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Con la recente sentenza del 9 dicembre 2024, il Tribunale civile di Isernia si è pronunciato sulla richiesta di rimessione in pristino e risarcimento danni spiegata da un condomino in danno del conduttore di un appartamento posto nel medesimo condominio che aveva costruito illegittimamente un gradino sul suolo condominiale, occupandolo mediante fioriere e tavolini, nonché del locatore e proprietario dell’immobile.

Quest’ultimo resisteva eccependo la sua carenza di legittimazione passiva.

Il Tribunale di Isernia, tuttavia, rigetta l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione rilevando che il locatore sia comunque gravato dall’onere di garantire, nel confronti del condominio, il rispetto da parte del conduttore del regolamento condominiale e che il comportamento di quest’ultimo non arrechi disturbo agli altri condomini nel godimento della cosa comune.

Il locatore, come chiarito, non è responsabile quindi solo delle proprie condotte e violazioni delle norme regolamentari ma anche di quelle commesse dal conduttore del suo bene,  “…essendo tenuto non solo a imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, ma altresì a prevenirne le violazioni e a sanzionarle, anche mediante la cessazione del rapporto” (cfr. Cassazione civile, sentenza n. 8239/1997).

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Il caso

Con sentenza del 4 dicembre 1987, il Tribunale di Taranto dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ponendo a carico del padre il versamento di un contributo al mantenimento delle due figlie sino al termine degli studi universitari.

Nonostante le due figlie della coppia avessero conseguito la laurea e si fossero altresì sposate, rispettivamente nel 1994 e nel 1998, l’ex moglie notificava all’ex marito, in data 3 maggio 2006, un precetto di pagamento per il pagamento del mantenimento relativo agli ultimi 5 anni.

L’ex marito versava spontaneamente l’importo precettato, promuovendo successivamente un giudizio volto alla restituzione di quanto pagato, chiedendo in subordine il risarcimento del danno per appropriazione indebita.

I giudizi di primo e secondo grado

Il Giudice di prime cure, rigettava la domanda restitutoria, accogliendo, di contro, quella subordinata.

La pronuncia veniva impugnata da ambedue i coniugi.

La Corte d’Appello di Lecce, pronunciandosi sui due gravami:

  • rigettava quello del marito, ritenendo infondata la pretesa restitutoria “…sul presupposto che il suo obbligo contributivo fosse venuto meno solo con il provvedimento del Tribunale del 2 maggio 2007 che ne aveva decretato la cessazione a decorrere dal 13 ottobre 2006”;
  • accoglieva, di contro, quello della moglie e rigettava la domanda risarcitoria del marito “…escludendo l’ipotizzata appropriazione indebita sia perché la (moglie) aveva percepito le somme in forza di un titolo giudiziale, sia perché l’ipotizzato danno era riconducibile al comportamento inerte dello stesso (marito) il quale solo nell’ottobre 2006 si era attivato per la modifica delle statuizioni patrimoniali inerenti al divorzio”.

Il ricorso per Cassazione

Avverso detta sentenza ricorreva sino in Cassazione l’ex marito, dolendosi dell’esclusione del carattere indebito, ai sensi dell’art. 2033 c.c., del pagamento “essendo il vincolo obbligatorio, cioè la causa giustificativa del pagamento stesso, cessato quanto meno dal 1994 al 1998”.

Gli ermellini accolgono il ricorso del marito, offrendo i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • sulla base dell’accordo raggiunto dai genitori in sede di divorzio, l’obbligo di mantenimento delle figlie da parte del padre era venuto meno a seguito del conseguimento del diploma di laurea;
  • la circostanza che il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio sia stato introdotto dall’ex marito solo successivamente, “…non impedisce la proposizione dell’azione restitutoria delle somme corrisposte indebitamente, a norma dell’art. 2033 c.c. che ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa”;
  • “…l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio” (in senso conforme Cass. civ. n°11489/2014).

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La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 7940 del 12 settembre 2019, ha ribadito il principio, ormai cristallizzato dagli Ermellini, secondo il quale la deroga posta dal secondo comma dell’art. 2721 c.c. è ammissibile solo se giustificata da una concreta valutazione delle ragioni per cui la parte, incolpevolmente, non sia in possesso di documentazione scritta.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine da un procedimento di ingiunzione promosso da un avvocato nei confronti di una cliente, nel quale il Tribunale di Cagliari, con sentenza n. 2478/2012, rigettava l’opposizione proposta avverso il decreto ingiuntivo.

