Tag Archivio per: avvocato luigi romano

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Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L. 33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.

[:en]Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L.33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.
[:fr]Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L.33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.
[:es]Come noto, ai sensi dell’art. 1, comma 10 del D.L.33 del 16 maggio 2020 è espressamente previsto che “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Dal 18 maggio 2020, pertanto, appare possibile lo svolgimento, accanto alle c.d. assemblee “da remoto” – mediante video conferenze – anche di quelle in presenza.
Dubbi, tuttavia, sono sorti circa la possibilità di ricomprendere nella nozione di “riunione” anche quella di assemblea condominiale, caratterizzata, come noto, anche dall’intervento di soggetti terzi. Dubbi che, si spera, verranno fugati dai chiarimenti che fornirà il Governo sul proprio sito istituzionale.
In attesa dei predetti chiarimenti, è indubbio che le assemblee in presenza siano subordinate all’adozione da parte dell’amministratore di condominio di misure idonee a scongiurare i rischi di contagio. E proprio al fine di guidare amministratori e condomini nella ripresa dello svolgimento delle assemblee condominiali, Confedilizia – Confederazione italiana proprietà edilizia ha da poco pubblicato sul proprio sito – https://www.confedilizia.it/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/linee-guida-per-lo-svolgimento-delle-assemblee-condominiali/ – le proprie Linee Guida per lo svolgimento delle assemblee condominiali “in presenza” contenenti condivisibili indicazioni e suggerimenti con particolare riguardo:
– alle diffusione delle linee guida tra i condomini;
– alla preparazione, organizzazione e convocazione delle assemblee;
– alle modalità di svolgimento delle predette.
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downloadIl caso

Con ricorso depositato il 5 luglio 2012, una signora cagliaritana adiva il Tribunale di Cagliari al fine di ottenere la modifica delle condizioni concordate in sede di separazione consensuale due anni prima, richiedendo un sostanzioso aumento dell’assegno separatizio in suo favore nonché di quello per la figlia alla luce della scomparsa del padre, il quale, sino ad allora, aveva garantito alla figlia e alla nipote un notevole sostegno economico.

Il Giudice di primo grado, accogliendo la domanda della moglie, poneva a carico del marito un assegno divorzile di € 800,00 e un assegno per il mantenimento della figlia minorenne pari ad € 2.000,00, oltre al 70% delle spese straordinarie, in misura peraltro maggiore rispetto a quella richiesta dalla stessa ricorrente.

Il marito proponeva reclamo avverso il predetto decreto, chiedendo di ridurre l’assegno di mantenimento della figlia nella misura di € 300,00, concordata in sede di separazione, revocando altresì l’assegno separatizio in favore della moglie.

La Corte d’Appello, tuttavia, con decreto n°1653/16, rigettava il reclamo rilevando:

  • che la morte del padre della moglie “…aveva determinato un rilevante mutamento delle sue condizioni facendo venir meno il consistente aiuto economico in favore della figlia e della nipote, aiuto che aveva consentito sino ad allora alla ___ di integrare il modesto importo dell’assegno previsto della separazione consensuale”;
  • che, sebbene la moglie avesse in astratto un’abilità lavorativa, essendo laureata e avendo conseguito l’abilitazione all’attività di giornalista, in concreto la “…la sua capacità reddituale è pressoché inesistente non avendo maturato, all’età di 50 anni, alcuna esperienza lavorativa”;
  • che non erano state comprovate dal reclamante né l’acquisto di un immobile da parte della moglie né un’asserita stabile convivenza con il nuovo compagno della stessa;
  • che l’aumento dell’assegno di mantenimento per la figlia – che all’epoca della separazione consensuale aveva 6 anni – poteva ben essere giustificata dalla presunzione di un incremento delle sue esigenze proporzionalmente alla sua età.

