Il Tribunale civile di Nocera Inferiore, sez. I^, con sentenza n°1326/2024 del 5 giugno 2024, pronunciandosi su un’opposizione a decreto ingiuntivo, ha dichiarato improcedibile la domanda non ritenendo assolta la condizione di procedibilità prevista dal legislatore all’art. 5 del D.lgs. n°28/2010 (che testualmente dispone: “quando l’esperimento del tentativo di mediazione è condizione di procedibilità della domanda, la condizione si considera avverata quando il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza accordo)”.

Il Tribunale campano, operando un’interpretazione letterale e teleologica dell’art. 5 e sistemica con l’art. 8, sostiene infatti che al fine di perseguire la finalità deflattiva del contenzioso le parti non devono limitarsi ad attivare il procedimento di mediazione, che “… non realizza la circostanza della quale solamente può dipendere il successo di siffatto strumento deflattivo del contenzioso”, ovvero, riprendendo le parole usate dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. III^, 27/03/2019 n°8473, “il contatto diretto tra le parti e il mediatore professionale”.

La Corte pertanto conclude affermando che:

  • affinché possa dirsi realizzata la condizione di procedibilità di cui all’art. 5 del D.lgs. 28/2010 è necessario attivare il procedimento di mediazione e comparire al primo incontro dinanzi al mediatore”;
  • la condizione si intenderà di contro realizzata qualora, all’esito del predetto primo incontro, le parti esprimano al mediatore la volontà di non proseguire la procedura di mediazione.

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Da poche settimane è ripresa la scuola in presenza e con essa, aimè, una crescita esponenziale dei contagi da Covid-19.

Ciò ha determinato giustificate preoccupazioni nei dirigenti scolastici, circa le eventuali responsabilità civili, ex art. 2087 c.c., e penali a loro ascrivibili in caso di contagi del personale scolastico o degli alunni nel luogo di lavoro. E ciò in quanto, come noto, sui dirigenti scolastici gravano gli obblighi e i compiti organizzativi individuati dal D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro), a seguito della loro equiparazione ai datori di lavoro, così come chiarita dal Decreto Ministeriale n°292/1996 (rubricato “Individuazione del datore di lavoro negli uffici e nelle istituzioni dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione”).

A seguito dei chiarimenti contenuti nella Circolare Inail del 3 aprile 2020, n. 13, sulla qualificazione di “infortunio sul lavoro” dei casi accertati di contagio in occasione di lavoro, i timori dei dirigenti si sono per giunta accresciuti, ritenendo in molti, erroneamente, che dal conseguente indennizzo erogato dall’INAIL derivasse, sic et simpliciter, una loro responsabilità civile o addirittura penale.

Ciò ha spinto l’INAIL, con nota n°22 del 20 maggio 2020 a chiarire:

  • la necessità di non confondere “…i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail (basti pensare a un infortunio in “occasione di lavoro” che è indennizzato anche se avvenuto per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore), con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative”;
  • che il riconoscimento dell’indennizzo da parte dell’INAIL “…non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del Pubblico Ministero”;
  • che, con riferimento alla responsabilità civile, come recentemente chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con ordinanza n°3282 dell’11 febbraio 2020 “…l’articolo 2087 cod. civ. non configura, infatti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Né può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, neanche potendosi ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psico-fisica del lavoratore, ciò in quanto, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivbilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile […]; non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto”;
  • che, pertanto, la “…responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n.33”.
  • che “…il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero. Circostanza questa che ancora una volta porta a sottolineare l’indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario”.