Il credito azionato in via monitoria – della somma di euro 8.860,72 – aveva ad oggetto il compenso per l’attività professionale prestata nella causa di risarcimento danni da sinistro stradale, definito in via transattiva.

Dolendosi di tale decisione, la cliente ricorreva alla Corte d’Appello di Cagliari che, all’esito del giudizio, riformava la decisione del giudice di prime cure e condannava l’avvocato – previa revoca del decreto ingiuntivo – a restituire alla controparte la somma di euro 789,95. La Corte territoriale calcolava tale importo dalla differenza tra quanto già corrisposto dalla cliente a titolo di acconto, grossolanamente considerando attendibili le dichiarazioni dei genitori della medesima, e il compenso parametrato all’importo attribuito alla cliente a titolo risarcitorio, sulla scorta delle tariffe dettate dal D.M. 8 aprile 2004, vigente ratione temporis.

Il ricorso per cassazione  

Il difensore, vista la decisione della Corte d’Appello, adiva la Suprema Corte dolendosi, in particolare, di come il giudice di secondo grado avesse ritenuto provato il pagamento di acconti su prove testimoniali – peraltro fornite dai genitori – “senza giustificare la deroga al divieto previsto per i contratti ed esteso ai pagamenti di valore superiore ad euro 2,58”.

Il giudizio della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso limitatamente alla suesposta doglianza, ha ribadito il consolidato principio secondo il quale “poiché ai sensi dell’art. 2726 cod. civ. le norme stabilite per la prova testimoniale si applicano anche al pagamento e alla remissione del debito, è ammessa la deroga al divieto della prova testimoniale in ordine al pagamento delle somme di denaro eccedenti il limite previsto dall’art. 2721 cod. civ., ma la deroga è subordinata ad una concreta valutazione delle ragioni in base alle quali, nonostante l’esigenza di prudenza e di cautela che normalmente richiedono gli impegni relativi a notevoli esborsi di denaro, la parte non abbia curato di predisporre una documentazione scritta (ex plurimis, Cass. 14/07/2003, n. 10989; Cass. 25/05/1993, n. 5884; Cass. 18/03/1968, n. 879).  

Di qui, la decisione della Suprema Corte di cassare in parte qua la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa composizione, affinché si conformi al principio di diritto sopra richiamato.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

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downloadIl caso

Una società propone opposizione avverso un atto di precetto notificatole in forza di un decreto ingiuntivo esecutivo, deducendone la nullità in quanto privo dell’indicazione del provvedimento dichiarativo dell’esecutorietà del provvedimento monitorio.

Il Tribunale, ritenendo sufficiente l’indicazione nel precetto dell’apposizione della formula esecutiva al decreto ingiuntivo non opposto, ha rigettato l’opposizione.

Nel caso esaminato, nell’atto di precetto erano stati indicati il numero, la data e l’autorità giudiziaria che aveva emesso il decreto ingiuntivo, la mancata opposizione e l’apposizione della formula esecutiva, mentre non risultava menzionato, neppure indirettamente, il provvedimento di dichiarazione di esecutorietà del suddetto decreto.

La società intimata, interponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenze del Tribunale deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 645, comma 2, c.p.c., avendo, secondo la prospettazione della ricorrente, il Tribunale errato non rilevando la mancanza della menzione nel precetto del provvedimento dichiarativo dell’esecutorietà del decreto ingiuntivo azionato.

La decisione

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha osservato che:

  • come già affermato dagli stessi giudici di legittimità in altri arresti, l’indicazione nel precetto del provvedimento con cui è stata disposta l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, unitamente a quella dell’apposizione della formula esecutiva, ha la funzione di evitare che il creditore debba procedere alla nuova notifica del titolo, integrando, con finalità di semplificazione, la precedente notificazione effettuata, facendo decorrere il termine per l’opposizione, nel momento in cui l’ingiunzione era ancora priva di efficacia esecutiva (ex multis Cass. civ. n°843 del 15 marzo 1969; Cass. civ. n°12731 del 30 maggio 2007; Cass. civ. n°10294 del 5 maggio 2009);
  • nel caso in cui vengano omesse entrambe le menzioni, l’atto di precetto è nullo in quanto si configurerebbe una situazione simile a quella dell’ipotesi di notifica dell’intimazione non preceduta da quella del titolo e non è suscettibile di sanatoria alcuna, ma solo di stabilizzazione qualora la parte intimata non proponga opposizione nei termini ai sensi dell’art. 617 c.p.c. e la suddetta omissione non è rilevabile d’ufficio;
  • ai fini dell’accertamento della sussistenza nel precetto della duplice menzione non sono richieste prescrizioni formali d’indicazione, dovendosi assicurare la conoscenza dell’ingiunto interpretando il precetto alla luce del principio della conservazione degli atti;
  • l’indicazione nel precetto del provvedimento con cui è stata disposta l’esecutorietà del decreto ingiuntivo e quella dell’apposizione della formula esecutiva, sono menzioni distintamente previste dal legislatore che corrispondono a due diverse attività e garanzie dell’ingiunto: l’una, del giudice, che, dichiarando l’esecutorietà, attesta di aver verificato la regolarità della notificazione e il legale decorso dei termini per l’opposizione, l’altra, del cancelliere, che autorizza il richiedente legittimato all’utilizzo del documento contenente il titolo a fini coattivi, ovvero ad avvalersi, per quello, dell’organo esecutivo.

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autoveloxLa Suprema Corte di Cassazione è recentemente intervenuta chiarendo quali siano le condizioni richieste dall’art. 142, comma 6 bis del Codice della Strada affinchè possa ritenersi legittimamente accertato l’eccesso di velocità mediante l’utilizzo dell’autovelox.

La vicenda trae origine dalle contestazioni di un caparbio automobilista, disposto a ricorrere sino in Cassazione ritenendo, a ragione, che fosse illegittimo l’accertamento della violazione mediante autovelox qualora, nonostante la regolare segnalazione dell’autovelox, la postazione di controllo non fosse chiaramente visibile.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, censura la decisione del giudice d’appello chiarendo che, condizioni per la legittimità dell’accertamento della violazione dell’art. 142, comma 6 C.d.S. sono:

  • non solo la presenza di un cartello che segnali la presenza dell’autovelox, posto a regolare distanza;
  • ma anche “…visibilità della postazione di controllo per il rilevamento della velocità”.

In difetto di detti requisiti, conclude la Suprema Corte, la sanzione deve ritenersi nulla.

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[:it]downloadCon una recente pronuncia, datata 28 settembre 2018, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, hanno ritenuto valida la notificazione eseguita all’indirizzo pec di un collega, risultante dall’Albo professionale di iscrizione, ancorché priva dell’inciso “notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994” nonché dell’indicazione del codice fiscale della parte nel cui interesse era stato notificato il provvedimento giudiziario.

La vicenda in esame

Un’Azienda Sanitaria Provinciale proponeva vittoriosamente opposizione avverso un decreto ingiuntivo con cui il Tribunale di Messina l’aveva condannata al pagamento di una cospicua somma di denaro per delle prestazioni di natura riabilitativa eseguite dalla creditrice, sulla scorta della dedotta operatività per tali prestazioni del sistema della c.d. regressione tariffaria. Detta decisione veniva tuttavia ribaltata in sede di Appello dal giudice di seconde cure, che riconoscendo l’esistenza del credito, confermava l’opposto decreto ingiuntivo. La sentenza della Corte d’Appello veniva notificata all’indirizzo pec del difensore in data 26 giugno 2015.

Il ricorso per Cassazione e l’eccezione di inammissibilità

Avverso detta pronuncia ricorreva per Cassazione l’Azienda Sanitaria Provinciale, “…con procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016”.

La controricorrente costituendosi, eccepiva l’inammissibilità del predetto ricorso, in quanto depositato – in palese violazione del termine di 60 giorni indicato nell’art. 352, co. 2, c.p.c. – a distanza di diversi mesi dalla notificazione della sentenza al procuratore costituito.

I difensori del ricorrente, al fine di impedire la decorrenza del termine “breve” di cui all’art. 352. co. II^ c.p.c., deducevano a loro volta la nullità della predetta notificazione in quanto:

  • l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179”;
  • la notifica sarebbe viziata dall’omessa indicazione del codice fiscale della parte nonché dall’omessa indicazione della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994“.

La validità della notificazione eseguita all’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata dall’avvocato al proprio albo di appartenenza.