 

Il ricorso per cassazione

Il marito, lungi da darsi per vinto, proponeva ricorso per cassazione deducendo, inter alia:

  • che la Corte d’Appello avrebbe “…errato nel ritenere la morte del padre della M un mutamento di fatto tale da giustificare un mutamento delle condizioni economiche concordate in sede di separazione consensuale, trattandosi di un evento non eccezionale né imprevedibile”;
  • che la Corte d’Appello avrebbe violato il principio dispositivo confermando la sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto alla moglie una somma addirittura superiore a quella richiesta.

La decisione della Suprema Corte

Di diverso avviso gli Ermellini che, con l’ordinanza in oggetto, rigettavano il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali alla luce della seguente motivazione:

  • l’aggravarsi delle condizioni di salute del padre e la conseguente morte all’età di 71 annicostituiscono una circostanza sopravvenuta e rilevante ai fini della modifica delle condizioni economiche della separazione per il venire meno dell’importante contributo economico destinato dal padre della M al mantenimento della figlia e della nipote”;
  • il riconoscimento da parte del giudice di prime cure della somma di € 2.000,00 rispetto alla somma di € 1.800,00 richiesta con il ricorso introduttivo, “…ha comportato una elevazione solo per ciò che concerne la misura del contributo riconosciuto al mantenimento della figlia”. Ciò è pienamente legittimo alla luce del principio per cui “…per ciò che concerne la determinazione degli obblighi di mantenimento dei figli minorenni il giudice non è soggetto al principio della domanda”.

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tribunale-roma-immagineAd alcuni colleghi sarà capitato, nel proporre un’impugnazione sostituendosi al difensore che assisteva la parte nel primo grado di giudizio civile, di vedersi negata dalla cancelleria la facoltà di ritirare il fascicolo di parte.

Come noto il nostro codice di rito – art. 77 disp. att. c.p.c. in combinato disposto con l’art. 169 c.p.c., rubricato “Ritiro dei fascicoli di parte”[1] – si occupa unicamente della facoltà/diritto di ritirare il fascicolo di parte unicamente quando lo stesso è ancora in corso di definizione.

Ciò ha generato il sorgere di prassi difformi tra le varie cancellerie, alcune delle quali autorizzano il ritiro unicamente al difensore costituito nel primo grado di giudizio, altre unicamente alla parte rappresentata, altre ancora al nuovo difensore munito di espressa autorizzazione del precedente avvocato.

Per dirimere la questione è recentemente intervenuto il Ministero della Giustizia, a mezzo della circolare del 7 gennaio 2019, diretta ai presidenti delle Corti d’Appello ed avente ad oggetto “Ritiro del fascicolo cartaceo di parte nel procedimento civile definito in primo grado Indicazioni operative”.

Nella stessa il Ministero ha affermato che “…nell’ipotesi in cui il procedimento civile sia stato definito, gli Uffici giudiziari debbano consegnare il fascicolo di parte sia alla parte personalmente, sia al nuovo difensore incaricato di difenderla nell’ambito del giudizio di impugnazione (sempre che lo stesso sia munito di apposito mandato)”.

Ad avviso del Ministero, infatti, detta affermazione risulta l’unica compatibile con l’art. 33 del codice deontologico forense. Seguendo il ragionamento del Ministero, poiché l’art. 33 C.D.F. “…pone sul difensore, al termine del mandato, l’obbligo di restituire senza ritardo gli atti e i documenti ricevuti dal cliente e dalla parte assistita per l’espletamento dell’incarico, come pure di consegnare loro copia di tutti gli atti e documenti concernenti l’oggetto del mandato (…) se dunque l’avvocato, al termine del mandato, è tenuto a restituire tutta la documentazione ricevuta dal cliente e comunque concernente l’oggetto del mandato, non v’è ragione per negare alla parte medesima (titolare del diritto alla restituzione) o al suo nuovo procuratore il diritto di richiedere direttamente alla cancelleria dell’Ufficio giudiziario la consegna del fascicolo di parte depositato dal precedente difensore nell’ambito di un giudizio civile ormai concluso, facendo in tal modo venir meno l’obbligo di custodia degli atti a carico del precedente avvocato”.

