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Con la recente sentenza del 9 dicembre 2024, il Tribunale civile di Isernia si è pronunciato sulla richiesta di rimessione in pristino e risarcimento danni spiegata da un condomino in danno del conduttore di un appartamento posto nel medesimo condominio che aveva costruito illegittimamente un gradino sul suolo condominiale, occupandolo mediante fioriere e tavolini, nonché del locatore e proprietario dell’immobile.

Quest’ultimo resisteva eccependo la sua carenza di legittimazione passiva.

Il Tribunale di Isernia, tuttavia, rigetta l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione rilevando che il locatore sia comunque gravato dall’onere di garantire, nel confronti del condominio, il rispetto da parte del conduttore del regolamento condominiale e che il comportamento di quest’ultimo non arrechi disturbo agli altri condomini nel godimento della cosa comune.

Il locatore, come chiarito, non è responsabile quindi solo delle proprie condotte e violazioni delle norme regolamentari ma anche di quelle commesse dal conduttore del suo bene,  “…essendo tenuto non solo a imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, ma altresì a prevenirne le violazioni e a sanzionarle, anche mediante la cessazione del rapporto” (cfr. Cassazione civile, sentenza n. 8239/1997).

Il Tribunale di Castrovillari, con sentenza del 13 maggio 2024, n. 872 si è pronunciato su una delicata controversia avente ad oggetto la richiesta di risarcimento avanzata dalla proprietaria-locatrice in danno della conduttrice avente ad oggetto i danni conseguenti ad un incendio che aveva distrutto il capannone oggetto del contratto di locazione.

Ad avviso di parte attrice sussisterebbe “…una presunzione di responsabilità in capo al conduttore per i danni derivanti da incendio, sulla base dell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale ex art. 1588  cod. civ., il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, pone indi una presunzione di colpa a carico del conduttore, superabile soltanto con la dimostrazione che la causa dell’incendio, identificata in modo positivo e concreto, non sia a lui imputabile, onde, in difetto di tale prova, la causa sconosciuta o anche dubbia della perdita o del deterioramento della cos a locata rimane a suo carico”.

Ad avviso della conduttrice, invece, non sussisterebbe alcuna sua responsabilità:

  • essendosi trattato di incendio doloso;
  • essendo la conduttrice stata assolta in sede penale;
  • in quanto vi sarebbe in ogni caso incertezza sulla causa di innesco dell’incendio.

Il Tribunale, accoglie la domanda attorea, chiarendo con un condivisibile iter argomentativo:

  • che l’art. 1588 c.c. prevede che “Il conduttore risponde della perdita e del deterioramento 1592 comma 2 della cosa che avvengono nel corso della locazione, anche se derivanti da incendio 1611, qualora non provi che siano accaduti per causa a lui non imputabile 1218 ss., 1256 ss., 2281“;
  • che “Il presupposto della responsabilità ex 1588 c.c. è la sussistenza di un rapporto di locazione, e dunque di custodia sul bene, essendo prevista la presunzione di responsabilità in capo al conduttore per i danni derivanti dall’incendio (Cass. Civ., Sez. 3, Sentenza n. 15721 del 27/07/2015 ). In altre parole, è necessaria la prova del rapporto di custodia, in quanto, come sottolineato nella giurisprudenza di merito “La norma invocata (art. 1588  c.c.) è collocata immediatamente dopo l’art. 1587  c.c. disciplinante le obbligazioni del conduttore, tra le quali rientra, in virtù della disponibilità materiale del bene che si acquista per effetto del rapporto locatizio, anche quella accessoria di custodia del bene stesso” (Corte appello Reggio Calabria, sez. I, 07/02/2022, n. 101; D.). Pertanto, affinchè possa trovare applicazione la presunzione di responsabilità prevista nella norma citata, è necessaria la prova che i fatti si siano verificati nell’immobile posto sotto la custodia del conduttore. Detto elemento, nel caso di specie, è pacifico, essendo accertato che l’incendio si sia originato nella porzione di immobile post o sotto la custodia di parte convenuta”.
  • che, nel caso di specie, ancorchè “la causa dell’incendio non è stata individuata con certezza dalle autorità, tuttavia sussistono elementi sufficienti atti a comprovare con serio grado di probabilità che l’incendio si sia propagato a partire dall’area posta nella disponibilità e sotto la custodia di parte convenuta, con conseguente applicabilità, a suo carico, della presunzione di cui all’ 1588 c.c.”;
  • che in ogni caso “…non è sufficiente che il conduttore non sia stato ritenuto responsabile in sede penale, (reato prescritto) perché ciò non comporta di per sé l’identificazione della causa, ma occorre che questa sia nota e possa dirsi non addebitabile al conduttore” ( Civ., Sez. 3, Sentenza n. 11972 del 17/05/2010) e ciò in quanto “…in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41  cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (Cass. Civ., Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 08/07/2010).