Di diverso avviso, tuttavia, sono le Sezioni Unite, ritenendo pienamente valida ed efficace la notificazione eseguita all’indirizzo pec risultante dall’albo professionale, sulla stregua della seguente condivisibile motivazione:

  • il D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale“, espressamente prevede che: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.
  • da un’interpretazione letterale della sopracitata norma, emerge con chiarezza che la stessa “…imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE”;
  • detta interpretazione risulta corroborata da quanto espressamente previsto dall’art. 5 della L. n°53/1994: “… l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”.

L’irrilevanza dei vizi di natura procedimentale qualora non comportino un pregiudizio per la decisione

 

Ad avviso della Suprema Corte non meritano parimenti apprezzamento le ulteriori censure operate dalla ricorrente, relative all’omessa indicazione del codice fiscale e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

Richiamando un proprio recente orientamento (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665) gli Ermellini hanno chiarito, infatti, come in tema di notificazione in via telematica, vada privilegiato il raggiungimento dello “scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata”, con conseguente l’irrilevanza dei vizi di mera natura procedimentale che non comportino “…una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione”.

E tali debbono considerarsi:

  • sia “la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituente una “mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto” (sul punto vedasi anche Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814);

sia “…l’omessa indicazione del codice fiscale (…) dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della n[:]

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car-accident-1995852_960_720I fatti di cui è causa

I congiunti ed eredi di due giovani, morti a seguito di un incidente stradale, convenivano in giudizio il conducente della vettura – che, invadendo la loro corsia di marcia, ne aveva causato la morte – unitamente alla compagnia assicurativa, al fine di vedersi condannati in solido al risarcimento dei danni, dagli stessi quantificati in € 1.650.000,00.

Il Tribunale di Cuneo, investito della questione, pur ritenendo accertata la responsabilità esclusiva del conducente convenuto, a seguito dell’acquisizione delle risultanze della C.T.U. svolta nel giudizio penale:

  • riconosceva, in applicazione delle Tabelle di Milano l’importo di € Euro 200.000,00 ai genitori delle vittime, l’importo di € 80.000 in favore della sorella, l’importo di € 4.000 iure hereditatis per danni alla moto condotta dai ragazzi, nonché l’importo di circa € 120.000,00 quale danno non patrimoniale iure proprio subito da un altro congiunto delle vittime, accertato iure proprio, accertato con la CTU (Euro 119.781,67);
  • negava tuttavia la liquidazione del danno tanatologico iure hereditatis in favore dei congiunti di una delle due vittime;
  • negava ai congiunti il danno patrimoniale da perdita delle contribuzioni reddituali dei figli defunti.

La Corte d’Appello, in parziale accoglimento del gravame proposto dagli eredi di una delle due vittime, condannava i convenuti al pagamento di ulteriori € 3.000,00 per danni patrimoniali (spese funeratizie) oltre interessi e spese di lite.

Il ricorso per cassazione

Gli eredi, tuttavia, non si davano per vinti, ricorrendo sino in Cassazione, lamentando il mancato riconoscimento, nei primi due gradi di giudizio, del danno morale soggettivo. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, i giudici di merito, pur applicando il criterio della c.d. “…omnicomprensività ed unitarietà del risarcimento del danno non patrimoniale, finalizzato ad evitare duplicazioni”, non avevano riconosciuto e dato “…adeguata protezione per ciascuna delle lesioni prodotte alla sfera della persona”.

La decisione della Suprema Corte

La III^ sezione della Corte di Cassazione, investita della questione, reputa fondata censura, alla stregua della seguente condivisibile argomentazione:

  • “…l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.)”;
  • “[L]a natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale (…) dev’essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di compiuta istruttoria, a un accertamento concreto e non astratto del danno, a tal fine dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni”.
  • “…[N]el procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve dunque tenere conto da una parte dell’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. in motivazione) e, dall’altra, del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni, come modificati dalla 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, la cui novellata rubrica (titolata “danno non patrimoniale”, in sostituzione della precedente “danno biologico”), e il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale”;
  • “[N]e deriva che il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sè, della paura, ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato a incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto)”.
  • “[L]a misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme (…) può essere poi aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e affatto peculiari…”.
  • “[L]a liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (Cass., 20/04/2016, n. 7766).