 

[1] Art. 169 c.p.c.:

  1. 1: “Ciascuna parte può ottenere dal giudice istruttore l’autorizzazione di ritirare il proprio fascicolo di parte dalla cancelleria; ma il fascicolo deve essere di nuovo depositato ogni volta che il giudice lo disponga”.
  2. 2: “ Ciascuna parte ha la facoltà di ritirare il fascicolo all’atto della rimessione della causa al collegio a norma dell’articolo 189, ma deve restituirlo al più tardi al momento del deposito della comparsa conclusionale”.

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separazione-e-soldi_smallCon sentenza n°32871 del 3 dicembre 2018, depositata in data 19 dicembre 2018, la I^ sezione della Corte di Cassazione è tornata nuovamente a chiarire le conseguenze della creazione di una nuova famiglia sul diritto del coniuge separato e/o divorziato all’assegno di mantenimento.

Il caso in esame

In accoglimento dell’appello promosso da un marito avverso la sentenza di separazione, con cui il giudice di prime cure aveva riconosciuto all’ex moglie il diritto a percepire un assegno separatizio, la Corte d’Appello di Perugia, con sentenza n°26/2015, revocava il predetto assegno di mantenimento:

  • ritenendo comprovata instaurazione di una famiglia di fatto da parte dell’appellata;
  • ritenendo applicabile al caso di specie la giurisprudenza di legittimità formatasi in punto di assegno divorzile.

Avverso la predetta sentenza ricorreva per cassazione la moglie, denunciando, con unico motivo, la “violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3” ritenendo che la Corte territoriale avrebbe errato:

  • nel qualificare quale convivenza more uxorio la sua nuova relazione, nonostante l’assenza dei caratteri di stabilità della predetta;
  • nel non “…aver accertato e valutato se, dalla nuova convivenza, la ricorrente ritraesse benefici economici idonei a giustificare la diminuzione dell’assegno o, addirittura, la sua revoca”.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, investita della questione, respinge tuttavia il ricorso, alla stregua della seguente condivisibile motivazione:

  • partendo dalla disciplina normativa relativa al divorzio, gli Ermellini evidenziano come l’art. 5, comma 10, L. div. preveda espressamente che “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”;
  • la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla celebre sentenza n°6855/15 ha poi esteso la causa estintiva di cui all’art. 5, co. 10, l. div. anche all’ipotesi in cui l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile abbia costituito una nuova famiglia, ancorché non fondata sul matrimonio, affermando il seguente principio di diritto: L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost., come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo(in senso conforme anche Cass., sez. V-1^, ordinanza n°2466 del 2016);
  • recentemente la Suprema Corte, con la recente sentenza n°16982/2018, ha enunciato il seguente analogo principio in punto di assegno separatizio: “In tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento che grava sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi “more uxorio” siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce “in melius” sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati”. (Cass. civ., sez. I^, sentenza n. 16982 del 27 giugno 2018).

La Corte, ribadendo il succitato principio, fornisce altresì i seguenti opportuni chiarimenti:

  • Il fondamento della cessazione dell’obbligo di contribuzione deve esser individuato, per quel che riguarda il divorzio ma anche la separazione personale, nel principio di autoresponsabilità, ossia nel compimento di una scelta consapevole e chiara, orgogliosamente manifestata con il compimento di fatti inequivoci, per aver dato luogo ad una unione personale stabile e continuativa, che si è sovrapposta con effetti di ordine diverso, al matrimonio, sciolto o meno che sia”;
  • come nel divorzio, “anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (per quanto – come si è già detto – il suo esito si renda assai probabile) si opera una rottura tra il preesistente “tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale” ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale”.

