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[:it]Two hand exchanging twenty jordanian dinars

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 7940 del 12 settembre 2019, ha ribadito il principio, ormai cristallizzato dagli Ermellini, secondo il quale la deroga posta dal secondo comma dell’art. 2721 c.c. è ammissibile solo se giustificata da una concreta valutazione delle ragioni per cui la parte, incolpevolmente, non sia in possesso di documentazione scritta.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine da un procedimento di ingiunzione promosso da un avvocato nei confronti di una cliente, nel quale il Tribunale di Cagliari, con sentenza n. 2478/2012, rigettava l’opposizione proposta avverso il decreto ingiuntivo.

Il credito azionato in via monitoria – della somma di euro 8.860,72 – aveva ad oggetto il compenso per l’attività professionale prestata nella causa di risarcimento danni da sinistro stradale, definito in via transattiva.

Dolendosi di tale decisione, la cliente ricorreva alla Corte d’Appello di Cagliari che, all’esito del giudizio, riformava la decisione del giudice di prime cure e condannava l’avvocato – previa revoca del decreto ingiuntivo – a restituire alla controparte la somma di euro 789,95. La Corte territoriale calcolava tale importo dalla differenza tra quanto già corrisposto dalla cliente a titolo di acconto, grossolanamente considerando attendibili le dichiarazioni dei genitori della medesima, e il compenso parametrato all’importo attribuito alla cliente a titolo risarcitorio, sulla scorta delle tariffe dettate dal D.M. 8 aprile 2004, vigente ratione temporis.

Il ricorso per cassazione  

Il difensore, vista la decisione della Corte d’Appello, adiva la Suprema Corte dolendosi, in particolare, di come il giudice di secondo grado avesse ritenuto provato il pagamento di acconti su prove testimoniali – peraltro fornite dai genitori – “senza giustificare la deroga al divieto previsto per i contratti ed esteso ai pagamenti di valore superiore ad euro 2,58”.

Il giudizio della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso limitatamente alla suesposta doglianza, ha ribadito il consolidato principio secondo il quale “poiché ai sensi dell’art. 2726 cod. civ. le norme stabilite per la prova testimoniale si applicano anche al pagamento e alla remissione del debito, è ammessa la deroga al divieto della prova testimoniale in ordine al pagamento delle somme di denaro eccedenti il limite previsto dall’art. 2721 cod. civ., ma la deroga è subordinata ad una concreta valutazione delle ragioni in base alle quali, nonostante l’esigenza di prudenza e di cautela che normalmente richiedono gli impegni relativi a notevoli esborsi di denaro, la parte non abbia curato di predisporre una documentazione scritta (ex plurimis, Cass. 14/07/2003, n. 10989; Cass. 25/05/1993, n. 5884; Cass. 18/03/1968, n. 879).  

Di qui, la decisione della Suprema Corte di cassare in parte qua la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa composizione, affinché si conformi al principio di diritto sopra richiamato.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

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[:it]certificato-medicoIl caso in esame

Un collega, difensore d’ufficio, con istanza depositata del 27 aprile 2017 nel giudizio d’appello, chiedeva disporsi rinvio dell’udienza “…perché legittimamente impedito a comparirvi a causa di malattia…”, allegando all’uopo certificazione del suo medico curante che recitava testualmente: “Certifico che (…) è affetta da influenza. Si consigliano 4 gg. di riposo“.

La Corte di appello rigettava, tuttavia, la suddetta richiesta rilevando la mancanza del carattere assoluto dell’impedimento.

Il difensore decideva pertanto di ricorrere per cassazione dolendosi ex multis, del“l’inosservanza o comunque l’erronea applicazione degli artt. 484 e 420-ter c.p.p., e la violazione del diritto di difesa quale conseguenza del mancato riconoscimento del legittimo impedimento a comparire dovuto a malattia del difensore ritualmente certificata dal medico curante”.

