[:it]downloadCon una recente pronuncia, datata 28 settembre 2018, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, hanno ritenuto valida la notificazione eseguita all’indirizzo pec di un collega, risultante dall’Albo professionale di iscrizione, ancorché priva dell’inciso “notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994” nonché dell’indicazione del codice fiscale della parte nel cui interesse era stato notificato il provvedimento giudiziario.

La vicenda in esame

Un’Azienda Sanitaria Provinciale proponeva vittoriosamente opposizione avverso un decreto ingiuntivo con cui il Tribunale di Messina l’aveva condannata al pagamento di una cospicua somma di denaro per delle prestazioni di natura riabilitativa eseguite dalla creditrice, sulla scorta della dedotta operatività per tali prestazioni del sistema della c.d. regressione tariffaria. Detta decisione veniva tuttavia ribaltata in sede di Appello dal giudice di seconde cure, che riconoscendo l’esistenza del credito, confermava l’opposto decreto ingiuntivo. La sentenza della Corte d’Appello veniva notificata all’indirizzo pec del difensore in data 26 giugno 2015.

Il ricorso per Cassazione e l’eccezione di inammissibilità

Avverso detta pronuncia ricorreva per Cassazione l’Azienda Sanitaria Provinciale, “…con procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016”.

La controricorrente costituendosi, eccepiva l’inammissibilità del predetto ricorso, in quanto depositato – in palese violazione del termine di 60 giorni indicato nell’art. 352, co. 2, c.p.c. – a distanza di diversi mesi dalla notificazione della sentenza al procuratore costituito.

I difensori del ricorrente, al fine di impedire la decorrenza del termine “breve” di cui all’art. 352. co. II^ c.p.c., deducevano a loro volta la nullità della predetta notificazione in quanto:

  • l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179”;
  • la notifica sarebbe viziata dall’omessa indicazione del codice fiscale della parte nonché dall’omessa indicazione della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994“.

La validità della notificazione eseguita all’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata dall’avvocato al proprio albo di appartenenza.

Di diverso avviso, tuttavia, sono le Sezioni Unite, ritenendo pienamente valida ed efficace la notificazione eseguita all’indirizzo pec risultante dall’albo professionale, sulla stregua della seguente condivisibile motivazione:

  • il D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale“, espressamente prevede che: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.
  • da un’interpretazione letterale della sopracitata norma, emerge con chiarezza che la stessa “…imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE”;
  • detta interpretazione risulta corroborata da quanto espressamente previsto dall’art. 5 della L. n°53/1994: “… l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”.

L’irrilevanza dei vizi di natura procedimentale qualora non comportino un pregiudizio per la decisione

 

Ad avviso della Suprema Corte non meritano parimenti apprezzamento le ulteriori censure operate dalla ricorrente, relative all’omessa indicazione del codice fiscale e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

Richiamando un proprio recente orientamento (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665) gli Ermellini hanno chiarito, infatti, come in tema di notificazione in via telematica, vada privilegiato il raggiungimento dello “scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata”, con conseguente l’irrilevanza dei vizi di mera natura procedimentale che non comportino “…una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione”.

E tali debbono considerarsi:

  • sia “la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituente una “mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto” (sul punto vedasi anche Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814);

sia “…l’omessa indicazione del codice fiscale (…) dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della n[:]

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car-accident-1995852_960_720I fatti di cui è causa

I congiunti ed eredi di due giovani, morti a seguito di un incidente stradale, convenivano in giudizio il conducente della vettura – che, invadendo la loro corsia di marcia, ne aveva causato la morte – unitamente alla compagnia assicurativa, al fine di vedersi condannati in solido al risarcimento dei danni, dagli stessi quantificati in € 1.650.000,00.

