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Come noto, ai sensi dell’art. 473-bis. 2 c.p.c., introdotto a seguito della c.d. Riforma Cartabia, i coniugi hanno l’obbligo di “…presentare all’udienza di comparizione avanti al Presidente del Tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune, con la precisazione che, in caso di contestazioni il Tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi se del caso, anche della polizia tributaria”.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con ordinanza n°30537 del 27 novembre 2024, ritorna sui limiti al potere discrezionale concesso al giudice di disporre e/o integrare (o meno) indagini contabili sui redditi dei coniugi, ricordando che la scelta sia censurabile in punto di motivazione:

  • “…ove non venga attivato a fronte di richiesta fondata su fatti concreti e circostanziati, di cui non sia spiegata l’irrilevanza ai fini della decisione (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21603 del 20/09/2013)”;
  • “…nel caso in cui le indagini siano state effettuate, ma a fronte di contestazioni circostanziate sull’esito e la completezza delle stesse venga richiesto al giudice di discostarsi dall’elaborato peritale o di effettuare delle integrazioni”.

In particolare, quanto all’eventuale richiesta di rinnovazione della CTU:

  • la stessa è ammissibile anche in appello “…ove si contestino le valutazioni tecniche del consulente fatte proprie dal giudice di primo grado, poiché non viene chiesta l’ammissione di un nuovo mezzo di prova”;
  • qualora il Giudice neghi la richiesta di rinnovazione, lo stesso, pur non essendo tenuto a darne motivazione, che ben può essere implicita, “…è tenuto a rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall’appellante avverso le valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata, sicché l’omesso espresso rigetto dell’istanza di rinnovazione non integra un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., ma, eventualmente, un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure tecniche alla sentenza impugnata (Cass, Sez. 2, Ordinanza n. 26709 del 24/11/2020; Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 5339 del 18/03/2015)”.

Medesimo discorso valgasi in merito al potere discrezionale del giudice di accogliere o meno istanze di riconvocazione del consulente d’ufficio per chiarimenti o per un supplemento di consulenza “senza che l’eventuale provvedimento negativo possa essere censurato in sede di legittimità deducendo la carenza di motivazione espressa al riguardo, quando dal complesso delle ragioni svolte in sentenza, in base ad elementi di convincimento tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e valutate con un giudizio immune da vizi logici e giuridici, risulti l’irrilevanza o la superfluità dell’indagine richiesta, non sussistendo la necessità, ai fini della completezza della motivazione, che il giudice dia conto delle contrarie motivazioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, si hanno per disattese perché incompatibili con le argomentazioni poste a base della motivazione (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 21525 del 20/08/2019; Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 2103 del 24/01/2019).

Ritornando sull’obbligo di motivazione, gli Ermellini chiariscono da ultimo che “…il principio per cui il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento – non dovendo necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili – non trova applicazione allorquando le censure all’elaborato peritale si rivelino non solo puntuali e specifiche, ma evidenziano anche la totale assenza di giustificazioni delle conclusioni dell’elaborato (nella specie, oggetto di una prima stesura e di un postumo immotivato ripensamento a opera del consulente d’ufficio, oggetto di critiche anche nel merito), ipotesi nella quale la sentenza di appello, che ometta di motivare l’adesione acritica alle predette conclusioni, si rivela a sua volta nulla (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 15804 del 06/06/2024). In altri termini, qualora siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate alle risultanze della CTU “…il giudice del merito, per non incorrere nel vizio di motivazione è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 15147 del 11/06/2018)”.

A ciò consegue pertanto che “…l’omessa valutazione da parte del giudice di merito dei rilievi tecnici mossi alla CTU è deducibile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., se la motivazione, pur aderendo alle conclusioni rassegnate dal consulente d’ufficio, omette qualsivoglia menzione delle osservazioni a quelle svolte, non consentendo di comprendere il percorso logico-giuridico che ha portato alla decisione (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 9925 del 12/04/2024)”.

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[:it]download (1)La PAS (Sindrome da Alienazione Parentale)

Il fallimento della propria unione è difficile da accettare, ancor di più per i propri figli. È per questo che è importante fare capir loro che l’amore del papà e della mamma non verrà mai meno, perché padre e madre si resta anche dopo una separazione.