 

Il principio enunciato dalla Suprema Corte

La Suprema Corte, investita della questione, richiamando alcuni suoi illustri precedenti, ribadisce preliminarmente il seguente principio applicato successivamente al caso di specie: “…il giudice, nel valutare il certificato medico, deve attenersi alla natura dell’infermità e valutarne il carattere impeditivo, potendo pervenire ad un giudizio negativo circa l’assoluta impossibilità a comparire solo disattendendo, con adeguata valutazione del referto e senza dover necessariamente disporre una “visita fiscale” o un accertamento tecnico, la rilevanza della patologia da cui si afferma colpito l’imputato o del difensore” (Cass. SS.UU. n°36635 del 27/09/2005; Cass., Sez. II^, n. 12948 del 05/03/2004).

 

La prova assoluta del legittimo impedimento

Ciò chiarito, gli Ermellini pongono in evidenza la necessità che la certificazione medica attestante l’impossibilità a comparire del difensore debba in generale essere idonea a comprovare “…la sussistenza dell’impedimento, indicandone la patologia ed i profili ostativi alla personale comparizione (citando sul punto il precedente delle SS.UU. n°41432 del 21 luglio 2016).

La Suprema Corte, dichiara pertanto manifestamente infondato il primo motivo di ricorso, ritenendo inidonea la certificazione medica allegata dal difensore in quanto “…il certificato medico non fornisce alcuna informazione sulla natura assoluta della impossibilità di comparire”, risultando privo dell’indicazione del “… grado della febbre e a quale grave e non evitabile rischio per la salute sarebbe andato incontro il difensore in caso di presenza all’udienza”.

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kate-separatedIl Tribunale civile d’Ancona, si è recentemente pronunciato su una delle questioni più comuni che sorgono a seguito della disgregazione della famiglia “tradizionale” fondata sul matrimonio e dall’instaurazione di nuovi rapporti sentimentali da parte dell’ex moglie e l’ex marito: la debenza, o meno, dell’assegno divorzile.

Come sottolineato più volte negli ultimi anni dalla Suprema Corte, infatti, una mera relazione, priva dei caratteri di stabilità, non fa venir meno, di per sé, il diritto al c.d. assegno divorzile. Diverso discorso, invece, nel caso in cui l’ex moglie o l’ex marito si siano risposati ovvero abbiano creato una “nuova famiglia”. In tale caso infatti, “l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude” (sul punto, ex multis Cass. n°6855/2015 e n°2466/2016).

Secondo il condivisibile principio sopraesposto, la Suprema Corte, ha inteso:

  • privare di ogni rilevanza l’esistenza o meno dell’elemento formale del vincolo matrimoniale, al fine di appurare se la nuova unione possa o meno definirsi quale “nuova famiglia” – e ciò conformemente a quanto più volte ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (ex multis, Corte EDU, Vallianatos c. Grecia del 7 novembre 2013);
  • valorizzare la scelta libera e consapevole di chi, dopo il divorzio, decida di farsi non solo una nuova vita bensì anche una nuova famiglia, liberando conseguentemente l’ex coniuge da ogni dovere, anche di natura economica ed assistenziale, derivante dall’oramai sciolto vincolo matrimoniale;
  • responsabilizzare l’autore di tale scelta, escludendo che l’ex marito o l’ex moglie possano, in caso di fallimento della successiva unione – in particolar modo se more uxorio, dalla cui eventuale rottura, come noto, non discende per i partner alcun diritto ad assegni alimentari o di mantenimento a carico dell’ex partner – pretendere nuovamente una assistenza economica da parte dell’altro ex coniuge.

La vicenda in esame

Il caso sottoposto al Tribunale marchigiano vede contrapposto un ex marito che, stanco di versare un assegno divorzile alla propria ex moglie – la quale da tempo aveva instaurato una relazione more uxorio con un nuovo uomo e che si rifiutava immotivatamente di accettare o ricercare essa stessa posizioni lavorative che le permettessero di acquistare un’indipendenza economica – adiva l’autorità giudiziaria al fine di veder modificati i provvedimenti divorzili e revocato, o quantomeno ridotto significativamente, l’assegno mensilmente versato.