Ulteriori chiarimenti sono giunti, in seguito, anche dal Ministero dell’Istruzione che, con nota del 20 agosto 2020, a firma del capo dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione:

  • ha ricordato che “…L’articolo 29-bis del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40 ha introdotto una disposizione che limita la responsabilità dei datori di lavoro per infortuni da Covid-19: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati (scil., dirigenti scolastici) adempiono l’obbligo di tutela della salute e sicurezza di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione, l’adozione e il mantenimento delle prescrizioni e delle misure contenute nel Protocollo condiviso dal Governo e dalle parti sociali il 24 aprile 2020”, nonché delle eventuali successive modificazioni, “e degli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano, in ogni caso, le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”;
  • ha chiarito che i “…dirigenti scolastici possono veder escludere ogni timore di una semplicistica, ma errata, automatica corrispondenza tra malattia da Covid-19, infortunio sul lavoro, riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro applicando quanto previsto dal protocollo generale sulla sicurezza siglato in data 6 agosto 2020 e dallo specifico protocollo per i servizi educativi e le scuole dell’infanzia in via di pubblicazione; dal complesso delle disposizioni emanate e raccolte nella pagina https://www.istruzione.it/rientriamoascuola/index.html; dalle eventuali ulteriori disposizioni che il Ministero trasmetterà prontamente e ufficialmente, volte anche a considerare le specificità delle singole istituzioni scolastiche, opportunamente valutate e ponderate dai dirigenti medesimi;
  • ha ricordato che, “…a ulteriore tutela dell’azione dirigenziale, va sottolineato come l’articolo 51 del codice penale esclude la punibilità laddove “l’esercizio del diritto o l’adempimento di un dovere” sia “imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità”.

Si segnala, da ultimo, il recente Protocollo d’intesa del 6 agosto 2020 “per garantire l’avvio dell’anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza per il contenimento della diffusione di Covid-19”, contenente preziose indicazioni volte ad agevolare i D.S. nell’adozione delle misure organizzative anti-contagio da Covid-19, tra cui disposizioni relative:

  • alle modalità di ingresso e uscita;
  • alla pulizia e igienizzazione dei luoghi e delle attrezzature;
  • all’igiene personale e all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale;
  • alla gestione degli spazi comuni;
  • all’uso dei locali esterni all’istituto scolastico;
  • all’eventuale supporto psicologico;
  • alla gestione di una persona sintomatica all’interno dell’istituto scolastico;
  • alla sorveglianza sanitaria e al medico competente.

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downloadCon sentenza del 14 giugno 2017, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, si è pronunciata sulla domanda di interpretazione pregiudiziale del Tribunale civile di Verona, vertente sulla legittimità della previsione, da parte del legislatore italiano, della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a controversie riguardanti la tutela dei consumatori.

Il giudizio a quo e le domande rivolte alla CGUE

La domanda trae origine dall’opposizione presentata da due consumatori avverso il decreto ingiuntivo – ottenuto in loro danno dal proprio istituto bancario, nell’ambito di un regolamento del saldo debitore del conto corrente degli stessi, a seguito dell’apertura di credito loro concessa – senza aver previamente esperito l’obbligatorio procedimento di mediazione.

Il Tribunale di Verona, investito della questione, ritenendo le disposizioni interne in materia di mediazione obbligatoria in contrasto con la direttiva 2013/11/UE, decide di interrogare pertanto la Corte di Lussemburgo. In particolare, ad avviso del tribunale nostrano, la previsione della mediazione quale condizione di procedibilità risulterebbe sfavorevole rispetto a quanto previsto dall’art. 9 della succitata direttiva in quanto, mentre la normativa europea “…lascia alle parti la scelta non solo di partecipare o meno alla procedura ADR [alternative dispute resolution], ma anche di ritirarsi in qualsiasi momento dalla stessa…”, di contro, quella italiana non consente alle parti di “…ritirarsi dalla procedura di mediazione in ogni momento, e senza conseguenze di sorta, se non sono soddisfatte delle prestazioni o del funzionamento della procedura”.

