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[:it]downloadDi recente, l’Avvocato Generale Wathelet, tra i massimi esperti di diritto internazionale privato dell’UE, ha presentato delle interessanti conclusioni all’interno della richiesta di rinvio pregiudiziale presentata dalla Corte Costituzionale della Romania, ritenendo gli Stati membri obbligati a concedere ai coniugi, anche dello stesso sesso, di cittadini UE il permesso a soggiornare permanentemente sul proprio territorio.

Il giudizio a quo

 La vicenda trae origine dalla diniego opposto dalle autorità rumene alla richiesta, presentata da parte di un cittadino rumeno, del rilascio in favore del proprio coniuge – cittadino statunitense con il quale aveva convissuto per 4 anni negli U.S.A., per poi sposarsi a Bruxelles e ritrasferirsi con quest’ultimo in Romania – dei documenti necessari affinché questi potesse ivi lavorare e soggiornare in modo permanente.

Detto diniego veniva motivato sulla scorta del mancato riconoscimento da parte della Romania dei matrimoni tra le persone dello stesso sesso, con conseguente impossibilità, ad avviso delle autorità rumene, di poter concedere al sig. Hamilton il diritto di soggiorno spettante, secondo la Direttiva 2004/38/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, al coniuge di un cittadino UE.

La coppia decide pertanto di proporre ricorso avverso detta decisione, sollevando un’eccezione di incostituzionalità relativa all’art. 277, paragrafi 2 e 4 del c.c. rumeno, ritenendo che “…il mancato riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso conclusi all’estero, ai fini dell’esercizio del diritto di soggiorno, costituisce una violazione delle disposizioni della Costituzione rumena che tutelano il diritto alla vita intima, familiare e privata nonché delle disposizioni relative al principio di uguaglianza”.

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE

La Corte costituzionale, investita della questione, decide pertanto di interrompere il giudizio, sottoponendo alla CGUE le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)   Se il termine “coniuge”, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si applichi a un cittadino di uno Stato che non è membro dell’Unione, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione con il quale egli è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante.

2)   In caso di risposta affermativa, se gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo [2], della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione.

3)     In caso di risposta negativa alla prima questione, se il coniuge dello stesso sesso, proveniente da uno Stato che non è membro dell’Unione, di un cittadino dell’Unione con il quale il cittadino si è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante, possa essere qualificato come “ogni altro familiare” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38 o “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2004/38, con il corrispondente obbligo dello Stato ospitante di agevolare l’ingresso e il soggiorno dello stesso, anche se lo Stato ospitante non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso né prevede qualsiasi altra forma alternativa di riconoscimento giuridico, come le unioni registrate.

4)     In caso di risposta affermativa alla terza questione, se gli articoli 3, paragrafo 2, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione».

Le conclusioni dell’A.G.

Sulla questione ha espresso le seguenti condivisibili valutazioni, l’avvocato Generale Watelet.

Partendo dal dato normativo, il prof. Watelet, afferma che:

  • l’art. 3, par. 1 della Direttiva 2004/38/CE, definisce gli aventi diritto come “…qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché [i] suoi familiari ai sensi dell’articolo 2, punto 2, che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo…”;
  • detta direttiva, di per sé, non consente “…di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore di cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possieda la cittadinanza”;
  • tuttavia, vi sono alcuni casi in cui “…un diritto di soggiorno derivato possa fondarsi sull’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e che, in tale contesto, la direttiva 2004/38 debba essere applicata per analogia...”;
  • ciò accade, in particolare, come già sottolineato dalla CGUE, «…quando, nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante, ai sensi e nel rispetto delle condizioni dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’efficacia pratica dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE impone che la vita familiare che detto cittadino abbia condotto nello Stato membro ospitante possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di un paese terzo. Difatti, in mancanza di un siffatto diritto di soggiorno derivato, tale cittadino dell’Unione sarebbe dissuaso dal lasciare lo Stato membro di cui possiede [la] cittadinanza al fine di avvalersi del suo diritto di soggiorno, ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, in un altro Stato membro, a causa della circostanza che egli non ha la certezza di poter proseguire nello Stato membro di origine una vita familiare con i propri stretti congiunti sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante…»;
  • l’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38/CE “…non contiene alcun rinvio al diritto degli Stati membri per determinare la qualifica di «coniuge”, con la conseguenza di dover dare una nozione di “coniuge”, ai sensi della predetta direttiva, che sia autonoma e uniforme per l’intera Unione, indipendentemente dalla definizione data dai singoli Stati membri;
  • la nozione “evolutiva” di coniuge, recepita dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha portato a ritenere inaccettabile una disparità di trattamento basata unicamente e/o prevalentemente su “…considerazioni relative all’orientamento sessuale delle persone interessate…”, con conseguente necessità di attribuire alla nozione di coniuge ai sensi dell’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38 “…autonoma indipendente dall’orientamento sessuale”.