La Suprema Corte, da ultimo, enuncia il seguente ulteriore principio di diritto: “Anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (assai più che probabile) si opera una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale, con il conseguente riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venire definitivamente meno”.

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[:it]certificato-medicoIl caso in esame

Un collega, difensore d’ufficio, con istanza depositata del 27 aprile 2017 nel giudizio d’appello, chiedeva disporsi rinvio dell’udienza “…perché legittimamente impedito a comparirvi a causa di malattia…”, allegando all’uopo certificazione del suo medico curante che recitava testualmente: “Certifico che (…) è affetta da influenza. Si consigliano 4 gg. di riposo“.

La Corte di appello rigettava, tuttavia, la suddetta richiesta rilevando la mancanza del carattere assoluto dell’impedimento.

Il difensore decideva pertanto di ricorrere per cassazione dolendosi ex multis, del“l’inosservanza o comunque l’erronea applicazione degli artt. 484 e 420-ter c.p.p., e la violazione del diritto di difesa quale conseguenza del mancato riconoscimento del legittimo impedimento a comparire dovuto a malattia del difensore ritualmente certificata dal medico curante”.

 

Il principio enunciato dalla Suprema Corte

La Suprema Corte, investita della questione, richiamando alcuni suoi illustri precedenti, ribadisce preliminarmente il seguente principio applicato successivamente al caso di specie: “…il giudice, nel valutare il certificato medico, deve attenersi alla natura dell’infermità e valutarne il carattere impeditivo, potendo pervenire ad un giudizio negativo circa l’assoluta impossibilità a comparire solo disattendendo, con adeguata valutazione del referto e senza dover necessariamente disporre una “visita fiscale” o un accertamento tecnico, la rilevanza della patologia da cui si afferma colpito l’imputato o del difensore” (Cass. SS.UU. n°36635 del 27/09/2005; Cass., Sez. II^, n. 12948 del 05/03/2004).

 

La prova assoluta del legittimo impedimento

Ciò chiarito, gli Ermellini pongono in evidenza la necessità che la certificazione medica attestante l’impossibilità a comparire del difensore debba in generale essere idonea a comprovare “…la sussistenza dell’impedimento, indicandone la patologia ed i profili ostativi alla personale comparizione (citando sul punto il precedente delle SS.UU. n°41432 del 21 luglio 2016).

La Suprema Corte, dichiara pertanto manifestamente infondato il primo motivo di ricorso, ritenendo inidonea la certificazione medica allegata dal difensore in quanto “…il certificato medico non fornisce alcuna informazione sulla natura assoluta della impossibilità di comparire”, risultando privo dell’indicazione del “… grado della febbre e a quale grave e non evitabile rischio per la salute sarebbe andato incontro il difensore in caso di presenza all’udienza”.

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[:it]Si segnala la pubblicazione sul sito del Tribunale civile di Roma (http://www.tribunale.roma.giustizia.it/),

delle Linee guida elaborate dallaunmarried VI^ sezione civile riassuntiva degli orientamenti e prassi del Tribunale nei procedimenti di convalida di sfratto.

Cliccare di seguito per il testo delle linee guida: Linee Guida T.C. di Roma in punto di procedimenti per convalida di sfratto[:]

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A seguito della novella apportata dal D.lgs. n°154 del 28 dicembre 2013 e all’introduzione nel Titolo IX (“Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”) del Libro Primo, del capo II – rubricato “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimento relativi ai figli nati fuori del matrimonio” – è stato attribuito al giudice il potere di adottare, ai sensi dell’art. 337 ter c.c. “…ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di  temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare”.

In particolare, nei casi caratterizzati da una elevata conflittualità tra i coniugi e da un serio rischio di compromissione del rapporto tra il minore e il genitore con esso non convivente, sempre più frequentemente alcuni Tribunali stanno ricorrendo all’affido del minore presso i servizi sociali, riconoscendo a questi ultimi, come sottolineato dalla Suprema Corte, “…un ruolo di supplenza e di garanzia e intese a far iniziare ai genitori un percorso terapeutico finalizzato al superamento del conflitto e alla corretta instaurazione di una relazione basata sul rispetto reciproco nella relazione con il figlio”.