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car-accident-1995852_960_720I fatti di cui è causa

I congiunti ed eredi di due giovani, morti a seguito di un incidente stradale, convenivano in giudizio il conducente della vettura – che, invadendo la loro corsia di marcia, ne aveva causato la morte – unitamente alla compagnia assicurativa, al fine di vedersi condannati in solido al risarcimento dei danni, dagli stessi quantificati in € 1.650.000,00.

Il Tribunale di Cuneo, investito della questione, pur ritenendo accertata la responsabilità esclusiva del conducente convenuto, a seguito dell’acquisizione delle risultanze della C.T.U. svolta nel giudizio penale:

  • riconosceva, in applicazione delle Tabelle di Milano l’importo di € Euro 200.000,00 ai genitori delle vittime, l’importo di € 80.000 in favore della sorella, l’importo di € 4.000 iure hereditatis per danni alla moto condotta dai ragazzi, nonché l’importo di circa € 120.000,00 quale danno non patrimoniale iure proprio subito da un altro congiunto delle vittime, accertato iure proprio, accertato con la CTU (Euro 119.781,67);
  • negava tuttavia la liquidazione del danno tanatologico iure hereditatis in favore dei congiunti di una delle due vittime;
  • negava ai congiunti il danno patrimoniale da perdita delle contribuzioni reddituali dei figli defunti.

La Corte d’Appello, in parziale accoglimento del gravame proposto dagli eredi di una delle due vittime, condannava i convenuti al pagamento di ulteriori € 3.000,00 per danni patrimoniali (spese funeratizie) oltre interessi e spese di lite.

Il ricorso per cassazione

Gli eredi, tuttavia, non si davano per vinti, ricorrendo sino in Cassazione, lamentando il mancato riconoscimento, nei primi due gradi di giudizio, del danno morale soggettivo. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, i giudici di merito, pur applicando il criterio della c.d. “…omnicomprensività ed unitarietà del risarcimento del danno non patrimoniale, finalizzato ad evitare duplicazioni”, non avevano riconosciuto e dato “…adeguata protezione per ciascuna delle lesioni prodotte alla sfera della persona”.

La decisione della Suprema Corte

La III^ sezione della Corte di Cassazione, investita della questione, reputa fondata censura, alla stregua della seguente condivisibile argomentazione:

  • “…l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.)”;
  • “[L]a natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale (…) dev’essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di compiuta istruttoria, a un accertamento concreto e non astratto del danno, a tal fine dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni”.
  • “…[N]el procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve dunque tenere conto da una parte dell’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. in motivazione) e, dall’altra, del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni, come modificati dalla 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, la cui novellata rubrica (titolata “danno non patrimoniale”, in sostituzione della precedente “danno biologico”), e il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale”;
  • “[N]e deriva che il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sè, della paura, ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato a incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto)”.
  • “[L]a misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme (…) può essere poi aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e affatto peculiari…”.
  • “[L]a liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (Cass., 20/04/2016, n. 7766).