Il Tribunale di Cuneo, investito della questione, pur ritenendo accertata la responsabilità esclusiva del conducente convenuto, a seguito dell’acquisizione delle risultanze della C.T.U. svolta nel giudizio penale:

  • riconosceva, in applicazione delle Tabelle di Milano l’importo di € Euro 200.000,00 ai genitori delle vittime, l’importo di € 80.000 in favore della sorella, l’importo di € 4.000 iure hereditatis per danni alla moto condotta dai ragazzi, nonché l’importo di circa € 120.000,00 quale danno non patrimoniale iure proprio subito da un altro congiunto delle vittime, accertato iure proprio, accertato con la CTU (Euro 119.781,67);
  • negava tuttavia la liquidazione del danno tanatologico iure hereditatis in favore dei congiunti di una delle due vittime;
  • negava ai congiunti il danno patrimoniale da perdita delle contribuzioni reddituali dei figli defunti.

La Corte d’Appello, in parziale accoglimento del gravame proposto dagli eredi di una delle due vittime, condannava i convenuti al pagamento di ulteriori € 3.000,00 per danni patrimoniali (spese funeratizie) oltre interessi e spese di lite.

Il ricorso per cassazione

Gli eredi, tuttavia, non si davano per vinti, ricorrendo sino in Cassazione, lamentando il mancato riconoscimento, nei primi due gradi di giudizio, del danno morale soggettivo. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, i giudici di merito, pur applicando il criterio della c.d. “…omnicomprensività ed unitarietà del risarcimento del danno non patrimoniale, finalizzato ad evitare duplicazioni”, non avevano riconosciuto e dato “…adeguata protezione per ciascuna delle lesioni prodotte alla sfera della persona”.

La decisione della Suprema Corte

La III^ sezione della Corte di Cassazione, investita della questione, reputa fondata censura, alla stregua della seguente condivisibile argomentazione:

  • “…l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.)”;
  • “[L]a natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale (…) dev’essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di compiuta istruttoria, a un accertamento concreto e non astratto del danno, a tal fine dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni”.
  • “…[N]el procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve dunque tenere conto da una parte dell’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. in motivazione) e, dall’altra, del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni, come modificati dalla 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, la cui novellata rubrica (titolata “danno non patrimoniale”, in sostituzione della precedente “danno biologico”), e il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale”;
  • “[N]e deriva che il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sè, della paura, ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato a incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto)”.
  • “[L]a misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme (…) può essere poi aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e affatto peculiari…”.
  • “[L]a liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (Cass., 20/04/2016, n. 7766).

Ad avviso della Suprema Corte, inoltre, “…se è vero che di tali componenti occorre dare la prova, si può ritenere che, rispetto alla morte di un figlio e di una figlia, entrambi in giovane età, appartenga al notorio l’esistenza di un danno soggettivo patito dai congiunti in tutte le sue componenti.”.

Gli ermellini, pertanto, in accoglimento di tale motivo di ricorso, hanno cassa la sentenza e rinviato alla Corte d’Appello competente.

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Risultati immagini per immagine donoVa  dichiarata la simulazione del contratto, dissimulante una donazione nel caso di un contratto di mantenimento, a rogito notarile, con il quale un parte trasferisce all’altra la proprietà di un immobile a fronte dell’impegno di quest’ultima al mantenimento, vita natural durante, della parte trasferente. E ciò in quanto la sproporzione del contenuto economico delle prestazioni gravanti sul vitaliziante rispetto al valore del bene alienato non è sufficiente ad imprimere al negozio carattere di onerosità, anche alla luce del tenore letterale del contratto contenente espressa enunciazione della volutas donandi della cedente, deve ritenersi che il negozio disattende la causa che ostenta, prevalendo lo spirito di liberalità che meglio esprime lo scopo pratico perseguito dalle parti, con la conseguenza che le parti hanno voluto stipulare una donazione, al più modale .