Sulla stregua di dette premesse, l’avvocato generale conclude, pertanto, affermando che:

«1)  L’articolo 2, punto 2, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE dev’essere interpretato nel senso che la nozione di “coniuge” si applica a un cittadino di uno Stato terzo sposato con un cittadino dell’Unione europea dello stesso sesso.

2)   Gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 devono essere interpretati nel senso che il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione che accompagna detto cittadino nel territorio di un altro Stato membro beneficia in tale Stato di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi, purché quest’ultimo risponda alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettere a), b) o c), di tale direttiva.

L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione ha sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo in occasione di un soggiorno effettivo in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza, le disposizioni della direttiva 2004/38 si applicano per analogia se detto cittadino dell’Unione rientra, con il familiare interessato, nel proprio Stato membro d’origine. In tale ipotesi, le condizioni per la concessione di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo, coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione, non dovrebbero, in via di principio, essere più severe di quelle previste all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.

3)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che è applicabile alla situazione di un cittadino di uno Stato terzo, sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso conformemente alla legge di uno Stato membro, in qualità di “altro familiare” o come “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”.

4)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che:

  • non impone agli Stati membri di concedere un diritto di soggiorno nel loro territorio per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo legalmente sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso;
  • gli Stati membri sono tuttavia tenuti ad assicurarsi che la loro legislazione contenga criteri che consentano a detto cittadino di ottenere una decisione sulla sua domanda di ingresso e di soggiorno fondata su un esame approfondito della sua situazione personale e motivata in caso di rifiuto;
  • sebbene gli Stati membri abbiano un ampio potere discrezionale nella scelta di detti criteri, questi ultimi, tuttavia, devono essere conformi al significato comune del termine “agevola” e non devono privare tale disposizione del suo effetto utile, e
  • il rifiuto opposto alla domanda di ingresso e di soggiorno, in ogni caso, non può fondarsi sull’orientamento sessuale della persona interessata».

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downloadLa Corte di Giustizia dell’Unione europea, pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale del Tribunale regionale di Gorzów Wielkopolski (Polonia), ha affermato che “L’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo, devono essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in detto Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione”.

Il giudizio a quo

La pronuncia trae origine da una procedura iniziata da una cittadina polacca, residente in Germania, tesa ad ottenere la redazione da parte di un notaio tedesco di un testamento pubblico che prevedesse «…un legato “per rivendicazione”, consentito a norma del diritto polacco, a favore di suo marito, relativo alla quota di cui è proprietaria nell’immobile comune situato a Francoforte sull’Oder». Il notaio, tuttavia, si rifiutava ritenendo detto legato contrario alle normative e alla giurisprudenza tedesca relativa ai diritti reali e al catasto, proponendo alla sig.ra di ricorrere alla diversa figura del c.d. “legato obbligatorio”, previsto dall’art. 968 del codice civile tedesco, alla luce anche dell’adattamento dei legati per rivendicazione stranieri in legati obbligatori in virtù dell’art. 31 del regolamento 650/12/UE, che recita: «Se una persona invoca un diritto reale che le spetta secondo la legge applicabile alla successione e la legge dello Stato membro in cui il diritto è invocato non conosce il diritto reale in questione, tale diritto è adattato, se necessario e nella misura del possibile, al diritto reale equivalente più vicino previsto dalla legge di tale Stato, tenendo conto degli obiettivi e degli interessi perseguiti dal diritto reale in questione nonché dei suoi effetti».