Aimè, tuttavia, nelle liti familiari che riempiono i tribunali italiani sta emergendo in modo sempre più preoccupante il fenomeno della c.d. alienazione parentale, definita dal celebre psichiatra americano Richard A. Gardner, come: «Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile».

Nella giurisprudenza degli ultimi anni il riferimento alla PAS sta divenendo sempre più recente, ancorché se l’esistenza e i connotati di questa patologia siano ancora discussi in ambito medico.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n°21215 del 13 settembre 2017, si è recentemente imbattuta in un caso di alienazione parentale degno di nota, anche per le misure assunte dai giudici nei primi gradi di giudizio al fine di porvi rimedio.

I primi gradi di giudizio.

La vicenda di cui ci si occupa trae origine da una delle tante cause di divorzio in cui, oltre alle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento per il coniuge e i figli, le parti hanno demandato al Tribunale di Napoli di pronunciarsi sul regime di affido e mantenimento di una figlia minore.

All’esito della CTU svoltasi in primo grado, da cui era emersa una forte manipolazione della bambina ad opera della madre –  tale da spingerla a provare risentimento nei confronti del padre sulla base di motivi artificiosi creati ad arte dalla madre e a rifiutarsi di incontrarlo – il Tribunale partenopeo aveva deciso:

  • di affidare la minore per un periodo di 6 mesi alla zia paterna, disciplinando puntualmente gli incontri dei genitori con la bambina
  • di porre a carico di ambedue i genitori un congruo assegno di mantenimento;
  • di rigettare la domanda di assegnazione della casa familiare e di assegno di mantenimento per il coniuge avanzata dalla madre.

La madre, tuttavia, propone ricorso avverso detta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Napoli, chiedendo di disporsi l’affido condiviso della figlia con collocamento prevalente presso la stessa.

La Corte di secondo grado, tuttavia non solo rigetta l’appello della madre ma decide – essendosi concluso il periodo di 6 mesi di affidamento della bambina alla zia paterna – di disporre l’affido esclusivo della piccola al padre, ponendo a carico dell’ex moglie un assegno di mantenimento di € 400,00 e disciplinando degli incontri protetti madre – figlia presso i Servizi Sociali.

Le risultanze della C.T.U.

Alla base della decisione, ancora una volta, gli esiti della C.T.U. svoltasi in primo grado che così ha descritto l’ex moglie, la quale:

  • “…mostra un tratto passivo aggressivo, alternando momenti in cui si percepisce vittima a momenti in cui perseguita lei stessa il C…. percepisce pericoli incombenti da cui difendersi e lottare ed è presente una spinta sadomasochistica con tendenza al vittimismo… tende a voler definire lei il ruolo paterno del sig. C., e durante i colloqui mostra un atteggiamento svalutante nei confronti del padre”;
  • “…non le [alla figlia] riconosce il diritto di amare il suo papà e, in maniera consapevole o inconsapevole, agisce con ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente…”;

Ancor più significative, poi, sono le risultanze con riferimento alla figlia, la quale:

  • “…in presenza della madre, si disperava dicendo di non voler andare con il padre ma, non appena la genitrice si allontanava, subito si rasserenava, confortata dall’affettuosità paterna”;
  • “…non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, nonché una coatta e forzosa ostilità verso il padre… si riscontra una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre…”.

Ad avviso dell’esperta nominata dal Tribunale, il condizionamento che aveva subito la minore era di tale entità da rendere insussistenti “…le condizioni per intraprendere un favorevole percorso terapeutico, al fine di agevole la ripresa dei contatti della bambina con il padre…” e da escludere altresì “…l’opportunità dell’affidamento della minore alla madre”.

Il giudizio in Cassazione

La madre decideva di ricorrere avverso detta sentenza sino alla Corte di Cassazione, eccependo che la decisione del giudice di secondo grado era fondata sulla diagnosi della sindrome d’alienazione parentale, senza che la Corte avesse provveduto “…alla verifica scientifica della teoria posta alla base della diagnosi”.