Ad avviso della Suprema Corte, inoltre, “…se è vero che di tali componenti occorre dare la prova, si può ritenere che, rispetto alla morte di un figlio e di una figlia, entrambi in giovane età, appartenga al notorio l’esistenza di un danno soggettivo patito dai congiunti in tutte le sue componenti.”.

Gli ermellini, pertanto, in accoglimento di tale motivo di ricorso, hanno cassa la sentenza e rinviato alla Corte d’Appello competente.

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[:it]car-accident-1995852_960_720Tra i danni di cui si chiede usualmente il risarcimento, in conseguenza di un incidente stradale, si annovera il c.d. danno “da fermo tecnico” o “da sosta tecnica”, consistente tanto nella perdita economica conseguente alla necessità di procacciarsi un veicolo sostitutivo, quanto nel mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che si sarebbero potuti conseguire attraverso l’uso del mezzo.

Il risalente e superato orientamento della Suprema Corte

La giurisprudenza più risalente – ex multis Cass. 23/06/1972, n°2109; Cass. 14/12/2002, n°17963; Cass. 13/07/2004, n.12908; Cass. 09/11/2006, n°23916; Cass. 08/05/2012, n°6907; Cass. 19/04/2013, n°9626; Cass. 04/10/2013, n°22687; Cass. 26 giugno 2015, n°13215), a riguardo, riteneva detto danno in re ipsa, ovvero sussistente a seguito della mera indisponibilità del veicolo, anche a prescindere dall’uso effettivo cui la vettura era destinata, con la conseguenza:

  • di esonerare il richiedente dalla specifica e concreta dimostrazione del pregiudizio economico subito;
  • di consentire la liquidazione in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., del predetto danno.

Il revirement degli Ermellini

Negli ultimi tre anni, tuttavia, la Suprema Corte, a partire dalla celebre sentenza n°20620 del 14 ottobre 2015, ha mutato il proprio indirizzo chiarendo come il danno da fermo tecnico non possa qualificarsi, come avvenuto in precedenza, quale danno in re ipsa, e onerando conseguentemente colui che agisca al fine di ottenere il predetto risarcimento dell’allegazione, dimostrazione e quantificazione della perdita subita dal suo patrimonio.

Dette conclusioni sono state recentemente ribadite dalla Suprema Corte con sentenza 11 aprile – 31 maggio 2017, n°13718, alla luce delle seguenti condivisibili motivazioni.

La non configurabilità di un danno in re ipsa

Partendo dallo stesso concetto di danno in re ipsa, la Cassazione chiarisce come detta nozione sia “…estranea al nostro ordinamento che subordina il risarcimento alla sussistenza di un concreto pregiudizio della sfera giuridica patrimoniale o non patrimoniale del richiedente”.

A ciò consegue l’onere in capo a colui che asserisca di aver subito in concreto il danno, di comprovarlo debitamente.

La quantificazione del danno

Gli ermellini, passando poi alla quantificazione del danno, affermano che:

  • la liquidazione equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è “…consentita soltanto a condizione che sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile dimostrare, nel suo preciso ammontare, il danno di cui è peraltro provata con certezza la sussistenza (tra le più recenti, Cass. 08/01/2016, n°127 e Cass. 28/12/2016, n°27183)”;
  • l’orientamento pregresso riteneva – attraverso un’applicazione distorta dell’art. 1226c. – automatico il danno determinato dalla sosta forzata del veicolo, individuandolo “…nelle spese necessariamente sostenute dal proprietario del veicolo incidentato per il pagamento del premio di assicurazione e della tassa di circolazione”;
  • in verità dette voci non possono costituire un danno né essere liquidate in via equitativa in quanto “…bollo di circolazione è ormai una tassa di possesso da pagarsi indipendentemente dall’utilizzo del mezzo (art°5 d.l°n°955 del 1982, convertito, con modificazioni, nella l°n.53 del 1983) mentre la conseguenza economica negativa derivante dal pagamento del premio assicurativo (comunque non inutile, atteso che il veicolo potrebbe recare danno a terzi anche durante la sosta tecnica) potrebbe essere in concreto evitata dal danneggiato chiedendo la sospensione dell’efficacia della polizza”;
  • parimenti, il precedente indirizzo giurisprudenziale, al fine di qualificare “…il pregiudizio da sosta tecnica quale danno in re ipsa è costretto, non solo ad individuare un nesso di consequenzialità necessaria tra il fermo del veicolo e il suo deprezzamento (nesso evidentemente insussistente, atteso che il deprezzamento è una conseguenza del sinistro e non della successiva sosta tecnica, la quale, al contrario, potrebbe far recuperare valore al mezzo), ma anche a negare rilevanza all’uso effettivo a cui il veicolo in riparazione era destinato, omettendo di considerare che, al contrario, l’uso effettivo del veicolo assume rilievo determinante ai fini della esistenza di un danno risarcibile, non potendosi dubitare, sotto questo aspetto, della differenza intercorrente tra il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato solo per ragioni di svago e il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato per ragioni di lavoro”.

 

Il principio affermato dalla Suprema Corte

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, gli Ermellini cristallizzano il seguente condivisibile principio: “…il danno derivante dall’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per la riparazione, deve essere allegato e dimostrato da colui che ne invoca il risarcimento, il quale deve provare la perdita subita dal suo patrimonio in conseguenza della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (danno emergente) oppure il mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che avrebbe conseguito con l’uso del veicolo (lucro cessante).

 

Alla luce del revirement giurisprudenziale della Suprema Corte e del principio sopraesposto, si può pertanto affermare che il danno da fermo tecnico:

  • non possa considerarsi in re ipsa, con conseguente onere incombente sul danneggiato di allegare e comprovarne l’esistenza, a partire dall’uso effettivo del veicolo e/o dalla spesa sostenuta per procacciarsi un veicolo sostitutivo (in particolare se per ragioni di lavoro);
  • non possa identificarsi con il pagamento del “bollo d’assicurazione”, essendo lo stesso una tassa di possesso da pagarsi indipendentemente dall’utilizzo del mezzo;
  • non possa tantomeno derivare dal pagamento del premio assicurativo, ben potendosi evitare detta conseguenza economica pregiudizievole semplicemente chiedendo la sospensione dell’efficacia della polizza.

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kate-separatedLa rottura del nucleo familiare comporta assai spesso la rideterminazione di equilibri, spazi e ruoli. Questo processo, tuttavia, non sempre avviene armonicamente tra i genitori. Anzi, sin troppo spesso assistiamo nelle aule di Tribunale così come nell’intimità della casa ad ex che, incapaci di elaborare il lutto della fine della propria relazione, tentano in ogni modo di allontanare i figli dai propri ex, screditandoli costantemente ai loro occhi sia come persone che come genitori.

Il Tribunale di Cosenza, di recente, si è occupato dell’ennesimo caso di alienazione parentale, che ha visto coinvolti non solo i genitori e il figlio minore ma anche le rispettive famiglie. La vicenda si snoda all’interno di un giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, durato 3 anni, e vede come protagonista il giovane figlio di una coppia divorzianda che manifesta una forte ostilità nei confronti della madre, a cui fa da contrappeso un rapporto para-simbiotico con la figura paterna.

All’esito della ctu disposta, gli specialisti evidenziavano un avanzato processo di alienazione della figura materna, rinvenendone le radici nella costante opera di svilimento operata dal marito e della sua famiglia di origine, il tutto alla presenza dello stesso minore. Quest’ultimo, troppo giovane e troppo attaccato al padre per poter avere una sua visione critica ed autonoma, aveva infatti fatto proprie le costanti critiche rivolte alla madre, finendo col disprezzarla immotivatamente e a non volere avere più contatti con la stessa.