La ricorrente decideva di presentare ricorso avverso tale rifiuto, ritenendo insussistenti giustificazioni tali da impedire il riconoscimento in Germania degli effetti reali del legato per rivendicazione e, dall’altro, escludendo la possibilità di ricorrere al legato “ordinario”, “…in quanto quest’ultimo comporterebbe difficoltà collegate alla rappresentanza dei suoi figli minorenni, che possono essere chiamati all’eredità, nonché costi aggiuntivi”.

A fronte del mancato accoglimento del predetto ricorso, la sig.ra Kubicka presentava analogo ricorso dinnanzi al Tribunale regionale di Gorzów Wielkopolski, il quale decideva di sospendere il giudizio e interrogare la Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla seguente questione: «… se l’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento n. 650/2012 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in un altro Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione».

La pronuncia della Corte

La Corte di Giustizia, risponde negando l’esistenza di motivi ostativi al suo riconoscimento sulla base delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • Il 15° ‘considerando’ del regolamento in oggetto consente ad uno Stato membro di non riconoscere nel proprio ordinamento diritti reali previsti da ordinamenti stranieri su beni situati nel proprio territorio qualora non rientranti nel numerus clausus di quelli contemplati dal proprio ordinamento. Tuttavia, nella fattispecie, tanto il legato “per rivendicazione” previsto dal diritto polacco, quanto il legato “ordinario” previsto dal diritto tedesco, costituiscono mere modalità di trasferimento del medesimo diritto reale di proprietà, contemplato da ambedue gli ordinamenti nazionali;
  • A ciò consegue che l’articolo 1, paragrafo 2, lettera k), del regolamento n. 650/2012 “…osta al diniego di riconoscimento in uno Stato membro, il cui ordinamento giuridico non conosce l’istituto del legato «per rivendicazione», degli effetti reali prodotti da un tale legato alla data di apertura della successione in applicazione della legge sulle successioni che è stata scelta dal testatore”;
  • Parimenti, non osta a tale riconoscimento il dettato dell’art. 1, paragrafo 2, lettera l), del regolamento n. 650/2012, in quanto, poiché «…riguarda solo l’iscrizione in un registro dei diritti su beni mobili o immobili, compresi i requisiti legali relativi a tale iscrizione, e gli effetti dell’iscrizione o della mancata iscrizione di tali diritti in un registro, le condizioni alle quali tali diritti sono acquisiti non rientrano tra le materie escluse dall’ambito di applicazione di tale regolamento in virtù di tale disposizione».
  • Alla luce di quanto sopra esposto la Corte conclude dichiarando che: «L’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo, devono essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in detto Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione».

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downloadAll’indomani della legge n°76/2016, c.d. legge Cirinnà, che per la prima volta ha riconosciuto e disciplinato la tutela nel nostro ordinamento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, ad accendere il dibattito tra sostenitori della famiglia tradizionale e quelli della “gender-equality” è intervenuta una rivoluzionaria pronuncia della Corte d’Appello di Trento che ha accolto la domanda di una coppia sposata all’estero, che aveva avuto un figlio ricorrendo alla pratica del c.d. “utero in affitto”, al fine di veder riconosciuto anche in Italia il rapporto di filiazione con ambedue i padri, a prescindere dalla sussistenza di una relazione genetica con entrambi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da due uomini di nazionalità italiana, legalmente sposati negli Stati Uniti, avverso il rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile di un comune italiano alla trascrizione della sentenza con cui una corte statunitense aveva accertato l’esistenza del loro rapporto genitoriale con un figlio avuto ricorrente alla pratica della procreazione medicalmente assistita, prescindendo dalla mancanza di legami genetici con uno dei due padri.