Di recente, La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°28998/18 del 12 novembre 2018, si è trovata a pronunciarsi sulla legittimità di un decreto con cui la Corte d’Appello di Venezia, in sede di reclamo, aveva disposto, al fine di precostituire “…le condizioni per il ripristino di una condivisa bigenitorialità tutelando da subito nel modo più penetrante il minore…”, l’affidamento dei minori ai servizi sociali, con collocamento presso la madre, nonché “…un progressivo incremento del diritto di visita del padre, secondo un calendario da predisporsi dai Servizi Sociali, con pernottamento del minore presso il padre ed introduzione di periodi alternati tra i genitori di permanenza del minore in occasione delle festività”, senza tuttavia determinarne modalità e durata.

La Corte, investita della questione, preliminarmente conferma l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto di Corte di Appello in quanto, citando alcuni precedenti “Il decreto della corte di appello, contenente provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio e le disposizioni relative al loro mantenimento, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché già nel vigore della L. 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile ‘rebus sic stantibus’ a quella del giudicato” (Cass. 6132 del 2015 cui è seguita 18194 del 2015; Cass. n. 3192/2017).

La Corte invece reputa infondata la censura operata dalla ricorrente relativa alla “…violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 4 commi 3 e 4, avendo la Corte confermato l’affidamento del minore ai Servizi Sociali senza determinare le modalità e la durata dell’incarico”. Ad avviso degli Ermellini, infatti, il provvedimento adottato dalla Corte veneziana risultava “…sufficientemente dettagliato e corretto” in quanto la necessaria indicazione della presumibile durata dell’affidamento e delle modalità di esercizio dei poteri degli affidatari, sono condizioni richieste solo per l’affidamento familiare previsto dall’art. 4, commi 3 e 4 della legge n°184/83, non già per il provvedimento di affidamento familiare di cui all’art. 337 ter c.c. bensì dell’affidamento.

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a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4La II^ sezione del Tribunale Civile di Bergamo, con decreto del 26 settembre 2018, ha chiarito che, nonostante la mancanza di un’espressa previsione in tal senso da parte della legge n°3/2012, tra i soggetti che posso accedere alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento debba annoverarsi anche la famiglia, intesa come “…ente collettivo costituito dai debitori appartenenti alla famiglia in crisi da sovraindebitamento”, e ciò, “…in particolare quando lo squilibrio finanziario derivi proprio dalla gestione della vita in comune dei suoi membri”.

Nel caso di specie, Il Tribunale lombardo aveva disposto la riunione delle due procedure, introdotte dai coniugi con due distinti ricorsi, in cui ognuno aveva chiesto, la liquidazione del loro patrimonio ex artt. 14 ter e segg. L. 3/12 come modificata dal D.L. 179/12, alla luce:

  • di ragioni di economia processuale;
  • della circostanza che la maggior parte dei debiti riguardava obbligazioni solidali dei due coniugi;
  • del fatto che la maggior parte dei beni immobili costituenti il patrimonio immobiliare dei coniugi era in comproprietà tra gli stessi.

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separazione-e-soldi_smallIl principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la recente sentenza n°18287 dell’11 luglio 2018

Come oramai noto a tutti, o quasi, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, hanno chiarito la natura e i presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio enunciati dall’art. 5 della legge n°898 del 1° dicembre 1970, pronunciando il seguente condivisibile principio di diritto: Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto“.