Tribunale Roma – Sezione VIII^ – G.I. dott Luparelli

sentenza 30 marzo 2018  n. 3713

Ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., Banca …. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la debitrice e il beneficiario, per sentire accogliere la domanda di simulazione o, in subordine, di inefficacia ex art. 2901 c.c., del contratto di mantenimento concluso il 17 febbraio 2011 (atto a rogito omissis) con il quale la debitrice, disperdendo le garanzie patrimoniali della creditrice, trasferiva al beneficiario la proprietà dell’immobile sito in Roma omissis (identificato in atti), a fronte dell’impegno di questi al mantenimento, vita natural durante, della debitrice, riservando per sé il diritto di abitazione.  Deduceva infatti la banca di essere creditrice della cliente debitrice, in proprio e quale erede del marito, per la somma di E 1.258.863,69 oltre interessi e spese, in forza della sentenza n. 16218 emessa dal Tribunale di Roma il 19.07.2012 (all.to 5 prod. attrice) con cui la debitrice veniva condannata al pagamento di detta somma in qualità di garante per crediti vantati dall’odierna attrice nei confronti della società, giusta fideiussione prestata in data 22.12.1997 e aumentata in data 26.05.1998 (all.to 6 prod. attrice); tale sentenza, impugnata dalla debitrice, veniva sospesa nella sua efficacia esecutiva dalla Corte di Appello nella parte in cui condannava la parte soccombente a pagare una somma superiore ad Euro 314.715,92 (all.to 7 prod. attrice).
Si costituivano i convenuti, contestando entrambi, oltre al merito della pretesa attorea, l’inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura in capo all’avv. nonché per difetto di legittimazione attiva. Disposto il mutamento del rito e concessi i termini di cui all’art. 183, comma VI c.p.c., all’udienza del 07.12.2017 la causa veniva trattenuta per la decisione, con deposito di comparse conclusionali e repliche ai sensi dell’art. 190 c.p.c.
Vanno rigettate le eccezioni preliminari sollevate dai convenuti.
Con riferimento alla prima eccezione riguardante la validità della procura rilasciata all’avv……, i convenuti sostengono che manchi in atti la prova della rappresentanza sostanziale circa l’oggetto della presente controversia in capo al amministratore delegato della banca, il quale avrebbe conferito procura ad lites non già in qualità di consigliere di amministrazione delegato, ma in attuazione della delibera del Comitato esecutivo (verbale n. 196 dell’8 novembre 2012), la quale disponeva il conferimento di “nuova procura generale alle liti”, tra gli altri, all’avv. (all.to 3 prod. attrice) ma non conferiva all’amministratore i necessari poteri sostanziali riferiti all’oggetto di cui è causa.
Tale doglianza è infondata. Risulta ex actis che il sig. omissis, proprio in qualità di consigliere delegato e legale rappresentante p.t. della banca., abbia conferito procura generale ad lites per atto Notaio omissis in data 17.01.2013 , “per conto e nell’interesse della società, ed in esecuzione della deliberazione del Comitato esecutivo della società stessa”, risultando così avere anche rappresentanza sostanziale ex art. 2266 c.c. Inoltre, trattandosi di procura generale, non hanno rilievo le discrepanze nella elencazione dei poteri tra procura alle liti e verbale del comitato esecutivo, avendo tali elenchi carattere meramente esemplificativo.
Passando alla seconda eccezione, i resistenti rilevano che l’attrice non abbia fornito prova della propria qualità di creditrice, non avendo documentato la vicenda che l’ha resa tale ovvero la cessione dello specifico credito oggetto di causa tra quelli che pervennero in blocco alla società alfa, dalla stessa poi incorporata. Anche questa doglianza risulta infondata per tabulas. L’odierna attrice ha prodotto tutta la documentazione relativa, da un lato, alla successione a titolo particolare nei crediti originariamente vantati dalla società beta da parte della società alfa
Nel merito, la domanda di parte attrice, volta alla dichiarazione del carattere simulato del contratto di mantenimento concluso tra le parti convenute, merita accoglimento.
Invero, il contratto di mantenimento consiste in un accordo aleatorio con cui una parte si obbliga, quale corrispettivo del trasferimento di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale, a fornire alla parte cedente prestazioni alimentari o assistenziali vita natural durante. Connotato indefettibile è dunque l’aleatorietà, in assenza della quale il contratto è nullo per mancanza di causa. Si tratta di un’alea doppia poiché l’incertezza riguarda sia la vita del beneficiario, sia l’entità delle prestazioni a favore dello stesso, non predeterminabili al momento della stipula del contratto poiché dipendenti dal susseguirsi dei bisogni del beneficiario. In tal senso, l’alea presuppone una situazione di obiettiva incertezza sui vantaggi e i sacrifici reciprocamente derivanti alle parti dalle prestazioni assunte sicché, in un giudizio volto a verificare l’effettiva ricorrenza di tale negozio, l’eventuale sproporzione fra il valore acquisito dal vitaliziante (il trasferimento della proprietà dell’immobile) rispetto all’importo delle prestazioni da corrispondere per la probabile durata della vita del vitaliziato, deve indurre il giudice di merito ad escludere l’aleatorietà del contratto (ex multis Cassazione civile, sez. II, 31.01.2017, n. 2522).
Orbene, nel contratto di mantenimento versato in atti (avente forma di atto pubblico con la b presenza di due testimoni), dopo una compiuta esposizione del regolamento contrattuale, informato expressis verbis al suo carattere aleatorio, e l’esatta enunciazione delle obbligazioni di assistenza e mantenimento a favore della beneficiaria, si conviene espressamente che “la debitrice dichiara che è sua volontà ritenere l’effetto traslativo del presente atto comunque in capo al cessionario indipendentemente dalla proporzione o meno della prestazione di dare rispetto alla controprestazione di ricevere in relazione alle aspettative di vita e del bisogno, in quanto è da riconoscersi al presente atto la volontà di mantenere detto effetto traslativo in favore del cessionario- in ogni caso- a titolo di donazione, secondo la comune volontà dei contraenti”.
Questa disposizione induce ad una doverosa rilettura dell’intero assetto negoziale come appare prima facie, nell’ottica di ricercare l’intento pratico realmente perseguito dalle parti, id est la causa in concreto del negozio.