A sostegno della propria richiesta la coppia affermava:

  • di aver fatto legittimamente ricorso alla procreazione medicalmente assistita in uno Stato che non poneva, diversamente che in Italia, restrizioni sulla base del genere;
  • che, in applicazione della legge del luogo di nascita dei due gemelli, era stato originariamente riconosciuto quale unico genitore il padre che aveva donato il proprio seme (non anche la madre gestante) e, in un secondo momento anche il padre non biologico;
  • che ambedue i genitori avevano assunto sin da subito il ruolo di padre e come tali erano riconosciuti dai bambini e dalla cerchia di amici, familiari e colleghi;
  • che, pertanto, la trascrizione della sentenza straniera, tutelando il diritto dei minori alla bigenitorialità, non poteva essere negata, non sussistendo alcun conflitto con l’ordine pubblico né internazionale né interno;
  • che la presenza di due genitori dello stesso sesso non poteva considerarsi pregiudizievole per il benessere del bambino, stante “…l’irrilevanza dell’orientamento sessuale del genitore per giudicare il benessere del bambino”, accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Contrario all’accoglimento del ricorso è invece il Procuratore generale e il Ministero dell’interno, ad avviso dei quali il riconoscimento in Italia di una tale sentenza avrebbe contrastato con l’ordine pubblico interno italiano, costituito da quell’insieme di interessi e principi fondamentali che si rinvengono nella nostra Costituzione. Ad avviso, in particolare, del Ministero dell’interno, il padre non biologico potrebbe ricevere già tutela ricorrendo alla disciplina dell’adozione in casi particolari, adottando pertanto il figlio del padre biologico. Questa soluzione, ad avviso delle istituzioni, “…rappresenta, nel presente momento storico, l’equilibrio più avanzato raggiunto dall’ordinamento tra i vari orientamenti sociali e culturali”.

La Corte è invece di diverso avviso, accogliendo il ricorso dei due papà con la seguente motivazione.

In primis, secondo la Corte non si può impedire il riconoscimento del rapporto di filiazione ricorrendo all’eccezione di ordine pubblico, perché la scelta del legislatore ordinario di non permettere l’adozione a coppie gay non risponde a principi o interessi fondamentali sanciti dalla Costituzione.
Passando poi all’interesse superiore del minore, la Corte rileva che tanto la legge n°218/95 (legge di riforma dell’ordinamento di diritto internazionale privato italiano) quanto l’art. 8, par. 1 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del Fanciullo, riconoscono il “…diritto del minore a conservare lo status di figlio riconosciutogli in un atto validamente formato in altro Stato” con conseguente evidente pregiudizio per i minori in caso di mancato riconoscimento dello status filiationis (lo status di figlio) in quanto:

  • i figli non godrebbero in Italia nei confronti del padre non biologico di “…tutti i diritti che a tale status conseguono;
  • i figli sarebbero altresì “…pregiudicati anche sotto il profilo della perdita dell’identità familiare…” legittimamente acquisita nello Stato estero.

Di contro, il diritto dei due bambini alla bigenitorialità, ancorché non assoluto, non potrebbe legittimamente essere pregiudicato, stante l’assenza nel presente caso di antitetici…altri interessi e valori di rilevanza costituzionale primaria e vincolanti per il legislatore italiano” e ciò in quanto:

  • il mero divieto previsto dalla l. n°40/04 della possibilità per coppie di sesso diverso di ricorrere a procreazione assistita non può essere considerato “…espressione di principi fondamentali costituzionalmente garantiti;
  • le conseguenze previste dalla legge 40/14 in capo agli adulti che ricorrono illegalmente ad una pratica di negoziazione assistita non possono “…determinare la negazione del riconoscimento ai minori dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero…”;
  • l’assenza di legame genetico tra i figli e il ricorrente non può essere di ostacolo al riconoscimento del rapporto di filiazione tra gli stessi già riconosciuto all’estero, “…dovendosi escludere che nel nostro ordinamento vi sia un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra genitore ed il nato”.

La Corte, pertanto, conclude accogliendo il ricorso e dichiarando l’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento della corte statunitense che aveva dichiarato la paternità anche al padre non biologico.