Ad avviso della Suprema Corte, inoltre, “…se è vero che di tali componenti occorre dare la prova, si può ritenere che, rispetto alla morte di un figlio e di una figlia, entrambi in giovane età, appartenga al notorio l’esistenza di un danno soggettivo patito dai congiunti in tutte le sue componenti.”.

Gli ermellini, pertanto, in accoglimento di tale motivo di ricorso, hanno cassa la sentenza e rinviato alla Corte d’Appello competente.

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separazione-e-soldi_smallLa corresponsione integrale e puntuale del mantenimento dovuto per i figli da parte del genitore obbligato rappresenta ai giorni d’oggi una vera e propria chimera. Sempre più, infatti, sono i genitori inadempienti, vuoi per una consapevole e deprecabile volontà degli stessi in tal senso vuoi per un’impossibilità oggettiva e materiale a provvedervi.

Il legislatore ha voluto fare fronte all’eventualità in cui ambedue i genitori non possano fare fronte alle esigenze alimentari dei loro figli, disponendo, all’art. 433 c.c., che: “…all’obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti nell’ordine: 1) il coniuge; 2) i figli, anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi; 3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti; 4) i generi e le nuore; 5) il suocero e la suocera; 6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali con precedenza dei germani sugli unilaterali”.

I soggetti individuati dalla norma in oggetto non sono tuttavia tenuti in via solidale al predetto mantenimento, bensì solo ed esclusivamente in via subordinata e sussidiaria, potendosi configurare un tale obbligo in capo agli ascendenti unicamente qualora sia eccepita e comprovata l’impossibilità ad adempiere di ambedue i genitori.

Il caso in esame

Una madre, esasperata dal mancato versamento di alcun mantenimento in favore dei figli da parte del suo ex compagno, presentava ricorso al fine di vedere condannati i nonni paterni al versamento degli alimenti ex art. 433 c.c. in favore dei due nipoti, ottenendo in primo grado una condanna degli stessi al pagamento degli alimenti nella misura mensile di € 300,00, soccombendo tuttavia nel successivo grado di appello, a seguito dell’accoglimento del gravame presentato dai due nonni dinnanzi Corte d’Appello di Catanzaro.

La ricorrente, lungi dal darsi per vinta decideva di ricorrere in Cassazione, deducendo inter alia la “…violazione e falsa applicazione degli artt. 433, 147 e 148 c.c.”.

L’iter motivazionale.

La VI^-1 sezione della Suprema Corte, dichiara tuttavia inammissibile il gravame della madre alla luce dei seguenti condivisibili principi:

  • l’obbligo di mantenimento dei figli minori ex art. 148 cod. civ. spetta primariamente e integralmente ai loro genitori sicché, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di cosmi”;
  • l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; così come il diritto agli alimenti ex art. 433 c.c., legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo”.

Ad avviso della Suprema Corte, pertanto, i nonni non potevano ritenersi obbligati in via sussidiaria al versamento di alcunché in favore dei nipoti per il solo fatto che il loro figlio (e padre dei bambini) si fosse reso inadempiente, né potevano ritenersi obbligati nel caso concreto, a seguito della mancata prova da parte della ricorrente circa la sussistenza dei presupposti oggettivi dell’obbligazione alimentare.

In particolare, ad avviso della Suprema Corte, la madre non aveva assolto all’onere sulla stessa posto, di comprovare:

  • l’incapacità di entrambi i genitori a provvedere alle esigenze primarie dei bambini;
  • la propria incapacità, peraltro neppure dedotta dalla ricorrente, “…per condizione professionale o sociale, di incrementare tale reddito”;
  • la capacità economica degli ascendenti “…di far fronte all’obbligazione alimentare, risultando dagli atti che essi vivevano della pensione del sig. X. di Euro 1.500,00 mensili”.

Nei tre gradi di giudizio era invece emerso che la madre poteva in positivo fare fronte alle esigenze alimentari dei minori essendo titolare di un reddito da lavoro di € 700,00 mensili, essendo proprietaria dell’abitazione familiare.

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[:it]downloadAncora non è sopito il fragore mediatico sollevato dalla sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano ha condannato l’ex moglie di Berlusconi a rifondere quanto ottenuto negli anni a titolo di assegno divorzile (sentenza n°4793 del 16 novembre 2017), che la Suprema Corte, con la recente ordinanza n°28326 del 17 ottobre 2017, pubblicata il 28 novembre 2017, ritorna a pronunciarsi sull’annosa questione della debenza dell’assegno divorzile, confermando la necessità di rivedere quelle sentenze basate sul “vecchio” parametro dello stile di vita della famiglia in costanza di matrimonio.