In particolare, le Sezioni Unite – prendendo le distanze dalla rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno divorzile, sostenuta pochi mesi prima dalla I^ sezione della Suprema Corte n°11504 del 10 maggio 2017 – hanno ritenuto che “…all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa…” con conseguente necessità di utilizzare un criterio composito al fine di accertare la debenza dell’assegno divorzile e procedere a una sua quantificazione, che tenga in dovuta considerazione:

  1. l’esistenza di una disparità economico-patrimoniale determinata dal divorzio, mediante una valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali dei coniugi del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
  2. il contributo fornito dall’ex coniuge più debole alla formazione del patrimonio comune e personale;
  3. la durata del matrimonio;
  4. le potenzialità reddituali presenti e future e dell’età dell’avente diritto;
  5. l’adeguatezza dei mezzi del richiedente “…non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi unilateralmente per una sola parte.

Ad avviso degli Ermellini, infatti, poiché “…alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo…”, solamente l’utilizzo del criterio composito soprarichiamato “…ha l’elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete perché, a differenza di quelli che si sono in precedenza esaminati, non ha quelle caratteristiche di generalità ed astrattezza variamente criticate in dottrina”.

L’accertamento della debenza e la sua quantificazione nel giudizio di merito.

Ai fini della determinazione della debenza o meno dell’assegno di mantenimento, come riassunto in una recente sentenza dal T.C. di Nuoro sulla scorta di quanto affermato dalle Sezioni Unite, il giudice di merito dovrà, pertanto:

  • preliminarmente accertare l’esistenza di “…una rilevante disparità tra le rispettive situazioni economico-patrimoniali degli ex coniugi”;
  • successivamente dovrà accertare “…se questa disparità sia stata causata da scelte condivise in ordine alla gestione del ménage familiare e ai rispettivi ruoli all’interno della famiglia” (con relativo onere probatorio posto a carico del richiedente);
  • dovrà poi verificare “…se il coniuge economicamente più debole non abbia la effettiva e concreta possibilità di superare (o quanto meno ridurre) il divario esistente, sotto il profilo delle concrete, effettive ed attuali possibilità di trovare un lavoro o di ottenere una più remunerativa occupazione, in considerazione della sua età, delle pregresse esperienze professionali, delle condizioni del mercato del lavoro e così via”.

Ai fini della successiva determinazione dell’entità dell’assegno, questa “non dovrà essere liquidata in misura corrispondente alla somma di denaro necessaria a mantenere (sia pur in via solo tendenziale) il pregresso tenore di vita, bensì in misura adeguata a colmare il divario avendo riguardo “al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente” .

Analisi delle prime pronunce dei Tribunali italiani

Nel corso dei mesi successivi al deposito della sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, si sono registrate le prime pronunce con cui alcuni tribunali italiani hanno riconosciuto e/o negato ai richiedenti il diritto all’assegno divorzile sulla scorta del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite e dei criteri individuati dalla Suprema Corte, dando particolare rilevanza:

  • all’esistenza di un’effettiva disparità economica;
  • alla sua eventuale riconducibilità a scelte condivise in costanza di matrimonio;
  • alla stessa durata del matrimonio;
  • all’età e alle potenzialità lavorative del richiedente.

1) Tribunale civile di Verona, sentenza n°1764/2018, pubblicata il 20 luglio 2018.

Il Tribunale civile di Verona è stato tra i primi ad applicare a un procedimento di divorzio, pendente dal 2015, i principi elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, negando l’assegno divorzile alla richiedente sulla scorta:

  • della breve durata dell’effettiva convivenza coniugale, essendosi i coniugi sposati nel 2004 e addivenuti a separazione personale nel 2008;
  • dell’indipendenza economica di ambedue i coniugi, come dagli stessi dichiarato in sede di separazione e confermato dalla documentazione reddituale depositati nel giudizio di divorzio;
  • della mancata incidenza del matrimonio sulla capacità reddituale della richiedente, rimasta inalterata;
  • del mancato contributo della moglie alla realizzazione professionale del marito, alla luce anche dell’età a cui le parti erano convolate a nozze (già ultra quarantenni) e della breve durata del matrimonio.