L’ex moglie si costituiva in giudizio opponendosi all’accoglimento della domanda, contestando l’esistenza di una stabile convivenza, eccependo l’impossibilità per motivi di salute a lavorare e chiedendo in via riconvenzionale l’aumento dell’assegno di mantenimento in favore dei figli, maggiorenni ma ancora non economicamente dipendenti.

Sulla prova della creazione di una nuova famiglia e la conseguente revoca dell’assegno divorzile.

La pronuncia del Tribunale di Ancona appare di particolare interesse per le considerazioni espresse dal giudicante in merito alla valenza delle prove fornite dalle parti a riprova e a confutazione dell’esistenza di una “nuova famiglia”.

In particolare, ad avviso del Tribunale marchigiano l’esistenza di una stabile convivenza risultava comprovata alla luce:

  1. dell’ammissione della resistente circa l’esistenza di un legame affettivo perdurante da anni e dalla mancata contestazione dell’inizio della suddetta relazione dopo la sentenza di divorzio;
  2. delle fotografie pubblicate sui social network raffiguranti la nuova coppia, non contestate dalla resistente;
  3. dei periodi di vacanza dagli stessi trascorsi insieme (a nulla rilevando la ripartizione delle relative spese tra i partner);
  4. della relazione investigativa in atti.

Con particolare riferimento alla suddetta relazione investigativa, il Tribunale, pur riconoscendo alla stessa mero valore indiziario, alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n°11516/2014), riteneva che le relative risultanze potessero ciò non di meno essere liberamente apprezzate dal giudice di merito e fossero utili al fine del decidere in quanto confermate dalle altre evidenze probatorie e attestanti la non occasionalità della frequentazione nonché la sua risalenza del tempo. Di fatti, dalla predetta investigazione emergevano plurimi elementi atti a confermare la natura della stabile convivenza e, in particolare:

  • il libero accesso del partner alla casa della resistente, anche quando quest’ultima era assente;
  • il pernottamento dello stesso presso la casa della resistente;
  • la circostanza che detta casa fosse punto di arrivo e di partenza della coppia in occasione dei loro viaggi insieme.

Di contro, alcun valore poteva attribuirsi alla tesi dell’asserita natura occasionale della predetta relazione, sostenuta invano dall’ex moglie in quanto:

  1. l’asserita circostanza che il partner avesse solo occasionalmente utilizzato la casa della resistente poiché erano in corso i lavori di ristrutturazione della propria abitazione, corroborava – anziché smentire – la tesi attorea “…posto che nell’impossibilità di utilizzare la propria abitazione lo stesso ha fatto riferimento proprio alla abitazione della compagna”;
  2. la mera sussistenza di un’abitazione propria del partner non escludeva tout court…la natura della stabile convivenza e la sussistenza di un comune progetto di vita”;
  3. le evidenze anagrafiche, parimenti, non avevano “…rilievo dirimente al fine di escludere la convivenza o la natura stabile di essa…” non potendosi fare dipendere l’accertamento della sussistenza del diritto all’assegno divorzile da risultanze anagrafiche che ben potrebbero essere inficiate da condotte strumentali delle parti.

Alla luce degli elementi sopra raffigurati e dell’adeguatezza dei redditi del nuovo partner, come ammesso dalla stessa resistente, il Tribunale ha pertanto ritenuto di poter affermare che quest’ultimo “…goda di proventi sufficienti per creare con la signora quella comunanza di risorse economiche che giustifica la revoca dell’assegno divorzile…”.