I fatti di causa:

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato da un marito avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Catania aveva riconosciuto all’ex moglie un assegno di mantenimento, parametrandolo altresì al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio. In particolare, il ricorrente deduceva, da un lato, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, co. 6 della legge n°898/70 e, dall’altro, l’omesso esame da parte della Giudice di secondo grado, di un fatto decisivo per il giudizio.

Gli Ermellini, accolgono le doglianze dell’ex marito, richiamando preliminarmente i seguenti principi di diritto affermati nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017:

  • Il diritto all’assegno di divorzio è subordinato alla previa verifica giudiziale, distinta in due fasi nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla stessa norma:
  1. la prima fase, avente ad oggetto l’accertamento dell’an debeatur, che si informa “…al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valore dall’ex coniuge richiedente…”;
  2. la seconda fase, a cui si accede solo in caso della conclusione positiva dell’accertamento dell’an, riguarda il quantum debeatur, è invece “…improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso”.
  • Il giudice del divorzio, dovrà pertanto previamente verificare la debenza dell’assegno accertando la sussistenza delle relative condizioni di legge – “mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive“…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”.
  • L’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge richiedente dovrà essere desunta da una serie di indici, quali:
    1. il “…possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente)…”;
    2. “…(del)la capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo)…”;
    3. “…(del)la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.
  • L’onere di dimostrare l’esistenza dell’indipendenza e/o non autosufficienza economica incombe sull’ex coniuge richiedente, “…fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge…”.
  • Nella seconda fase, relativa al quantum debeatur, il giudice dovrà tenere conto “…di tutti gli elementi indicati dalla norma…”, quali:
    1. le condizioni dei coniugi;
    2. le ragioni della decisione;
    3. “…il contributo personale dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune…”;
    4. i redditi di entrambi i coniugi.
  • I suddetti elementi, necessari al giudice per quantificare la misura dell’assegno divorzile, poi, dovranno essere valutati “…anche in rapporto alla durata del matrimonio al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova”.

Alla luce dei suddetti principi, pertanto, la Suprema Corte cassa la sentenza della C.d’A. di Catania, poiché “…aveva valutato il conseguimento dell’assegno, con riguardo all’adeguatezza di vita matrimoniale, in base al criterio indicato dalla pregressa giurisprudenza…” disponendo il rinvio alla medesima Corte, in diversa composizione, al fine di valutare nuovamente l’an della richiesta dell’assegno divorzile sulla base del criterio dell’adeguatezza dei mezzi o della sussistenza di ragioni oggettive che impediscano alla moglie di procurarseli.

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[:it]download (1)La PAS (Sindrome da Alienazione Parentale)

Il fallimento della propria unione è difficile da accettare, ancor di più per i propri figli. È per questo che è importante fare capir loro che l’amore del papà e della mamma non verrà mai meno, perché padre e madre si resta anche dopo una separazione.

Aimè, tuttavia, nelle liti familiari che riempiono i tribunali italiani sta emergendo in modo sempre più preoccupante il fenomeno della c.d. alienazione parentale, definita dal celebre psichiatra americano Richard A. Gardner, come: «Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile».

Nella giurisprudenza degli ultimi anni il riferimento alla PAS sta divenendo sempre più recente, ancorché se l’esistenza e i connotati di questa patologia siano ancora discussi in ambito medico.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n°21215 del 13 settembre 2017, si è recentemente imbattuta in un caso di alienazione parentale degno di nota, anche per le misure assunte dai giudici nei primi gradi di giudizio al fine di porvi rimedio.

I primi gradi di giudizio.

La vicenda di cui ci si occupa trae origine da una delle tante cause di divorzio in cui, oltre alle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento per il coniuge e i figli, le parti hanno demandato al Tribunale di Napoli di pronunciarsi sul regime di affido e mantenimento di una figlia minore.