Due, in particolare, sono le domande rivolte alla Corte di Giustizia:

«1) Se 1’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2013/11, nella parte in cui prevede che la medesima direttiva si applichi “fatta salva la direttiva 2008/52”, vada inteso nel senso che fa salva la possibilità per i singoli Stati membri di prevedere la mediazione obbligatoria per le sole ipotesi che non ricadono nell’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, vale a dire le ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 2 della direttiva 2013/11, le controversie contrattuali derivanti da contratti diversi da quelli di vendita o di servizi oltre quelle che non riguardino consumatori

«2) Se l’articolo 1 (…) della direttiva 2013/11, nella parte in cui assicura ai consumatori la possibilità di presentare reclamo nei confronti dei professionisti dinanzi ad appositi organismi di risoluzione alternativa delle controversie, vada interpretato nel senso che tale norma osta ad una norma nazionale che prevede il ricorso alla mediazione, in una delle controversie di cui all’articolo 2, paragrafo 1 della direttiva 2013/11, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale della parte qualificabile come consumatore, e, in ogni caso, ad una norma nazionale che preveda l’assistenza difensiva obbligatoria, ed i relativi costi, per il consumatore che partecipi alla mediazione relativa ad una delle predette controversie, nonché la possibilità di non partecipare alla mediazione se non in presenza di un giustificato motivo»

La (non) risposta alla prima questione

I giudici dell’Unione affrontando la prima questione, evidenziano come:

  • la direttiva 2008/52/CE, che mira a facilitare l’accesso a strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR), ha un ambito d’applicazione limitato alle sole controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale;
  • tuttavia, tanto l’8° considerando della direttiva in oggetto, quanto il 19° considerando della direttiva 2013/11 lascia impregiudicata la facoltà per uno Stato membro di applicare la direttiva 2008/52 anche alle controversie puramente interne;
  • l’Italia ha pertanto legittimamente esteso l’applicazione del decreto legislativo n°28/2010 anche alle controversie puramente interne, avvalendosi della discrezionalità riconosciutale dalla normativa europea.

La Corte, tuttavia, conclude senza dare una risposta alla prima questione, in considerazione del fatto che la suddetta estensione “…non può avere l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione della direttiva 2008/52, come definito dall’articolo 1, paragrafo 2, della stessa”.

La risposta alla seconda questione

Passando alla seconda questione, la Corte riformula la domanda del Tribunale italiano individuando tre sotto quesiti:

  1. se la direttiva 2013/11 osti a che una normativa nazionale, quale quella italiana, preveda “…il ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie”;
  2. se detta direttiva consenta o meno alla normativa nazionale di prevedere che i consumatori debbano essere assistiti da una avvocato in siffatta mediazione;
  3. da ultimo, se la normativa italiana possa legittimamente subordinare la facoltà per i consumatori di sottrarsi ad un previo ricorso alla mediazione unicamente “…se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione”.

A riguardo, la Corte preliminarmente individua l’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, la quale si applica non già indiscriminatamente a tutte le controversie che coinvolgono consumatori, bensì esclusivamente a quelle che soddisfino i seguenti presupposti cumulativi:

  1. che la procedura sia stata promossa da un consumatore nei confronti di un professionista, secondo le definizioni contenute nella stessa direttiva;
  2. che la controversia abbia ad oggetto obbligazioni contrattuali discendenti da contratti di vendita o di servizi;
  3. che la procedura azionata rispetti i requisiti di cui all’art. 4, par. 1, lett. g), e, in particolare, risulti essere “indipendente, imparziale, trasparente, efficace, rapida ed equa”;
  4. che la procedura sia affidata ad un organismo ADR, istituito su base permanente, inserito nell’elenco di cui all’art. 20, par. 2.