2) Tribunale civile di Roma, sentenza n°16394/2018, pubblicata l’8 agosto 2018.

Il Tribunale di Roma è stato tra i primi a negare il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie richiedente in considerazione:

  1. della capacità ed abilità al lavoro della moglie, la quale:
    1. non era “…titolare di alcun assegno di mantenimento in forza delle condizioni della separazione consensuale sottoscritta dalle parti”;
  2. era “…titolare sia di trattamento pensionistico che di redditi da lavoro dipendente per complessivi euro 1900,00”;
  3. era proprietaria del 50% della casa familiare, a lei assegnata, per la quale non sosteneva “…alcun onere (rata di mutuo o canone locatizio)”;
  1. delle voci di spesa incidenti negativamente sulla maggiore capacità reddituale dell’ex marito, il quale, “…sebbene titolare di un reddito più elevato, oltre a non utilizzare l’immobile adibito a casa coniugale, è tenuto alla corresponsione di una rata mensile pari a circa euro 850,00 per il pagamento del mutuo contratto per la casa di abitazione”;
  2. della non riconducibilità eziologica della disparità economico-patrimonialea determinazioni e scelte comuni e condivise che hanno condotto la [omissis] ad esplicare il suo ruolo solo o prevalentemente nell’ambito familiare”, in quanto la richiedente non aveva dedotto né comprovato che la scelta, in costanza di matrimonio, di lavorare part-time “…le abbia pregiudicato gli sviluppi di carriera”.

3) Tribunale civile di Trieste, sentenza n°525/2018 pubblicata il 21 agosto 2018.

Il Tribunale di Trieste, pronunciandosi su una richiesta di assegno divorzile, chiarisce preliminarmente come:

  • …l’obiettivo dell’assegno divorzile non è già la conservazione tendenziale del tenore di vita pregresso (riferimento specifico in sede di separazione, vista l’immanenza del vincolo di solidarietà coniugale), bensì la necessità di assicurare l’autosufficienza ovvero l’autonomia economica del coniuge più debole…”.
  • in situazioni caratterizzate da una sensibile disparità tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno dei coniugi, ancorché non necessariamente tale da sfociare nella constatazione di una radicale mancanza di autosufficienza economica, occorre non solo in funzione assistenziale-alimentare ma anche in chiave perequativa, stabilire se tale dislivello reddituale abbia o no la sua radice causale nelle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare: insomma, l’eventuale incidenza della vita matrimoniale sulla situazione attuale”.

Alla luce dei chiarimenti sopra esposti e in applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, i giudici triestini negano all’ex moglie l’assegno divorzile in quanto:

  1. “…non sembra esserci un divario sensibile tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno degli ex coniugi”, poiché:
  • il maggiore reddito dell’ex marito era notevolmente ridotto dagli obblighi di pagamento delle rate di mutuo dell’ex casa familiare nonché dal mantenimento per il figlio;
  • l’ex moglie, oltre a godere di redditi di tutto rispetto, poteva senza dubbio aumentarli mettendo a frutto il suo maggiore tempo libero e le proprie esperienze professionali;
  1. b) manca alcun riferimento significativo “…ad una qualche scelta adottata dopo il matrimonio, che abbia potuto incidere negativamente su eventuali aspettative di progressione in carriera della [omissis]”, così come che “…abbia consumato un ruolo esclusivamente o prevalentemente all’interno della famiglia”.

 

4) Tribunale civile di Nuoro, sentenza del 23 ottobre 2018.