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imagesAll’indomani della legge n°76/2016, c.d. legge Cirinnà, che per la prima volta ha riconosciuto e disciplinato la tutela nel nostro ordinamento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, ad accendere il dibattito tra sostenitori della famiglia tradizionale e quelli della “gender-equality” è intervenuta una rivoluzionaria pronuncia della Corte d’Appello di Trento che ha accolto la domanda di una coppia sposata all’estero, che aveva avuto un figlio ricorrendo alla pratica del c.d. “utero in affitto”, al fine di veder riconosciuto anche in Italia il rapporto di filiazione con ambedue i padri, a prescindere dalla sussistenza di una relazione genetica con entrambi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da due uomini di nazionalità italiana, legalmente sposati negli Stati Uniti, avverso il rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile di un comune italiano alla trascrizione della sentenza con cui una corte statunitense aveva accertato l’esistenza del loro rapporto genitoriale con un figlio avuto ricorrente alla pratica della procreazione medicalmente assistita, prescindendo dalla mancanza di legami genetici con uno dei due padri.

A sostegno della propria richiesta la coppia affermava:

  • di aver fatto legittimamente ricorso alla procreazione medicalmente assistita in uno Stato che non poneva, diversamente che in Italia, restrizioni sulla base del genere;
  • che, in applicazione della legge del luogo di nascita dei due gemelli, era stato originariamente riconosciuto quale unico genitore il padre che aveva donato il proprio seme (non anche la madre gestante) e, in un secondo momento anche il padre non biologico;
  • che ambedue i genitori avevano assunto sin da subito il ruolo di padre e come tali erano riconosciuti dai bambini e dalla cerchia di amici, familiari e colleghi;
  • che, pertanto, la trascrizione della sentenza straniera, tutelando il diritto dei minori alla bigenitorialità, non poteva essere negata, non sussistendo alcun conflitto con l’ordine pubblico né internazionale né interno;
  • che la presenza di due genitori dello stesso sesso non poteva considerarsi pregiudizievole per il benessere del bambino, stante “…l’irrilevanza dell’orientamento sessuale del genitore per giudicare il benessere del bambino”, accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Contrario all’accoglimento del ricorso è invece il Procuratore generale, il quale:

  • eccepiva l’incompetenza della Corte a conoscere dell’opposizione al rifiuto di trascrizione;
  • riteneva la domanda dei ricorrenti contrastante con l’ordine pubblico interno italiano;
  • riteneva non sussistente nel diritto della CEDU “…un diritto incondizionato alla paternità o alla maternità”.

L’importanza della questione spingeva anche il Ministero dell’interno ad intervenire “…a difesa del provvedimento assunto dal Sindaco nella veste di Ufficiale di Governo”:

  • contestando la regolarità formale della notifica al Sindaco presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato;
  • ritenendo contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento del rapporto di filiazione in assenza di alcuna relazione biologica;
  • ritenendo inapplicabile alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, per espressa previsione della legge 76/16, le norme in materia di filiazione;
  • affermando che la possibilità di ricorrere all’adozione in casi particolari del figlio dell’altro partner “…rappresenta, nel presente momento storico, l’equilibrio più avanzato raggiunto dall’ordinamento tra i vari orientamenti sociali e culturali”, in quanto conferisce rilievo giuridico a detta relazione, tutelando adeguatamente gli interessi morali e materiali dei minori.

La Corte, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente:

– rigetta l’eccezione d’incompetenza avanzata dal Procuratore generale, ritenendo oggetto del presente giudizio esclusivamente “…il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano ex art. 67 della legge n°218 del 1995, del provvedimento (…) con il quale si accerta che è stata instaurata una relazione di genitorialità…”;

– nega la posizione di parte del procedimento del Sindaco, con conseguente irrilevanza degli eccepiti vizi di notifica del ricorso allo stesso;

– dichiara inammissibile l’intervento del Ministero degli interni, negando l’esistenza di un attuale interesse dello stesso ad intervenire alla luce del “…l’assenza di domande di risarcimento dei danni nel presente giudizio…”, ritenendo già debitamente tutelato dall’intervento in giudizio del Procuratore generale l’unico interesse pubblico rinvenibile “…e cioè quello di evitare che trovino ingresso nel nostro ordinamento giuridico provvedimenti contrari all’ordine pubblico in materia di stato delle persone…”.