Proprio a causa delle risultanze della C.T.U., il Tribunale, il giudice di prime cure ritiene:

  • di dover rigettare la richiesta di affido esclusivo del bambino al padre, avanzata da quest’ultimo, non essendo la relativa domanda sorretta da “valide motivazioni circa l’idoneità genitoriale della resistente” ed avendo il padre manifestato una grave inidoneità genitoriale, derivante dalla sua incapacità a preservare e garantire “…la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore” (in senso conforme, Corte di Cassazione, sez. I^ Civile, sentenza n°6919/16), tale da rischiare di determinare un’ulteriore marginalizzazione della figura materna agli occhi del minore;
  • di non poter disporre tantomeno l’affido esclusivo del bambino alla madre, peraltro non richiesto dalla stessa, in quanto, non “… pronta, in ragione dei tratti caratteriali e temperamentali ben delineati dalla ctu e dalla oggettiva problematicità dell’attuale dinamica relazionale con il figlio, ad assumersi le correlate responsabilità ….”;
  • di dover escludere altresì la prosecuzione del regime dell’affidamento condiviso, in considerazione dell’assenza di risultati positivi durante i tre anni di giudizio, nonché della “…incapacità dei genitori di gestire il conflitto personale con modalità idonee a preservare l’equilibrio psichico del figlio…”;
  • di non poter disporre l’affido del minore tantomeno ai membri delle rispettive famiglie di origine, non avendo i genitori fornito l’indicazione di “…persone affettivamente vicine al minore in grado di assumere la responsabilità dell’affidamento e di svolgerne i compiti mantenendo una posizione equidistante rispetto alle due figure genitoriali”.

In conclusione, pertanto, il Giudice ritiene percorribile unicamente la via dell’affidamento del bambino ai Servizi Sociali, con collocamento prevalente presso la casa paterna, sulla scorta del seguente ordine di motivi:

  • pur in assenza di un’espressa previsione legislativa, il giudice ha il potere-dovere di disporre tale forma di affidamento, rientrando la stessa nei provvedimenti che il giudice ha il potere-dovere di adottare, ai sensi dell’art. 337-ter, co. 1 c.c. “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”;
  • l’affido ai servizi sociali appare l’unica via percorribile al fine anche di monitorare costantemente i rapporti tra i genitori e con il figlio, favorendo un progressivo riequilibrio degli stessi;
  • nonostante in astratto il rimedio da adottarsi in caso di alienazione parentale consista nell’immediato “allontanamento del minore dal genitore alienante”, purtuttavia, la giovanissima età del minore rende in concreto tale rimedio impercorribile, con conseguente necessità di confermare il prevalente collocamento dello stesso presso la casa paterna.

Da ultimo, il Tribunale decide altresì di ammonire il padre ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. nonché di condannarlo al risarcimento dei danni endofamiliari causati tanto al diritto del figlio alla bigenitorialità quanto al diritto della madre ad intrattenere rapporti continuativi e costanti con quest’ultimo, quantificati in via equitativa in € 5.000,00 cadauno, sulla “della condizione di disagio psichico in cui versa il minore, della durata della emarginazione della figura materna, delle presumibili sofferenze patite dalla (madre) per il distacco fisico ed emotivo dal figlio, e, per altro verso, della già evidenziata concorrente responsabilità di quest’ultima…”.

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[:it]damageLa Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°20024/16, si è pronunciata su un’ingente richiesta di risarcimento presentata dai proprietari di un immobile, adibito a scuola, locato originariamente al Comune di Frattamaggiore, nel cui contratto era stato successivamente subentrata la Provincia di Napoli.