Una volta chiarita l’applicabilità della direttiva in oggetto al caso di specie, la Corte, in risposta al secondo quesito, così come sopra tripartito, afferma che:

  • la previsione da parte dell’Italia di una mediazione obbligatoria è di per sé legittima in quanto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1 della direttiva 2013/11 e art. 3, lett. a) della direttiva 2008/52, agli Stati membri è riconosciuta la discrezionalità di prevedere l’obbligatorietà della partecipazione alle procedure ADR, purché ciò non impedisca il diritto di accesso delle parti al sistema giudiziario;
  • tale previsione, tuttavia, deve rivelarsi compatibile, in un’ottica di bilanciamento, con il principio della tutela giurisdizionale effettiva; compatibilità da ritenersi esistente “...qualora tale procedura non conduca a una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione o la decadenza dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti, a patto però che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e che sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”;
  • tale giudizio di compatibilità è demandato al giudice nazionale che, nel caso de quo, deve verificare la compatibilità tra la normativa nazionale in oggetto (art. 5 del d.lgs. n°28/2010 e art. 141 cod. consumo) e il suddetto principio;
  • di contro, è certamente in contrasto con gli articoli 8, lett. b) e 9, par. 1, lett. b), la previsione da parte della normativa italiana dell’obbligo di assistenza di un avvocato e ciò in quanto i suddetti articoli espressamente impongono agli Stati di garantire “…che le parti abbiano accesso alla procedura ADR senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o a un consulente legale”, prevedendo altresì un obbligo di informazione in tal senso;
  • parimenti, limitare la possibilità per il consumatore di ritirarsi dalla procedura di mediazione nel solo caso in cui dimostri l’esistenza di un giustificato motivo così come la previsione di sanzioni nel successivo procedimento giurisdizionale in caso di ritiro ingiustificato, sono da considerarsi contrari all’obiettivo perseguito dalla direttiva 2013/11 e al disposto dell’art. 9, par. 2, lett. a) della stessa, che “…impone agli Stati membri di garantire che le parti abbiano la possibilità di riteriarsi dalla procedura in qualsiasi momento se non sono soddisfatte dalle prestazioni o dal funzionamento della procedura”, precisando altresì che, nel caso di previsione da parte della normativa nazionale, della partecipazione obbligatoria del professionista a detta procedura il diritto di ritirarsi deve spettare esclusivamente al consumatore e non anche al professionista;
  • da ultimo, la Corte specifica, alla luce delle dichiarazioni del governo italiano – ad avviso del quale la previsione dell’imposizione di un ammenda da parte del giudice nel successivo procedimento non riguarderebbe il caso in cui lo stesso si sia ritirato bensì nel solo caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo – che, qualora ciò sia verificato dal giudice a quo, in tale caso la direttiva non osterebbe a una tale previsione “…purché egli possa porvi fine senza restrizioni successivamente al primo incontro”.

La Corte conclude pertanto, rispondendo alle questioni postele dal giudice italiano nei seguenti termini:

  • «la direttiva 2013/11 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario;
  • la medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.»

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[:it]Clipart - affari, mediazione. Fotosearch - Cerca Clipart, Illustrazioni murali, Disegni e Immagini grafiche EPS vettorialiSecondo l’ordinanza 14 settembre 2015 del Tribunale di Pavia, nella persona del dott. Marzocchi, nelle mediazioni c.d. obbligatorie, tanto ex lege quanto iussi judici, è essenziale la presenza delle parti personalmente. Difatti, il ruolo dell’avvocato è quello di semplice assistenza e non di rappresentanza della parte. La presenza della parte deve risultare dal verbale di mediazione del primo incontro e degli incontri successivi. Il Giudice chiede pertanto il deposito del verbale integrale della procedura di mediazione.

