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downloadCon sentenza del 14 giugno 2017, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, si è pronunciata sulla domanda di interpretazione pregiudiziale del Tribunale civile di Verona, vertente sulla legittimità della previsione, da parte del legislatore italiano, della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a controversie riguardanti la tutela dei consumatori.

Il giudizio a quo e le domande rivolte alla CGUE

La domanda trae origine dall’opposizione presentata da due consumatori avverso il decreto ingiuntivo – ottenuto in loro danno dal proprio istituto bancario, nell’ambito di un regolamento del saldo debitore del conto corrente degli stessi, a seguito dell’apertura di credito loro concessa – senza aver previamente esperito l’obbligatorio procedimento di mediazione.

Il Tribunale di Verona, investito della questione, ritenendo le disposizioni interne in materia di mediazione obbligatoria in contrasto con la direttiva 2013/11/UE, decide di interrogare pertanto la Corte di Lussemburgo. In particolare, ad avviso del tribunale nostrano, la previsione della mediazione quale condizione di procedibilità risulterebbe sfavorevole rispetto a quanto previsto dall’art. 9 della succitata direttiva in quanto, mentre la normativa europea “…lascia alle parti la scelta non solo di partecipare o meno alla procedura ADR [alternative dispute resolution], ma anche di ritirarsi in qualsiasi momento dalla stessa…”, di contro, quella italiana non consente alle parti di “…ritirarsi dalla procedura di mediazione in ogni momento, e senza conseguenze di sorta, se non sono soddisfatte delle prestazioni o del funzionamento della procedura”.

Due, in particolare, sono le domande rivolte alla Corte di Giustizia:

«1) Se 1’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2013/11, nella parte in cui prevede che la medesima direttiva si applichi “fatta salva la direttiva 2008/52”, vada inteso nel senso che fa salva la possibilità per i singoli Stati membri di prevedere la mediazione obbligatoria per le sole ipotesi che non ricadono nell’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, vale a dire le ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 2 della direttiva 2013/11, le controversie contrattuali derivanti da contratti diversi da quelli di vendita o di servizi oltre quelle che non riguardino consumatori

«2) Se l’articolo 1 (…) della direttiva 2013/11, nella parte in cui assicura ai consumatori la possibilità di presentare reclamo nei confronti dei professionisti dinanzi ad appositi organismi di risoluzione alternativa delle controversie, vada interpretato nel senso che tale norma osta ad una norma nazionale che prevede il ricorso alla mediazione, in una delle controversie di cui all’articolo 2, paragrafo 1 della direttiva 2013/11, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale della parte qualificabile come consumatore, e, in ogni caso, ad una norma nazionale che preveda l’assistenza difensiva obbligatoria, ed i relativi costi, per il consumatore che partecipi alla mediazione relativa ad una delle predette controversie, nonché la possibilità di non partecipare alla mediazione se non in presenza di un giustificato motivo»

La (non) risposta alla prima questione

I giudici dell’Unione affrontando la prima questione, evidenziano come:

  • la direttiva 2008/52/CE, che mira a facilitare l’accesso a strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR), ha un ambito d’applicazione limitato alle sole controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale;
  • tuttavia, tanto l’8° considerando della direttiva in oggetto, quanto il 19° considerando della direttiva 2013/11 lascia impregiudicata la facoltà per uno Stato membro di applicare la direttiva 2008/52 anche alle controversie puramente interne;
  • l’Italia ha pertanto legittimamente esteso l’applicazione del decreto legislativo n°28/2010 anche alle controversie puramente interne, avvalendosi della discrezionalità riconosciutale dalla normativa europea.

La Corte, tuttavia, conclude senza dare una risposta alla prima questione, in considerazione del fatto che la suddetta estensione “…non può avere l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione della direttiva 2008/52, come definito dall’articolo 1, paragrafo 2, della stessa”.

La risposta alla seconda questione

Passando alla seconda questione, la Corte riformula la domanda del Tribunale italiano individuando tre sotto quesiti:

  1. se la direttiva 2013/11 osti a che una normativa nazionale, quale quella italiana, preveda “…il ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie”;
  2. se detta direttiva consenta o meno alla normativa nazionale di prevedere che i consumatori debbano essere assistiti da una avvocato in siffatta mediazione;
  3. da ultimo, se la normativa italiana possa legittimamente subordinare la facoltà per i consumatori di sottrarsi ad un previo ricorso alla mediazione unicamente “…se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione”.

A riguardo, la Corte preliminarmente individua l’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, la quale si applica non già indiscriminatamente a tutte le controversie che coinvolgono consumatori, bensì esclusivamente a quelle che soddisfino i seguenti presupposti cumulativi:

  1. che la procedura sia stata promossa da un consumatore nei confronti di un professionista, secondo le definizioni contenute nella stessa direttiva;
  2. che la controversia abbia ad oggetto obbligazioni contrattuali discendenti da contratti di vendita o di servizi;
  3. che la procedura azionata rispetti i requisiti di cui all’art. 4, par. 1, lett. g), e, in particolare, risulti essere “indipendente, imparziale, trasparente, efficace, rapida ed equa”;
  4. che la procedura sia affidata ad un organismo ADR, istituito su base permanente, inserito nell’elenco di cui all’art. 20, par. 2.