La Suprema Corte, tuttavia, rigetta l’appello della donna sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • preliminarmente, “…l’allegazione, nel ricorso per cassazione, di un mero dissenso scientifico, che non attinga un vizio nel processo logico seguito dalla Corte territoriale, si traduce in una inammissibile domanda di revisione nel merito del convincimento del giudice” (tra le molte, cfr. Cass. sez. I^, sent. 9.1.2009, n. 282);
  • la decisione della Corte d’Appello si è basata non solo sulla C.T.U. espletata ma anche sulle risultanze di uno specialista che ha seguito la bambina nel corso del giudizio d’appello, esprimendo le medesime valutazioni della consulente tecnica e alla conclusione dell’inidoneità della madre all’esercizio della responsabilità genitoriale;
  • dirimente per la decisione della corte d’appello non è stata la ricorrenza di una patologia, quale la PAS, bensì ma “…l’adeguatezza di una madre a svolgere il proprio ruolo nei confronti di una figlia minore che si trova in grave difficoltà, avrebbe bisogno del sostegno di entrambi i genitori, ma non riceve la collaborazione di cui ha bisogno dalla madre, in base alle univoche risultanze di causa…”;
  • la Corte d’Appello, infatti, ha correttamente fatto proprie le risultanze della CTU svoltasi in primo grado, dalla quale è emerso che “la P. ha cercato di esautorare il C., padre della piccola A. e di sostituirlo, nello svolgimento del ruolo paterno, con la figura del suo attuale compagno convivente. Infatti la stessa P. dichiarava che la figlia chiamava “papà” il compagno della mamma”.

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[:it]imagesGli “addetti al mestiere” lo sanno. Purtroppo gli effetti della rottura di una relazione assai spesso si riverberano anche sui figli. Sempre più spesso, infatti, i figli diventano vittime e armi nelle guerre di separazione e divorzio che contrappongono marito e moglie.

Di recente, però, c’è una importante novità che sta prendendo piede, per ora nei tribunali del nord Italia: il c.d. coordinatore genitoriale.

Chi è il coordinatore genitoriale?

Il coordinatore genitoriale è una figura professionale che viene incaricata dal Tribunale di famiglia affinché vigili e risolva le problematiche di gestione dei figli in coppie caratterizzate da un’elevata conflittualità.

Il caso.

A distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, con sentenza del 5 maggio 2017, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di garantire il corretto esercizio della responsabilità genitoriale da parte di una coppia sposata.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge, seppur concordando nella scelta dell’affidamento condiviso. Il marito, tuttavia, aveva chiesto anche la condanna della moglie ex art. 709 ter c.p.c. a causa dei comportamenti tenuti dalla moglie dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli.

Il Tribunale, dopo aver ascoltato i Servizi sociali e il C.T.U. nominato, riteneva comprovata l’elevata conflittualità tra i genitori e gli ingiustificati comportamenti della madre, che rendeva estremamente difficile per il padre non solo esercitare con regolarità il suo diritto di visita ma anche a parlare semplicemente al telefono con i figli.

Dall’altro lato, però, i giudici davano atto dell’assenza di problemi nella gestione dei figli nei tempi in cui questi stavano con l’uno o l’altro genitore e della mancanza di alcuna carenza educativa nelle due figure genitoriali. Per questo motivo, il Tribunale, pur affidamento i bambini ad ambedue i genitori, decideva di nominare un coordinatore genitoriale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, individuando puntualmente i suoi compiti come segue:

  1. monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

In conclusione

Attraverso il controllo di un coordinatore, il Tribunale mira dunque non solo a “tenere sotto controllo” i comportamenti dei genitori in caso di conflitto ma ad affiancare loro un esperto che possa aiutarli nell’adozione condivisa di scelte nell’interesse dei ragazzi e decidere egli stesso qualora i genitori non si mettano d’accordo.

Il fallimento o il successo di tale figura dipenderà, tuttavia, non solo dalla capacità e professionalità del coordinatore genitoriale incaricato ma, soprattutto, dalla presa di coscienza da parte degli ex coniugi che la fine del matrimonio non comporta la fine della famiglia né dei doveri genitoriali.[:]

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