Per insegnamento costante in tema di interpretazione del contratto, l’art. 1362 c.c. impone di ricostruire in primo luogo la volontà delle parti: per far ciò occorre muovere dal testo contrattuale, ma anche verificare se questo sia coerente con la causa del contratto, le dichiarate intenzioni delle parti, e le altre parti del testo, né può il giudice sottrarsi a tale duplice indagine allegando una pretesa chiarezza del significato letterale del contratto, né tanto meno può limitarsi a prendere in considerazione una sola clausola (rectius, solo una parte di essa), senza inserirla nel corpo del testo contrattuale. Dal punto di vista logico, l’interpretazione del contratto non è dunque un percorso lineare ma un percorso circolare, il quale impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se l’ipotesi di “comune intenzione” ricostruita in base al testo sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (cfr. Cass., 3 n. 9380/2016 Cass. n. 25840 del 2014).
Ebbene, nel caso in esame non è possibile ravvisare nel negozio concluso tra le parti l’aleatorietà tipica del contratto di mantenimento: da un lato, la clausola inserita nel contratto, da leggersi come una sorta di “interpretazione autentica” tra le parti che getta luce sul resto del negozio, infirma chiaramente la causa del vitalizio assistenziale; dall’altro, la condizione personale delle parti al tempo della conclusione del negozio nonché lo squilibrio tra il valore del cespite rispetto a quello delle prestazioni fanno presumere che la comune intenzione delle parti sia stata quella di configurare sin dall’inizio una donazione. Infatti, risulta in primo luogo mancare la condizione della obiettiva incertezza, all’epoca della stipula del contratto, della durata della vita e delle esigenze assistenziali del vitaliziato, considerata la potenziale durata della vita della disponente (allora ottantenne), per giunta invalida totale. Proprio quest’ultima circostanza, se da un lato rende più gravose le esigenze assistenziali della beneficiaria, dall’altro non vale a giustificare la sproporzione derivante dal trasferimento di un immobile del valore di circa 200.000,00 euro, considerando che la debitrice percepisce dal 2009 relativa pensione di invalidità di circa 1.300,00 euro mensili. Inoltre, se è vero che le condizioni personali dell’obbligato, quasi coetaneo della beneficiaria e residente a notevole distanza da quest’ultima, non ostano all’adempimento delle sue obbligazioni per il tramite di terzi, certamente, nel quadro complessivo della vicenda, rendono meno convincente la sussistenza del contratto di mantenimento, ritenuto per di più dalle parti, un contratto oneroso in adempimento di un debito scaduto di cui però non risulta prova, specie nel contratto, ove, di contro, si fa riferimento all’ animus donandi. Pertanto, atteso che la segnalata sproporzione del contenuto economico delle prestazioni gravanti sul vitaliziante rispetto al valore del bene alienato non è sufficiente ad imprimere al negozio carattere di onerosità, anche alla luce del tenore letterale del contratto contenente espressa enunciazione della voluntas donandi della cedente, deve ritenersi che il negozio contestato disattende la causa che ostenta, prevalendo lo spirito di liberalità che meglio esprime lo scopo pratico perseguito dalle parti, con la conseguenza che, nella specie, le parti hanno voluto stipulare una donazione, al più modale, da considerare valida perché conclusa dinanzi a un notaio e alla presenza di testimoni, quindi secondo la forma prescritta per le donazioni (art. 48 legge notarile).
Tanto detto in ordine alla natura del contratto, anche l’actio pauliana risulta utilmente esperita.
L’attrice ha dato prova dell’esistenza del credito, presupposto dell’azione ex art. 2901 c.c., dell’atto di disposizione, nonché dell’eventus damni richiesto dalla norma.
Il credito e l’esistenza dell’atto dispositivo risultano provati documentalmente; il credito, inoltre, preesiste rispetto all’atto oggetto di causa, essendo l’esposizione della garante risalente agli anni 1997 e 1998.
Invero, le parti convenute contestano la qualità di creditore della banca evocando le ragioni che oggi hanno portato la debitrice a spiegare appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma che la condannava al pagamento della somma per la quale l’attrice agisce in revocatoria.
Tuttavia, questo profilo qui rileva nella sola misura in cui la domanda revocatoria sia prospettabile anche per far valere un credito litigioso.
Al riguardo, è principio consolidato quello per cui l’art. 2901 c.c. ha accolto una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità, sicché anche il credito eventuale, nella veste di credito litigioso, è idoneo a determinare – sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione in separato giudizio sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito- l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore (ex multis Cassazione civile, sez. III, 07.03.2017 n. 5618).
Quanto all’eventus danni, è del pari pacifico in giurisprudenza che ai fini dell’integrazione del fatto costitutivo (oggettivo) dell’azione revocatoria, non è necessario che l’atto abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, ma è sufficiente che abbia causato maggiore difficoltà od incertezza nel recupero coattivo, secondo una valutazione operata ex ante, con riferimento alla data dell’atto dispositivo, avuto riguardo anche alla modificazione qualitativa della composizione del patrimonio. Il che comporta che laddove intervenga un atto di disposizione immobiliare, la variazione qualitativa del patrimonio integra la sussistenza del presupposto oggettivo dell’azione proposta (Cass. Civ., sez. I, 1 agosto 2007, n. 16986). Passando ai profili concernenti la scientia damni del debitore, trattandosi di atto a titolo gratuito posteriore al sorgere del credito, è sufficiente la semplice conoscenza nel debitore del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore.
E pacifico che la debitrice conoscesse la propria esposizione creditoria nei confronti dell’attrice e fosse consapevole del pregiudizio che l’atto avrebbe arrecato al creditore, stante al tempo della conclusione dell’atto, l’ordinanza ingiunzione di pagamento ex art. 186 ter e 641 c.p.c. emessa dal Tribunale di Roma in data 07.10.2010 per la somma di E 1.258.863,69 oltre interessi e spese (giudizio recante R.G. n. omissis/2006), poi confermata per la debitrice con la sentenza del 19 luglio 2012, r.g omissis/12.
Tutto quanto premesso, la domanda ex art. 2901 c.c. va pertanto accolta nei confronti della banca Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
a. Dichiara la simulazione del contratto di mantenimento stipulato in data 17.02.2011 tra la debitrice e il beneficiario, con atto a rogito del notaio registrato a Padova 2, in data 17.02.2011 al n. serie 1T dissimulante una donazione.
b. Dichiara l’inefficacia ex art. 2901 c.c. nei confronti della banca, del contratto stipulato in data 17.02.2011, sopra richiamato;
Ordina al Conservatore dei Registri immobiliari di Roma di annotare la sentenza a margine della trascrizione dell’atto indicato;
Condanna i convenuti in solido al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in euro E 15.444,50 per spese, compensi professionali e accessori come per legge.
Roma, 21 marzo 2018
Depositata in cancelleria il 30/03/2018.