Una volta chiarita l’applicabilità della direttiva in oggetto al caso di specie, la Corte, in risposta al secondo quesito, così come sopra tripartito, afferma che:

  • la previsione da parte dell’Italia di una mediazione obbligatoria è di per sé legittima in quanto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1 della direttiva 2013/11 e art. 3, lett. a) della direttiva 2008/52, agli Stati membri è riconosciuta la discrezionalità di prevedere l’obbligatorietà della partecipazione alle procedure ADR, purché ciò non impedisca il diritto di accesso delle parti al sistema giudiziario;
  • tale previsione, tuttavia, deve rivelarsi compatibile, in un’ottica di bilanciamento, con il principio della tutela giurisdizionale effettiva; compatibilità da ritenersi esistente “...qualora tale procedura non conduca a una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione o la decadenza dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti, a patto però che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e che sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”;
  • tale giudizio di compatibilità è demandato al giudice nazionale che, nel caso de quo, deve verificare la compatibilità tra la normativa nazionale in oggetto (art. 5 del d.lgs. n°28/2010 e art. 141 cod. consumo) e il suddetto principio;
  • di contro, è certamente in contrasto con gli articoli 8, lett. b) e 9, par. 1, lett. b), la previsione da parte della normativa italiana dell’obbligo di assistenza di un avvocato e ciò in quanto i suddetti articoli espressamente impongono agli Stati di garantire “…che le parti abbiano accesso alla procedura ADR senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o a un consulente legale”, prevedendo altresì un obbligo di informazione in tal senso;
  • parimenti, limitare la possibilità per il consumatore di ritirarsi dalla procedura di mediazione nel solo caso in cui dimostri l’esistenza di un giustificato motivo così come la previsione di sanzioni nel successivo procedimento giurisdizionale in caso di ritiro ingiustificato, sono da considerarsi contrari all’obiettivo perseguito dalla direttiva 2013/11 e al disposto dell’art. 9, par. 2, lett. a) della stessa, che “…impone agli Stati membri di garantire che le parti abbiano la possibilità di riteriarsi dalla procedura in qualsiasi momento se non sono soddisfatte dalle prestazioni o dal funzionamento della procedura”, precisando altresì che, nel caso di previsione da parte della normativa nazionale, della partecipazione obbligatoria del professionista a detta procedura il diritto di ritirarsi deve spettare esclusivamente al consumatore e non anche al professionista;
  • da ultimo, la Corte specifica, alla luce delle dichiarazioni del governo italiano – ad avviso del quale la previsione dell’imposizione di un ammenda da parte del giudice nel successivo procedimento non riguarderebbe il caso in cui lo stesso si sia ritirato bensì nel solo caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo – che, qualora ciò sia verificato dal giudice a quo, in tale caso la direttiva non osterebbe a una tale previsione “…purché egli possa porvi fine senza restrizioni successivamente al primo incontro”.

La Corte conclude pertanto, rispondendo alle questioni postele dal giudice italiano nei seguenti termini:

  • «la direttiva 2013/11 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario;
  • la medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.»

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downloadLa scelta della scuola, si sa, non è mai facile. Tra numeri chiusi, tempi stretti e la concorrenza tra istituti pubblici e privati, parificati o meno, sono sempre più frequenti i “ripensamenti” anche ad iscrizione ultimata. Aimè nella prassi, molte scuole “blindano” se non la frequenza effettiva, quanto meno il compenso per l’intero anno scolastico, attraverso contratti contenenti clausole, alcune delle quali di carattere vessatorio, che limitano e/o privano i genitori e il figlio della facoltà di recedere gratuitamente.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 5 maggio 2017, n°10910, trae origine proprio da uno di detti casi, venendo in soccorso di una madre che, dopo aver pagato per l’iscrizione del figlio in una scuola paritaria, si era vista notificato un decreto ingiuntivo di pagamento della retta dell’intero anno scolastico da parte dell’istituto, nonostante avesse comunicato la volontà di recedere e nonostante il figlio avesse poi frequentato un altro istituto.

La signora decideva pertanto di impugnare il decreto, deducendo la vessatorietà di alcune clausole contrattuali, che ponevano in una posizione di svantaggio i genitori-consumatori rispetto al professionista, chiedendo, in via principale, la revoca dello stesso, incidentalmente la restituzione della quota d’iscrizione già versate e, in subordine, la riduzione del suo importo alla sola quota d’iscrizione.