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kate-separatedIl Tribunale civile di Roma ha recentemente chiarito, con decreto del 7 marzo 2017, quali sono le condizioni necessarie per l’accoglimento della domanda di affido esclusivo dei figli minori.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una madre per la regolamentazione dell’affido e del mantenimento del figlio, nato da una relazione con un uomo già sposato e con figli. Nella domanda introduttiva la ricorrente sosteneva che, sin dalla nascita del piccolo, il padre aveva contribuito solo in minima parte al suo mantenimento, vedendolo solo in poche occasioni, chiedendo pertanto l’affido condiviso con collocamento prevalente del bambino presso di sé e, in subordine, l’adozione di “…altre forme di affidamento ritenute più opportune dal Tribunale”.

Il padre, costituitosi in giudizio, aderiva alla domanda di affido condiviso, manifestando la disponibilità a vedere il minore una volta al mese, stante gli impegni lavorativi e la distanza geografica.

All’esito dell’udienza presidenziale, la Corte romana disponeva l’affido condiviso del minore con collocamento prevalente presso la madre e il “…diritto dovere del padre di vederlo e tenerlo con sé almeno cinque giorni al mese, al fine di instaurare una relazione continuativa”.

Il Tribunale, tuttavia, a conclusione del giudizio, disponeva la modifica del regime di affidamento, disponendo l’affido esclusivo del minore presso la madre, sulla base delle seguenti motivazioni:

  • non avendo il legislatore tipizzato le condotte ostative integranti la fattispecie di cui all’art. 337 quater c.c. – ai sensi del quale può derogarsi alla regola dell’affido esclusivo solo ove questo risulti “…contrario all’interesse del minore” – “… la loro individuazione è rimessa alla decisione del giudice, da adottarsi nelle fattispecie concrete con provvedimento motivato”;
  • richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte, una deroga al regime dell’affido condiviso deve essere debitamente motivata tanto in positivo, per quanto attiene all’idoneità del genitore affidatario, quanto in negativo, in relazione all’inidoneità educativa dell’altro genitore;
  • le “ipotesi di affidamento esclusivo sono individuabili ogni qualvolta l’interesse del minore possa essere pregiudicato da un affidamento condiviso…” e rinvenibili nei casi in cui il genitore, a titolo esemplificativo, “…sia indifferente nei confronti del figlio, non contribuisca al mantenimento del figlio, manifesti un disagio esistenziale incidente sulla relazione affettiva, ecc.”

Alla luce di quanto sopra, il Tribunale di Roma ha ritenuto che i comportamenti tenuti dal padre integrano le ipotesi giustificative di una deroga alla regola del regime condiviso:

  • avendo il padre, a fare data dall’adozione dei provvedimenti presidenziali, incontrato il bambino in pochissime occasioni, accampando pretestuose ragioni di carattere lavorativo e difficoltà di carattere economico, non presentandosi neppure il giorno del suo compleanno e ciò nonostante l’ampia disponibilità data alla madre a favorire detti incontri;
  • non avendo il padre mai dimostrato nei confronti del piccolo “…interesse alla sua vita, alla sua condizione di salute, ai suoi impegni”.

Proprio in virtù della totale incapacità del genitoriale, il Tribunale romano opta pertanto per un affido esclusivo alla madre “…per tutte le questioni attinenti al figlio, anche qualora relative a scelte di maggiore rilevanza, compresa la scelta della residenza abituale del minore, con totale esclusione da tali scelte del padre”.

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downloadCari amici Gengle, ritorniamo oggi su un argomento già trattato appena qualche settimana fa: il venir meno del diritto all’assegno divorzile in caso di nuova convivenza. Di recente, infatti, la Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con ordinanza 5 dicembre 2016 – 8 marzo 2017, n°6009, è ritornata sull’argomento offrendo degli importanti chiarimenti.

La vicenda sottoposta alla Suprema Corte trae origine da una sentenza di divorzio con la quale il Tribunale di Rimini aveva negato ad un’ex moglie il diritto all’assegno divorzile, stante la sua pacifica convivenza con un nuovo compagno.

