibili osservazioni:

  • il sopravvenuto trasferimento per lavoro del padre è circostanza inidonea ad incidere di per sé sul regime di affidamento del minore, assumendo “…rilievo solo con riguardo alle modalità di collocazione abitativa del minore e di sua frequentazione con il coniuge non collocatario”, con conseguente non necessarietà di una nuova audizione del minore;
  • la sentenza impugnata aveva dato atto del desiderio espresso dal figlio di restare a vivere con la madre, condividendo tuttavia la necessità, evidenziata nella C.T.U., di disporre il collocamento dello stesso presso il padre “…al fine di garantire un suo equilibrato sviluppo, ovvero per allentare il rapporto ‘quasi simbiotico e di eccessiva dipendenza’ che lo lega alla madre e per evitare il diradamento degli incontri con il padre in un momento in cui ha invece bisogno di rafforzare ed identificare il rapporto con tale figura genitoriale”.

La Suprema Corte conferma, pertanto, il provvedimento impugnato, ritenendo prevalente l’interesse del minore al trasferimento, nonostante la volontà contraria del figlio e della madre.

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