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teacher-and-studentEpisodi di bullismo e di violenza tra studenti e insegnanti sono aimè sempre più frequenti non solo nella cronaca quotidiana ma anche nelle aule di Tribunale. Di recente la Corte di Cassazione pronunciandosi su un delicato giudizio originato dal ricorso presentato da una docente – vittima di una serie di infanganti ed infondate diffamazioni da parte del padre di un suo alunno – ha colto detta occasione per inviare un importante monito non relegabile al solo mondo giuridico.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine, nel lontano 1998, da un ricorso con cui un’insegnante di una scuola elementare toscana conveniva dinnanzi al Tribunale di Pisa il padre di un suo alunno al fine di ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla “…condotta gravemente diffamatoria ripetutamente tenuta dal convenuto nei suoi confronti”, il quale, oltre ad averle data del “mostro” nel corso di una riunione, aveva inviato numerose lettere in cui l’accusava di gravi comportamenti nei confronti dei suoi alunni. In particolare, a seguito di dette azioni, la stessa docente era stata sottoposta a valutazione psichiatrica medico-legale, a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 572 e 582 c.p. dal Procuratore della Repubblica di Pisa (reati da cui è stata successivamente assolta, con piena formula, per insussistenza del fatto) nonché alla misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio. Il clamore mediatico, conseguente alle predette accuse, aveva poi spinto i suoi superiori a disporne il trasferimento d’ufficio in altra sede.