 

Tribunale di Pavia

Sezione III Civile

G.I. Dott. Marzocchi

Ordinanza

Il G.I., a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 1.07.2015, esaminato il fascicolo;

– Rilevato che dal verbale dell’ultimo incontro di mediazione prodotto, che documenta l’esito negativo della procedura di mediazione, emerge il dubbio che parte convenuta opposta non abbia partecipato regolarmente alla detta procedura, disposta da questo G.I. ex art. 5, co. 2, D.Lgs. 28/2010 e regolarmente avviata da parte opponente, avendo partecipato il solo legale della parte opposta, pur se munito di procura speciale (cfr da ultimo Trib. Vasto, Ord. 23.06.2015 e Sent. 9.03.2015 la prima in Altalex.it 31.07.2015 e la seconda in Mondoadr.it, sezione giurisprudenza; Trib. Firenze Ord. 19.03.2014 in Mondoadr.it; Trib. Monza 20.10.2014, Ord. RG. 13253/13, Est. Litta Modignani);

– Considerato che il legale, nelle mediazioni c.d. obbligatorie, tanto quelle ex lege, ovvero per materia, ex art. 5, co. 1 bis, D.Lgs. 28/2010, quanto quelle iussu iudicis, relative a mediazioni demandate, ex art. 5, co. 2, D.Lgs. cit., ha una mera funzione di assistenza della parte comparsa e non di sua sostituzione e rappresentanza;

– Rilevato che non è prodotto il verbale del primo incontro, la cui produzione è necessaria per verificare il rispetto del disposto dell’art. 8, co. 1, D.Lgs. 28/2010, per il quale “al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”;

– Rilevato inoltre che l’eventuale improcedibilità della domanda giudiziale dell’opposta per parte della giurisprudenza (Trib. Ferrara, Sent. 7.01.2015; Trib. Rimini, Sent. 5.08.2014; Trib. Varese Ord. 18.05.2012, ecc.) determinerebbe la revoca del decreto ingiuntivo e per altra parte (Trib. Firenze, Sent. 30.10.2014, in Mondoadr.it; Trib. Siena, Ord. 25.6.2012, est. Caramellino, Loc. ult. cit., ecc.) determinerebbe la conferma dell’ingiunzione e la sua irrevocabilità;

– Rilevato ancora che la revoca del decreto ingiuntivo può comportare l’improcedibilità della domanda riconvenzionale;

P.Q.M.

1) riservato ogni provvedimento in ordine all’ammissione delle prove, invita le parti a produrre copia del verbale completo degli incontri di mediazione e a prendere posizione, con apposite e sintetiche memorie, in ordine alle questioni preliminari rilevate d’ufficio, ovvero:

1.1) improcedibilità della domanda giudiziale dell’opposta e revoca del decreto ingiuntivo;

1.2) improcedibilità della domanda riconvenzionale dell’opponente;

2) fissa all’uopo il termine di dieci giorni prima dell’udienza per il deposito telematico delle note difensive di cui al punto 1), con invito ai difensori all’invio della copia di cortesia delle memorie e del verbale integrale della procedura di mediazione anche via posta elettronica ordinaria, al già noto indirizzo personale del magistrato;

3) rinvia la causa all’udienza del 21.12.2015, ore 10:00 per le repliche orali sulle questioni preliminari sopra rilevate;

4) Manda la cancelleria a comunicare la presente ordinanza in forma integrale ai difensori delle parti costituite.

Pavia, 14.09.2015[:]

[:it]

La Cassazione, con sentenza 3 dicembre 2015 n. 24629,  risolve il contrasto che, ormai da alcuni anni ha, diviso la giurisprudenza di merito su fronti contrapposti. Ritiene la Corte che nel giudizio che si instaura per l’opposizione al decreto ingiuntivo – e dopo la pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione dello stesso – l’onere di avviare la mediazione obbligatoria deve gravare sulla parte opponente.

È infatti questa che ha interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo.

D’altro canto la norma che prevede la condizione di procedibilità ex lege è stata costruita in funzione deflativa e quindi deve essere interpretata alla luce del principio del ragionevole processo e così dell’efficienza processuale. Secondo questa prospettiva la disposizione normativa «mira a rendere il processo la extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono risultate precluse».  Quindi  l’onere per l’esperimento della mediazione deve porsi a carico di chi ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo.