La vicenda trae origine del ricorso per cassazione presentato dagli stessi proprietari avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, con cui i giudici partenopei avevano condannato la provincia di Napoli ad un importo notevolmente inferiore a quello richiesto, dichiarando inammissibile “…la domanda degli eredi (OMISSIS) contro il Comune di Frattamaggiore, sul rilievo che l’estensione della domanda del (OMISSIS) nei confronti del Comune, formulata all’udienza di conclusioni da’ primo grado, era tardiva” e condannando il Comune a rimborsare alla conduttrice cessionaria il 50% di quanto questa avesse dovuto pagare.

La Corte, investita della questione, chiarisce il seguente principio, già espresso con sentenza del 1 giugno 2004, n°10485: “in materia di risarcimento del danno arrecato alla cosa locata, in caso di cessione del contratto di locazione, ferma la responsabilità solidale del conduttore cedente e del cessionario nei confronti del locatore, nell’ambito dei rapporti interni tra i vari conduttori, il debito va ripartito secondo il criterio dell’imputabilità, salvo che per i deterioramenti per i quali non sia possibile accertare a quale dei debitori solidali siano imputabili; in tal caso le parti del debito solidale si presumono uguali tra i conduttori”. Cass. Sentenza n. 10485 del 01/06/2004”.

Gli ermellini, poi, richiamando una sua successiva sentenza, n°9846 del 2007, con la quale era stata chiarita la natura non già solidale, bensì sussidiaria, della responsabilità del cedente, “…una volta che il locatore si sia inutilmente rivolto al cessionario inadempiente”, affermano che l’accertata natura sussidiaria della suddetta responsabilità non incide sulla valenza del“… principio secondo il quale, in caso di cessione del contratto di locazione ai sensi della L. n. 392 del 1978, articolo 36, nei confronti del locatore che non abbia liberato il cedente, anche quest’ultimo risponde dell’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto, salvo il beneficium ordinis nel senso chiarito da Cass. n. 9486 del 2007”.

La Suprema Corte, applicando detti principi al caso concreto, non avemte ad oggetto problematiche relative al beneficium ordinis, rigetta il ricorso ritenendo incensurabile l’operato dei giudici partenopei, i quali avevano correttamente applicato il principio di imputabilità al fine di ripartire la responsabilità per danni tra conduttore cedente e cessionario.[:]

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Risultati immagini per immagine infidelityNell’accertamento dell’addebito, il Giudice deve tenere in considerazione tutte le circostanze che hanno condotto alla crisi familiare, di talchè non solo non sono sufficienti episodiche violazioni di singoli doveri coniugali, ma, anche in caso dio trasgressioni reiterate, occorrerà in ogni caso accertare in quale contesto le stesse siano maturate, valutando le intese e i compromessi progressivamente raggiunti dai coniugi nel corso della vita matrimoniale, il loro sistema di valori e i comportamenti reciproci. A tale valutazione comparativa la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di sottrarre soltanto i comportamenti violativi dei doveri coniugali così gravi da comportare in re ipsa non soltanto la sussistenza del nesso di causalità, ma anche una presunzione non superabile di intollerabilità, quali (…) percosse o reiterate violenze a danno del coniuge o dei familiari, che violano diritti fondamentali della persona dotati di copertura costituzionale (Cass. Civ. nn. 1510/2004; 7321/2005; 5379/2006; 8548/2011).

Con specifico riguardo poi alla violazione dell’obbligo di fedeltà, accanto ad una corrente giurisprudenziale tesa a riconoscere la sussistenza in re ipsa del nesso di causalità, con inversione dell’onere della prova a favore del coniuge tradito (Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 25618/2007),  un contrapposto indirizzo  afferma che nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o colpe dell’altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto inviolabile di libertà riconducibile all’art. 2 Cost., ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione ovvero, se ne sussistono i presupposti, direttamente di divorzio … se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall’ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione fra i coniugi.