Passando al cuore della questione, ovvero l’esistenza di un possibile contrasto con l’ordine pubblico internazionale e la rispondenza del riconoscimento della sentenza al superiore interesse dei minori, la Corte, in primis ne individua nozione e portata, alla luce della sua recente evoluzione giurisprudenziale e della recente sentenza n°19599/16 della Suprema Corte, chiarendo che:

  • rientrano tra i principi di ordine pubblico esclusivamente quei “…principi supremi e/o fondamentali della nostra carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario”;
  • si deve, invece, escludere un contrasto con l’ordine pubblico “…per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale…”;
  • conseguentemente il giudice a quo, dopo aver verificato la compatibilità tra norme straniere e principi costituzionali, “…dovrà sempre negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un dato momento storico…”.

Passando poi alla rispondenza del riconoscimento al superiore interesse del minore, la Corte rileva che, tanto la legge n°218/95 quanto l’art. 8, par. 1 della Convenzione di NewYork del 1989 sui diritti del Fanciullo, riconoscono il “…diritto del minore a conservare lo status di figlio riconosciutogli in un atto validamente formato in altro Stato” con conseguente evidente pregiudizio per i minori in caso di mancato riconoscimento dello status filiationis in quanto:

  • i figli non godrebbero in Italia nei confronti del padre non biologico di “…tutti i diritti che a tale status conseguono;
  • i figli sarebbero altresì “…pregiudicati anche sotto il profilo della perdita dell’identità familiare…” legittimamente acquisita nello Stato estero.

Ad avviso della Corte, il diritto dei due bambini alla bigenitorialità, ancorché non assoluto, non potrebbe legittimamente essere pregiudicato, stante l’assenza nel presente caso di antitetici…altri interessi e valori di rilevanza costituzionale primaria e vincolanti per il legislatore italiano” e ciò in quanto:

  • il mero divieto previsto dalla legge n°40 del 19 febbraio 2004 della possibilità per coppie di sesso diverso di ricorrere a procreazione assistita non può essere considerato “…espressione di principi fondamentali costituzionalmente garantiti;
  • le conseguenze previste dalla legge 40/14 in capo agli adulti che ricorrono illegalmente ad una pratica di negoziazione assistita non possono “…determinare la negazione del riconoscimento ai minori dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero…”;
  • l’assenza di legame genetico tra i figli e il ricorrente non può essere di ostacolo al riconoscimento del rapporto di filiazione tra gli stessi già riconosciuto all’estero, “…dovendosi escludere che nel nostro ordinamento vi sia un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra genitore ed il nato”.

La Corte, pertanto, conclude accogliendo il ricorso e dichiarando l’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento della corte statunitense che aveva dichiarato la paternità anche al padre non biologico.

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downloadSempre più spesso i nostri Tribunali sono chiamati a pronunciarsi sul riconoscimento dello status di figlio, in particolare nei confronti del padre biologico.

Al fine di comprendere meglio la questione è necessario preliminarmente ripercorrere la disciplina relativa allo stato di figlio, contenuta nel Libro I, Titolo VII, del codice civile, distinguendo a seconda che si parli di figlio nato dentro o fuori dal matrimonio (noti un tempo come figli legittimi e figli naturali).

Partendo proprio dai figli nati da genitori coniugati, l’art. 231 c.c. prevede come regola generale che “Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.

Al fine di superare detta presunzione gli articoli 243 bis e ss. c.c. disciplinano il c.d. disconoscimento di paternità, mediante il quale il marito, la madre e il figlio possono provare che non sussista il rapporto di filiazione.

Per quanto concerne invece i figli nati fuori dal matrimonio, gli artt. 250 e ss. c.c. prevedono la possibilità per i due genitori di procedere, congiuntamente o separatamente, al riconoscimento all’atto di nascita o successivamente, mediante dichiarazione dinnanzi all’ufficiale dello stato civile.