All’esito della CTU svoltasi in primo grado, da cui era emersa una forte manipolazione della bambina ad opera della madre –  tale da spingerla a provare risentimento nei confronti del padre sulla base di motivi artificiosi creati ad arte dalla madre e a rifiutarsi di incontrarlo – il Tribunale partenopeo aveva deciso:

  • di affidare la minore per un periodo di 6 mesi alla zia paterna, disciplinando puntualmente gli incontri dei genitori con la bambina
  • di porre a carico di ambedue i genitori un congruo assegno di mantenimento;
  • di rigettare la domanda di assegnazione della casa familiare e di assegno di mantenimento per il coniuge avanzata dalla madre.

La madre, tuttavia, propone ricorso avverso detta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Napoli, chiedendo di disporsi l’affido condiviso della figlia con collocamento prevalente presso la stessa.

La Corte di secondo grado, tuttavia non solo rigetta l’appello della madre ma decide – essendosi concluso il periodo di 6 mesi di affidamento della bambina alla zia paterna – di disporre l’affido esclusivo della piccola al padre, ponendo a carico dell’ex moglie un assegno di mantenimento di € 400,00 e disciplinando degli incontri protetti madre – figlia presso i Servizi Sociali.

Le risultanze della C.T.U.

Alla base della decisione, ancora una volta, gli esiti della C.T.U. svoltasi in primo grado che così ha descritto l’ex moglie, la quale:

  • “…mostra un tratto passivo aggressivo, alternando momenti in cui si percepisce vittima a momenti in cui perseguita lei stessa il C…. percepisce pericoli incombenti da cui difendersi e lottare ed è presente una spinta sadomasochistica con tendenza al vittimismo… tende a voler definire lei il ruolo paterno del sig. C., e durante i colloqui mostra un atteggiamento svalutante nei confronti del padre”;
  • “…non le [alla figlia] riconosce il diritto di amare il suo papà e, in maniera consapevole o inconsapevole, agisce con ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente…”;

Ancor più significative, poi, sono le risultanze con riferimento alla figlia, la quale:

  • “…in presenza della madre, si disperava dicendo di non voler andare con il padre ma, non appena la genitrice si allontanava, subito si rasserenava, confortata dall’affettuosità paterna”;
  • “…non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, nonché una coatta e forzosa ostilità verso il padre… si riscontra una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre…”.

Ad avviso dell’esperta nominata dal Tribunale, il condizionamento che aveva subito la minore era di tale entità da rendere insussistenti “…le condizioni per intraprendere un favorevole percorso terapeutico, al fine di agevole la ripresa dei contatti della bambina con il padre…” e da escludere altresì “…l’opportunità dell’affidamento della minore alla madre”.

Il giudizio in Cassazione

La madre decideva di ricorrere avverso detta sentenza sino alla Corte di Cassazione, eccependo che la decisione del giudice di secondo grado era fondata sulla diagnosi della sindrome d’alienazione parentale, senza che la Corte avesse provveduto “…alla verifica scientifica della teoria posta alla base della diagnosi”.

La Suprema Corte, tuttavia, rigetta l’appello della donna sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • preliminarmente, “…l’allegazione, nel ricorso per cassazione, di un mero dissenso scientifico, che non attinga un vizio nel processo logico seguito dalla Corte territoriale, si traduce in una inammissibile domanda di revisione nel merito del convincimento del giudice” (tra le molte, cfr. Cass. sez. I^, sent. 9.1.2009, n. 282);
  • la decisione della Corte d’Appello si è basata non solo sulla C.T.U. espletata ma anche sulle risultanze di uno specialista che ha seguito la bambina nel corso del giudizio d’appello, esprimendo le medesime valutazioni della consulente tecnica e alla conclusione dell’inidoneità della madre all’esercizio della responsabilità genitoriale;
  • dirimente per la decisione della corte d’appello non è stata la ricorrenza di una patologia, quale la PAS, bensì ma “…l’adeguatezza di una madre a svolgere il proprio ruolo nei confronti di una figlia minore che si trova in grave difficoltà, avrebbe bisogno del sostegno di entrambi i genitori, ma non riceve la collaborazione di cui ha bisogno dalla madre, in base alle univoche risultanze di causa…”;
  • la Corte d’Appello, infatti, ha correttamente fatto proprie le risultanze della CTU svoltasi in primo grado, dalla quale è emerso che “la P. ha cercato di esautorare il C., padre della piccola A. e di sostituirlo, nello svolgimento del ruolo paterno, con la figura del suo attuale compagno convivente. Infatti la stessa P. dichiarava che la figlia chiamava “papà” il compagno della mamma”.

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