Il criterio ermeneutico dell’interesse sposta quindi su questi anche la conseguenza dell’improcedibilità e ciò in quanto ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito. Secondo la Cassazione la diversa soluzione sarebbe «palesemente irrazionale perché premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice».

Se dunque è l’opponente ad avere interesse ad avviare la mediazione sarà lui a subire gli effetti dell’improcedibilità dell’opposizione con il «consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex articolo 653 del c.p.c.».[:]

[:it]Disegno - sono, contento, noi, avere, questo, riunione, a, risolvere, conflitto. Fotosearch - Cerca Clipart, Illustrazioni, Stampe di alta qualità, Immagini grafiche vettoriali EPSIl Tribunale di Firenze, G.I. dott. Scionti, con sentenza del 15 ottobre 2015, ha dichiarato l’improcedibilità della domanda introdotta con ricorso monitorio dalla Banca, nonchè la domanda riconvenzionale degli opponenti, per mancato esperimento del tentativo di mediazione.

Il Giudice ha rilevato che al primo incontro di mediazione le parti avevano semplicemente manifestato la volontà di non procedere con il tentativo di mediazione senza indicare gli specifici impedimenti.

Per tale ragione, il giudice ha applicato ad entrambe le parti la sanzione comminata dall’art. 5/1 bis del D. Lgs. 28/2010, dichiarando l’improcedibilità di entrambe le domande.

Del resto,  l’art. 8 del D. Lgs. 28/2010 attribuisce al mediatore il compito di verificare “l’eventuale sussistenza di concreti impedimenti all’effettivo esperimento della procedura e non già quello di accertare la volontà delle parti in ordine alla opportunità di dare inizio alla stessa. Se così non fosse non si tratterebbe, nella sostanza, di mediazione obbligatoria bensì facoltativa e rimessa al mero arbitrio delle parti con sostanziale interpretatio abrogans del complessivo dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalità esplicitamente deflattiva.[:]

[:it]Il Tribunale di Siracusa,  con ordinanza 5 luglio 2015, non solo rinvia le parti in mediazione, ma precisa: – che la mediazione deve essere concretamente espletata e non si deve fermare al primo incontro informativo; –  invita, inoltre, il mediatore ad avanzare proposta conciliativa pur in assenza di congiunta richiesta delle parti; ammonisce, infine,  le parti ricordando loro  che il mancato ed effettivo procedimento di mediazione è sanzionata a pena di improcedibilità della domanda.[:]

[:it]

La mediazione presuppone la volontà delle parti di avvalersi dell’opera del mediatore.
Conseguentemente – conferma Cass. III sezione 7 giugno 2011 n. 12390 – affinchè sorga il diritto del mediatore alla provvigione è insomma necessario che l’attività di mediazione sia da questi svolta in modo palese, e cioè rendendo note ai soggetti intermediati la propria qualità e la propria terzietà (così, tra le altre, Cass., 9 maggio 2008, n. 11521), non essendo sufficiente che le parti abbiano concluso l’affare grazie all’attività del mediatore se non siano state messe in grado di conoscere l’opera di intermediazione svolta dal predetto e non abbiano perciò neppure potuto valutare l’opportunità di avvalersi o no della relativa prestazione e di soggiacere ai conseguenti oneri (come nel caso in cui il mediatore abbia, con il suo comportamento, potuto ingenerare nelle parti una falsa rappresentazione della qualità attraverso la quale si sia ingerito nelle trattative che hanno condotto alla conclusione dell’affare). L’ordinamento non appresta tutela a forme di “mediazione occulta o a sorpresa”.
Sottolinea la Corte in motivazione anche che chi adduce di avere ignorato che chi s’è ingerito nelle trattative che hanno portato alla conclusione dell’affare fosse un mediatore non svolge un’eccezione in senso proprio, in quanto la conoscenza delle qualità di chi domanda la provvigione rappresenta uno dei fatti costitutivi del diritto di ottenerla e deve essere provata da chi fa valere quel diritto.