Detta dichiarazione può essere, tuttavia, impugnata per difetto di veridicità ai sensi degli articoli 263 c.c. e seguenti. Legittimati all’impugnazione saranno l’autore stesso del riconoscimento, colui che è stato riconosciuto o chiunque altro vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile solo riguardo al figlio, dovendo di contro essere esercitata entro i termini stringenti di cui all’art. 263 c.c., da parte degli altri soggetti.

La dichiarazione di paternità o maternità può inoltre avvenire giudizialmente ai sensi degli articoli 269 c.c. e ss. su domanda dello stesso figlio o dalla madre, se minore di 14 anni, o ancora dal tutore, qualora il figlio sia interdetto, previa autorizzazione da parte del giudice tutelare.

Proprio la mancanza di termini prescrizionali per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità su domanda del figlio sono stati oggetto di una recentissima pronuncia della Suprema Corte (sez. I^, sentenza del 29 novembre 2016, n°24292).

La vicenda trae origine dal ricorso promosso da un padre biologico avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Torino aveva accolto la domanda della figlia di veder dichiarata la sua paternità, nonostante fossero decorsi oltre 40 anni dal momento in cui la stessa era venuta a conoscenza della vera identità del padre, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. proposta dal padre.

Nella specie, il padre lamentava l’incostituzionalità dell’art. 270 c.c. a causa della mancata previsione di un termine prescrizionale per l’esercizio della relativa azione da parte della figlia. Ad avviso del padre, infatti, permettere ad una persona, che conosce da 40 anni la vera identità del padre naturale e che ha vissuto tutta la vita chiamando padre il marito della madre, avrebbe comportato il sacrificio ingiustificato del “…diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo…” imponendogli così “…un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessata avrebbe potuto richiedere decenni prima”.

La Corte, tuttavia, conferma la sentenza impugnata ritenendo prevalente il diritto della figlia alla c.d. “verità biologica” della procreazione, che costituisce una delle componenti più importanti del diritto all’identità personale, diritto inviolabile della persona tutelato tanto dall’art. 2 della Costituzione quanto dall’art. 8 CEDU. Ad avviso della Corte, infatti, conoscere la vera identità dei propri genitori biologici è “una componente essenziale dell’interesse della persona che si traduce nella esigenza di garantire ad essa il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico”.  (Corte cost. n. 7/2012, n. 322/2011, n. 216 e 112/1997).

Ad avviso della Corte, inoltre, la decisione di introdurre un termine di prescrizione o di decadenza per la dichiarazione di paternità non potrebbe essere assunta da un Tribunale, spettando unicamente al Legislatore.

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[:it]La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°24863/14, ha cassato la sentenza con cui la Corte d’Appello di Roma aveva confermato la sentenza autorizzativa del riconoscimento ex art. 250 c.c. da parte del secondo genitore, senza tuttavia aver provveduto alla reiterata richiesta di audizione della figlia minore, avanzata dal padre che per primo aveva proceduto al suo riconoscimento, né aver motivato puntualmente i motivi alla base di detta omissione.

Ad avviso degli Ermellini, infatti, il principio dell’ascolto del minore in ogni giudizio o procedura che lo riguardi – consacrato dall’art. 155-sexies c.c., che ha recepito nel nostro ordinamento quanto disposto dall’art. 12 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996 e dall’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – introduce un duplice obbligo:

  • quello di procedere all’audizione del minore, salvo il caso in possa manifestamente arrecargli danno, ponendosi in contrasto con i suoi superiori interessi;
  • quello di puntuale motivazione in tutti quei casi in cui escluda la sua audizione ovvero qualora la decisione adottata sia difforme dalla volontà espressa.

Con riferimento in particolare al procedimento di riconoscimento ex art. 250 c.c., ad avviso della Suprema Corte, l’obbligatorietà dell’audizione del minore infrasedicenne (attualmente infradodicenne a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 219/12), salvo i casi di incapacità del minore a renderla, deriverebbe altresì dalla qualità di parte sostanziale che il figlio assume in tale giudizio. Da ciò deriva il conseguente obbligo del Tribunale di fornire adeguata giustificazione ogni qualvolta ravveda l’esistenza di motivi per i quali la ritenga manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del figlio minore.

Di seguito il testo della sentenza.[:]

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