Il Tribunale di Busto Arsizio, tuttavia, respingeva detti motivi di opposizione ritenendo che non sarebbe vessatoria la clausola che prevedeva “…nel caso di abbandono o non frequenza della scuola, l’obbligo del genitore contraente di corrispondere l’intera retta…”, potendo ritenersi tale “… solo in caso di recesso dello stesso professionista, e non quando, come nella fattispecie, è il consumatore a recedere”.

Il Tribunale, accoglieva tuttavia la domanda riconvenzionale della madre, volta alla restituzione quanto meno della quota d’iscrizione.

La signora e il suo avvocato, tuttavia, non si perdevano d’animo e impugnavano la sentenza di primo grado dinnanzi alla Corte d’Appello di Milano, eccependo nuovamente la vessatorietà della clausola che escludeva il diritto di recesso del genitore, oltre alla “…mancanza di conoscenza del regolamento, la mancata considerazione di una testimonianza e la asserita incompetenza territoriale del Tribunale di Busto Arsizio”.

La Corte milanese, pur disattendendo tali ultime rimostranze, dando ragione alla signora, riconosceva la vessatorietà della clausola contrattuale che poneva in capo al genitore l’obbligo di corrispondere l’intera quota nonostante la mancanza di frequenza dell’alunno, in quanto:

  • era pacifico che il relativo contratto non era stato oggetto di trattativa individuale (essendo “intonso” il modello contrattuale redatto dal professionista;
  • tale obbligo si poneva in contrasto con l’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, rubricato “Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore”, che sul punto dispone: “ Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: (…) g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;”
  • tale vessatorietà risultava ancor più evidente se raffrontata con un’ulteriore clausola che consentiva all’istituto di “…sottrarsi all’obbligo di rendere le proprie prestazioni nel caso di mancato raggiungimento del numero idoneo per la formazione delle classi”, da considerarsi anch’essa vessatoria, atteso che tale circostanza impedirebbe al consumatore di verificarne la sussistenza, e non integrerebbe una condizione oggettiva in quanto la sua mancanza non renderebbe materialmente impossibile la prestazione promessa ma unicamente il riconoscimento dell’istituto come paritario.

Avverso tale decisione, proponeva ricorso in Cassazione l’istituto sulla base di tre motivi, tutti disattesi dalla Suprema Corte.

In particolare, con il primo motivo il ricorrente deduceva la mancanza di vessatorietà della clausola contrattuale che permetterebbe all’istituto di recedere in caso di mancato raggiungimento di un numero idoneo di studenti, in quanto la stessa avrebbe “…in realtà il carattere di condizione sospensiva, collegata ad un obbligo imposto alla stessa Acof dalla legge”, condizione che si sarebbe poi avverato facendo acquistare al contratto efficacia ex tunc. Ad avviso del ricorrente, in altri termini, una volta raggiunto il numero degli studenti per avviare il corso, né il professionista né il consumatore avrebbero potuto recedere, con conseguente assenza di qualsiasi squilibrio tra consumatore e professionista.

Di diverso avviso sono i giudici transtiberini, ad avviso dei quali la Corte milanese aveva giustamente ritenuto sussistente una presunzione di vessatorietà della suddetta clausola, ai sensi dell’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, essendo assente un obbligo di legge che ne giustificasse l’esistenza ed essendo indubbio che la stessa clausola riconosceva “…al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto”. Ad avviso della Corte, inoltre, la presunzione di vessatorietà risultava nel caso di specie ancor più evidente, atteso che detta clausola consentiva “…al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto” senza prevedere “analoga sanzione a carico del professionista” (sul punto si veda anche Cass. civ., Sez. III^, sentenza del 17 marzo 2010, n°6481, ad avviso del quale la somma dovuta dall’allievo nel caso di recesso integra una penale).

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello:

  • avrebbe erroneamente qualificato l’istituto come asilo e non come scuola materna che, “pur non essendo obbligatoria, a differenza del nido è inserita nel sistema scolastico educativo nazionale”;
  • avrebbe errato nel ritenere irrilevante la qualifica di scuola paritaria dell’istituto, come dimostrato dalla successiva iscrizione dell’alunno presso altra scuola paritaria;
  • avrebbe dovuto applicare una circolare ministeriale che dettava regole per le iscrizioni degli alunni nell’anno accademico di riferimento.

La Suprema Corte, ancora una volta, disattende le suddette eccezioni, ritenendo indimostrata l’influenza che la corretta applicazione della normativa statale avrebbe avuto sull’esito del giudizio.

Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, l’istituto si doglie della mancata applicazione “…dell’art. 34, comma 4, Codice del Consumo, il quale esclude la vessatorietà delle clausole che siano state oggetto di trattativa individuale”, ritenendo che dall’istruttoria sarebbe emersa non solo la possibilità ma anche l’effettiva contrattazione delle clausole contrattuali.

Anche detto ultimo motivo veniva tuttavia dichiarato inammissibile per violazione dei limiti di deducibilità del vizio ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 6, n. 5 nonché per difetto di autosufficienza.

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