Cass. civ. Sez. III, 7 giugno 2011 n. 12390
Svolgimento del processo

1.- Nell’ottobre del 2000 D.F. convenne in giudizio la L. s.p.a. che l’anno precedente aveva venduto alla Cinema s. s.p.a. (partecipata per il 49% dal gruppo francese P.) una porzione dell’immobile “L.” di Torino per il prezzo di circa L. 23 miliardi. Ne chiese la condanna al pagamento della provvigione mediatoria per avere egli, quale mediatore iscritto nel relativo ruolo, agevolato la conclusione dell’affare organizzando un incontro, avvenuto a Torino il 6.12.1997, tra l’amministratore della società venditrice ( B.F. di ….) ed il direttore del gruppo Pathè, determinato ad acquistare un immobile in un’area ad alta densità abitativa del nordovest italiano al fine di realizzarvi una struttura cinematografica multisala. Affermò che nel corso di tale incontro, cui avevano partecipato molte persone, tra le quali il vice sindaco della città di Nizza, egli aveva prospettato il possibile affare, ma che era stato poi escluso dalle trattative. La società convenuta resistette, rappresentando che l’attore D. non si era mai qualificato come mediatore e che aveva partecipato alla riunione nel suo ruolo di amministratore delegato di un ente che associava fra loro le camere di commercio italiane (tra le quali quella di Cuneo, di cui il D. era presidente) e francesi a cavallo delle alpi meridionali e che aveva come scopo l’integrazione economica culturale e scientifica dell’Euroregione. Le trattative erano poi proseguite e l’affare era stato concluso senza la partecipazione di alcuna delle persone presenti all’incontro suddetto.
Con sentenza dell’11.10.2002 il tribunale di Torino accolse la domanda e condannò la società convenuta al pagamento di Euro 357.517,29, oltre agli accessori.
2.- La corte d’appello di Torino l’ha invece respinta con sentenza n. 438 del 17.3.2006, con la quale ha condannato l’attore alla restituzione di quanto intanto percepito ed alle spese del doppio grado. Tanto sul sostanziale rilievo che “il diritto del meditatore alla provvigione non sorge nei confronti della parte che non sia stata posta in grado di conoscere l’opera dello stesso e ne abbia dunque incolpevolmente ignorato l’attività”, com’era accaduto nel caso di specie.
3.- Avverso la sentenza ricorre per cassazione il D. affidandosi a tre motivi, cui resiste con controricorso Lingotto H. s.r.l. (già L. s.p.a.).
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1.- Il primo motivo – col quale sono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 1754 e 1755 c.c. – è inammissibile per difetto di pertinenza del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., col quale si domanda se il diritto del mediatore alla provvigione sorga “prescindendo dal preventivo conferimento a quest’ultimo di un incarico da parte dei soggetti messi in contatto”, senza alcuna considerazione della ratio deciderteli della sentenza impugnata, fondata sul consolidato principio secondo il quale il diritto alla provvigione non sorge in caso di incolpevole inconsapevolezza della parte del ruolo di mediatore svolto da un soggetto che, come il D. (secondo l’apprezzamento del fatto compiuto dalla corte di merito), solo successivamente alla conclusione dell’affare abbia rivendicato il suo ruolo, manifestato la sua qualifica e formulato le proprie pretese.
2.- Inammissibile per le stesse ragioni è anche il secondo motivo, col quale la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1754, 1755 e 2697 c.c., L. 3 febbraio 1989, n. 39, artt. 1, 2, e 3.
Anche qui il quesito non si attaglia al fatto accertato dalla corte d’appello, costituito dall’inconsapevolezza di cui s’è detto. Il quesito non vi fa cenno, domandandosi solo “se sia necessario ai fini del sorgere del diritto al compenso che il mediatore dichiari espressamente alle parti la sua intenzione di inserirsi nelle trattative o la propria iscrizione all’albo dei mediatori e se sia sufficiente, per innescare il rapporto giuridico e per il sorgere del diritto alla provvigione, che le parti abbiano nei fatti accettato l’attività del mediatore, avvalendosene ed avvantaggiandosene”.