Da ultimo, il Tribunale civile di Nuoro, nella recente pronuncia in oggetto, riconosce invece il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie in considerazione:

  • del chiaro divario economico esistente tra gli ex coniugi;
  • della prova offerta dalla richiedente “…di aver significativamente contribuito alla formazione del patrimonio personale del marito, si provvedendo al pagamento (quanto meno in parte) del mutuo contratto per la edificazione della casa familiare tramite le proprie risorse personali…”;
  • della durata ventennale del matrimonio sino alla separazione (e di 29 anni al momento della pronuncia della sentenza di divorzio);
  • della mancanza di mezzi adeguati della richiedente, alla luce del suo modesto reddito da lavoro (circa 997 euro al mese), della circostanza che non fosse proprietaria di beni immobili e, non da ultimo, della circostanza che, non essendo i figli oramai maggiorenni, economicamente sufficienti e non più conviventi con la madre, la stessa “perdendo la disponibilità della casa familiare sinora a lei assegnata ma di proprietà del marito, inoltre, essa sarà costretta a sostenere ulteriori oneri per reperire un immobile da condurre in locazione”.

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[:it]downloadAncora non è sopito il fragore mediatico sollevato dalla sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano ha condannato l’ex moglie di Berlusconi a rifondere quanto ottenuto negli anni a titolo di assegno divorzile (sentenza n°4793 del 16 novembre 2017), che la Suprema Corte, con la recente ordinanza n°28326 del 17 ottobre 2017, pubblicata il 28 novembre 2017, ritorna a pronunciarsi sull’annosa questione della debenza dell’assegno divorzile, confermando la necessità di rivedere quelle sentenze basate sul “vecchio” parametro dello stile di vita della famiglia in costanza di matrimonio.

I fatti di causa:

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato da un marito avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Catania aveva riconosciuto all’ex moglie un assegno di mantenimento, parametrandolo altresì al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio. In particolare, il ricorrente deduceva, da un lato, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, co. 6 della legge n°898/70 e, dall’altro, l’omesso esame da parte della Giudice di secondo grado, di un fatto decisivo per il giudizio.

Gli Ermellini, accolgono le doglianze dell’ex marito, richiamando preliminarmente i seguenti principi di diritto affermati nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017:

  • Il diritto all’assegno di divorzio è subordinato alla previa verifica giudiziale, distinta in due fasi nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla stessa norma:
  1. la prima fase, avente ad oggetto l’accertamento dell’an debeatur, che si informa “…al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valore dall’ex coniuge richiedente…”;
  2. la seconda fase, a cui si accede solo in caso della conclusione positiva dell’accertamento dell’an, riguarda il quantum debeatur, è invece “…improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso”.
  • Il giudice del divorzio, dovrà pertanto previamente verificare la debenza dell’assegno accertando la sussistenza delle relative condizioni di legge – “mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive“…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”.
  • L’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge richiedente dovrà essere desunta da una serie di indici, quali:
    1. il “…possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente)…”;
    2. “…(del)la capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo)…”;
    3. “…(del)la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.
  • L’onere di dimostrare l’esistenza dell’indipendenza e/o non autosufficienza economica incombe sull’ex coniuge richiedente, “…fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge…”.
  • Nella seconda fase, relativa al quantum debeatur, il giudice dovrà tenere conto “…di tutti gli elementi indicati dalla norma…”, quali:
    1. le condizioni dei coniugi;
    2. le ragioni della decisione;
    3. “…il contributo personale dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune…”;
    4. i redditi di entrambi i coniugi.
  • I suddetti elementi, necessari al giudice per quantificare la misura dell’assegno divorzile, poi, dovranno essere valutati “…anche in rapporto alla durata del matrimonio al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova”.

Alla luce dei suddetti principi, pertanto, la Suprema Corte cassa la sentenza della C.d’A. di Catania, poiché “…aveva valutato il conseguimento dell’assegno, con riguardo all’adeguatezza di vita matrimoniale, in base al criterio indicato dalla pregressa giurisprudenza…” disponendo il rinvio alla medesima Corte, in diversa composizione, al fine di valutare nuovamente l’an della richiesta dell’assegno divorzile sulla base del criterio dell’adeguatezza dei mezzi o della sussistenza di ragioni oggettive che impediscano alla moglie di procurarseli.

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