La donna impugnava la sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Bologna che, accogliendo parzialmente il suo appello, le riconosceva un assegno divorzile, differenziando tra coabitazione e stabile convivenza. Ad avviso dei giudici di secondo grado, infatti, l’ex marito aveva provato unicamente la coabitazione dell’ex moglie con il nuovo compagno ma non anche “…la piena comunione spirituale e materiale…” tra i due.

Questa volta, tuttavia, è il marito a presentare ricorso, questa volta dinnanzi ai giudici della Cassazione, lamentando l’omessa giusta considerazione della comprovata pluriennale convivenza tra i due.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, rileva l’esistenza di un’ipotesi di motivazione meramente apparente, affermando l’assoluta illogicità della distinzione tra mera coabitazione e convivenza more uxorio. Ad avviso della Corte, infatti, una volta comprovata la stabile convivenza – come nel caso di specie, in cui la resistente aveva per giunta da tempo trasferito a casa del compagno la propria residenza anagrafica – non può ragionevolmente porsi sull’ex coniuge obbligato al mantenimento anche “…l’onere di dimostrare il grado di intimità che intercorre tra la coppia”. In altre parole, basta la prova della convivenza con altro uomo per far venir meno il diritto all’assegno divorzile.

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downloadLa Suprema Corte di Cassazione è recentemente ritornata – con ordinanza 5 dicembre 2016 – 8 marzo 2017, n°6009 –  sugli effetti di un’intervenuta stabile convivenza sul diritto dell’ex coniuge all’attribuzione dell’assegno divorzile.

La vicenda origina dal ricorso vittorioso presentato da un ex marito nei confronti del provvedimento con cui la Corte d’Appello di Bologna, in riforma parziale della sentenza di divorzio del Tribunali di Rimini, aveva riconosciuto il diritto all’attribuzione di un assegno divorzile in favore dell’ex moglie, ancorché da tempo coabitante con il nuovo compagno, sul presupposto della mancata prova dell’esistenza di una piena comunione spirituale e materiale tra i due.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, rileva l’esistenza di un’ipotesi di motivazione meramente apparente, affermando l’assoluta illogicità della distinzione tra mera coabitazione e convivenza more uxorio. Ad avviso della Corte, infatti, una volta comprovata la stabile convivenza – come nel caso di specie, in cui la resistente aveva per giunta da tempo trasferito a casa del compagno la propria residenza anagrafica – non può ragionevolmente porsi sull’ex coniuge obbligato al mantenimento anche “…l’onere di dimostrare il grado di intimità che intercorre tra la coppia”.

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downloadCon ordinanza n°22677 del 1° luglio 2016, pubblicata in data 8 novembre 2016, la VI^-1 sezione della Suprema Corte di Cassazione ribadisce con fermezza l’inutilizzabilità nel giudizio civile “…del materiale probatorio acquisito mediante sottrazione fraudolenta alla parte processuale che ne era in possesso”.

La vicenda de quo trae origine da una feroce disputa in sede separatizia tra ex coniugi, avente ad oggetto l’addebito della separazione e l’affido della prole. All’esito del secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Firenze, in parziale modifica di quanto disposto dal Tribunale di Pistoia, aveva respinto le reciproche domande di addebito presentate dai due coniugi, disponendo altresì l’affidamento esclusivo dei figli al padre e degli incontri protetti madre-figli.

Ricorreva avverso detta sentenza la madre, lamentandosi, inter alia, dell’omessa valutazione di alcuni file audio, di proprietà del marito, sottratti da ignoti ed inviati anonimamente al difensore della ricorrente. Ad avviso della moglie, infatti, la circostanza che detto materiale probatorio fosse stato raccolto fraudolentemente non incideva sulla sua utilizzabilità in sede civile.

Di diverso avviso sono, tuttavia, gli Ermellini che confermano l’inutizzabilità del predetto materiale probatorio raccolto illecitamente, rigettando il ricorso.

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