Perchè il quesito fosse pertinente, sarebbe stato necessario aggiungere “quand’anche la parte abbia ignorato incolpevolmente che il mediatore fosse tale” (o espressione concettualmente equivalente), come appunto ritenuto dalla corte d’appello.
3.- Col terzo motivo sono denunciati violazione e falsa applicazione degli artt. 1754 e 1755 in relazione all’art. 2697 c.c. ed ogni possibile vizio della motivazione (al contempo prospettata come omessa, insufficiente e contraddittoria) su un fatto decisivo della controversia.
3.1.- Il profilo di censura concernente il vizio della motivazione è inammissibile perchè non contiene, come momento di sintesi dell’illustrazione dello stesso, “la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”, secondo quanto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis.
3.2.- A conclusione de|l’illustrazione del profilo relativo alla violazione di norme di diritto è posto il seguente quesito: “se, nel caso in cui sia provato il nesso di causalità tra la conclusione dell’affare e l’attività del mediatore, spetti alla parte che eccepisce, in causa del suo contegno ingannevole, di aver incolpevommente ignorato l’attività del mediatore, l’onere di provare tale incolpevole ignoranza”.
Va anzitutto chiarito che chi adduca di aver ignorato che fosse un mediatore chi s’è ingerito nelle trattative che hanno condotto alla conclusione dell’affare non svolge un’eccezione in senso proprio, giacchè la conoscenza, in capo alla parte che ha concluso l’affare, della qualità di chi le domandi la provvigione costituisce uno dei fatti costitutivi del diritto ad ottenerla, da provarsi dunque da chi quel diritto faccia valere (in termini, nel senso cioè che la prova della menzionata conoscenza incombe, ai sensi dell’art. 2697 c.c., al mediatore che voglia far valere in giudizio il diritto alla provvigione cfr. Cass., 15 marzo 2007, n. 6004).
Tanto premesso, deve affermarsi che la mediazione presuppone la volontà delle parti di avvalersi dell’opera del mediatore, con la conseguenza che il rapporto (e il diritto alla provvigione) non sorge nei confronti della parte che non sia stata posta in grado di conoscere l’opera di intermediazione ed abbia dunque incolpevolmente ignorato l’attività del mediatore (Cass. 21 luglio 1994, n. 6814, cui adde, ex multis, Cass., 15 giugno 2001, n. 8136).
Affinchè sorga il diritto del mediatore alla provvigione è insomma necessario che l’attività di mediazione sia da questi svolta in modo palese, e cioè rendendo note ai soggetti intermediati la propria qualità e la propria terzietà (così, tra le altre, Cass., 9 maggio 2008, n. 11521), non essendo sufficiente che le parti abbiano concluso l’affare grazie all’attività del mediatore se non siano state messe in grado di conoscere l’opera di intermediazione svolta dal predetto e non abbiano perciò neppure potuto valutare l’opportunità di avvalersi o no della relativa prestazione e di soggiacere ai conseguenti oneri (come nel caso in cui il mediatore abbia, con il suo comportamento, potuto ingenerare nelle parti una falsa rappresentazione della qualità attraverso la quale si sia ingerito nelle trattative che hanno condotto alla conclusione dell’affare).
Gli enunciati principi vanno anche in questa occasione ribaditi. Essi sono espressivi del consolidato orientamento di fondo della Corte secondo il quale l’ordinamento non appresta tutela a forme di “mediazione occulta o a sorpresa”. 4.- Il ricorso è respinto. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 14.2000, di cui 14.000 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

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