Una recente decisione della Corte Suprema (15 settembre 2011 n. 18853), prendendo le mosse da caso di una richiesta risarcitoria avanzata autonomamente da un coniuge nei confronti dell’altro conseguente alla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, sebbene fra gli stessi fosse intervenuta separazione consensuale, ha affermato che “i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi di dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza che la mancanza della pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni” .

Il presupposto da cui muove la citata pronuncia è che all’interno del rapporto coniugale la violazione di diritti della persona costituzionalmente protetti, quali la salute, l’immagine, la riservatezza, le relazioni sociali, la dignità del coniuge, e via dicendo possa trovare tutela indipendentemente dal fatto generatore della loro stessa lesione, come se la separazione dei coniugi, in conseguenza della quale la pretesa risarcitoria viene invece azionata, fosse avulsa dalla violazione degli specifici doveri che hanno determinato il venir meno della convivenza tra costoro.

Di diverso avviso il Tribunale Civile di Roma,  che con sentenza 25 giugno 2015, afferma che detto principio non è invocabile nel caso in cui  la violazione dei suddetti doveri venga invocata dal coniuge asseritamente leso a seguito della separazione e dunque dell’accertata improseguibilità della convivenza a seguito di una condotta che avrebbe, a detta dello stesso danneggiato, inequivocabilmente causato la rottura del consortium familiae.

E’ proprio lo specifico collegamento tra causa ed effetto, implicito nella stessa domanda risarcitoria, a far si che la violazione dei suddetti doveri assuma rilevanza in quanto sia stata determinante dell’improseguibilità della convivenza, ove si consideri che diversamente opinando si verrebbe a rinnegare l’essenza stessa del vincolo matrimoniale, fondato sulla libertà non solo del consenso iniziale, ma anche della sua permanenza nel prosieguo del rapporto.

In altri termini il danno non patrimoniale in tanto può essere invocato in quanto sia stato conseguenza della separazione coniugale posto che l’illecito si consuma all’interno del rapporto matrimoniale, che quand’anche non avente natura meramente contrattuale, è pur sempre il vincolo da quale discendono gli specifici obblighi e diritti reciproci in capo ai contraenti.

Pertanto ove si escludesse il rapporto di accessorietà tra addebito e domanda risarcitoria verrebbe necessariamente meno l’ingiustizia del danno derivante dalla condotta che è stata foriera, proprio perché posta in essere in violazione degli specifici obblighi derivanti dal matrimonio, del mutamento dello stesso rapporto di coniugio: l’accertamento che non vi è stata violazione dei doveri nascenti dal matrimonio o che l’inosservanza di essi si è innestata in un rapporto già esaurito non può infatti non escludere alla radice la sussistenza del danno ingiusto sul quale si fonda la pretesa risarcitoria.

Peraltro, la proclamata autonomia di quest’ultima rispetto a quella dell’addebito non può non avere innegabili ricadute anche sul piano del dedotto e del deducibile atteso che proprio perché trattasi di danno derivante dalla violazione di specifici obblighi coniugali il medesimo deve essere necessariamente azionato nell’ambito del giudizio di separazione, con conseguente preclusione di un’azione successiva che potrebbe astrattamente porsi in contrasto con il giudicato già in precedenza formatosi sulla separazione.

Del resto, venendo alla disamina dei profili più strettamente processuali, ove il rapporto tra le due domande non potesse porsi in termini di necessaria accessorietà, la conseguenza non potrebbe che essere quella, all’evidenza paradossale, dell’inammissibilità della domanda risarcitoria nell’ambito del giudizio di separazione. Invero configurandosi la connessione per accessorietà in presenza in uno stesso giudizio di due o più obbligazioni che siano tra loro in rapporto di subordinazione o tra le quali sussista un vincolo di consequenzialità logico – giuridica, in forza della quale una delle pretese trovi la sua ragione giustificatrice nell’altra, il giudice non potrebbe che, malgrado la diversità del rito applicabile alla domanda di separazione, assoggettato alla camera di consiglio, e a quella risarcitoria, disciplinata nelle forme del rito ordinario di cognizione, procedere all’esame del risarcimento richiesto nell’ambito dello stesso processo, in applicazione dei principi di economia processuale e del vincolo del giudicato che si estende non soltanto alle questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione e di eccezione e dunque costituenti l’oggetto della decisione, ma anche alle questioni non dedotte in giudizio che costituiscano, ciò nondimeno un presupposto logico – essenziale ed indefettibile della decisione stessa, restando salva soltanto la sopravvenienza di fatti e situazioni nuove verificatesi dopo la formazione del giudicato stesso.

Esclusa pertanto sulla base delle argomentazioni appena esposte l’autonomia della domanda del risarcimento del danno morale azionata dal ricorrente rispetto alla separazione giudiziale, il Tribunale ha concluso per il rigetto della domanda acon compensazione delle spese di lite, stante il contrasto giurisprudenziale.

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download (1)Il Tribunale di Roma, con sentenza n°18799 dell’11 ottobre 2016, si pronuncia sul ricorso per la cessazione civile degli effetti del matrimonio con cui l’ex moglie aveva richiesto altresì l’affidamento esclusivo del figlio minore alla luce dell’acutizzarsi della conflittualità tra i genitori successivamente alla separazione tra gli stessi.

Il Tribunale, pur prendendo atto dell’elevata conflittualità tra i genitori – concretantesi in “…scaramucce di natura ritorsiva, continuativa e certamente reciproca poste in essere dai due coniugi nella gestione della prole…” – ritiene, tuttavia, di confermare il regime di affidamento condiviso già disposto in sede separatizia, alla luce della mancanza di prove circa l’inidoneità genitoriale del padre e, in positivo, del “…radicato attaccamento al padre ed una profonda complicità…”, emersi dall’audizione del minore e dalla CTU espletata.

Ma non è tutto! Il Tribunale procede altresì d’ufficio ex art. 709 ter c.p.c. nei confronti della madre, rea di aver ostacolato “…il funzionamento dell’affido condiviso con gli atteggiamenti sminuenti e denigratori della figura paterna, tali da avere indirettamente indotto (il minore) a disattendere il calendario degli incontri con il padre…”. Interessante risulta la motivazione a fondamento delle sopramenzionate misure. Se da un lato, infatti, il Tribunale riconosce che l’origine del processo di alienazione del figlio nei confronti della figura paterna non tragga origine dai comportamenti materni e che anzi la madre abbia “…lasciato che i ragazzi frequentassero liberamente l’ex coniuge addirittura e delegato al medesimo, come già sopra osservato, il progetto educativo dei minori (…) ciò nondimeno la sig.ra non può ritenersi esente da responsabilità non avendo posto in essere alcun comportamento propositivo per tentare di riavvicinare (il figlio) al padre risanandone il rapporto nella direzione di un sano e doveroso recupero necessario alla crescita equilibrata del minore già gravemente a causa della patologia da cui è affetto sin dalla nascita, ma al contrario continuando a palesare la sua disapprovazione in termini screditanti nei confronti del marito.”

Di qui la condanna d’ufficio della ricorrente:

  • non solo con un ammonimento formale “…invitandosi la ricorrente ad una condotta improntata al rispetto del ruolo genitoriale dell’ex coniuge ed ad astenersi da ogni condotta negativa e denigratoria del medesimo…”;
  • ma anche condannandola al risarcimento del danno nei confronti del resistente, quantificato nell’importo di € 30.000,00, “…al fine di dissuaderla in forma concreta dalla protrazione delle condotte poste in essere”;
  • avvertendola, per giunta, che la persistenza di tale condotta “…potrà peraltro in futuro dare adito a sanzioni ancor più gravi ivi compresa la revisione delle condizioni dell’affido…”.

Di seguito il testo della sentenza:[:]

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