La domanda attorea veniva tuttavia rigettata in primo grado per carenza di prova in merito al “comportamento illecito, lesivo della reputazione dell’attrice, attribuito al convenuto” e confermata nel successivo grado d’appello dalla Corte territorialmente competente, la quale dichiarava l’insegnante decaduta dalla prova per testi a seguito della loro omessa intimazione in primo grado.

Il ricorso per cassazione

L’insegnante, lungi dal darsi per vinta, ricorreva avverso la decisione della Corte d’Appello sino in cassazione eccependo inter alia l’illegittimità della dichiarazione di decadenza dall’assunzione dei mezzi di prova sulla scorta delle seguenti motivazioni:

  • In caso di omessa intimazione dei testimoni ad opera della parte interessata, difatti, affinchè il giudice possa legittimamente dichiararla decaduta dalla relativa prova, sarebbe necessario, da un canto, che l’omessa intimazione sia eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce l’inattività, e, dall’altro, che tale udienza non sia di mero rinvio”;
  • di contro, nel caso di specie, “…non ricorrerebbe nessuna delle suddette condizioni: 1) l’udienza nella quale vi era stata la mancata intimazione dei testimoni era stata tenuta non dal giudice titolare del procedimento, bensì da un G.O.T., e pertanto celebrata al solo scopo di procedere ad un mero rinvio officioso della causa; 2) la controparte, nella medesima udienza, non aveva sollevato alcuna eccezione di decadenza”.

La Suprema Corte, riconoscendo la fondatezza della tesi della ricorrente, afferma due importanti principi.

In primis che: “…la mancata intimazione dei testi non comporta la decadenza dal diritto di assunzione della prova tutte le volte che la relativa udienza abbia avuto il solo scopo di rinviare ex officio la causa (nella specie, per assenza del giudice istruttore titolare del procedimento)” alla luce della seguente condivisibile argomentazione:

  • L’art. 104 disp. att. c.p.c., comma 1 nell’attuale formulazione (applicabile ai giudizi instaurati dopo la data di entrata in vigore della  18 giugno 2009, n. 69), prevede che “se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara, anche d’ufficio, decaduta dalla prova, salvo che l’altra parte dichiari di avere interesse all’audizione“;
  • prima della modifica legislativa esistevano due opposti orientamenti interpretativi del testo previgente, che recitava “se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara decaduta dalla prova“;
  • di questi, deve ritenersi preminente l’orientamento ad avviso del quale “…la norma andrebbe interpretata nel senso che il giudice dichiara la decadenza di ufficio, senza necessità di preventiva istanza della controparte, dovendosi, per ragioni di coerenza, ritenere applicabile a tale ipotesi lo stesso meccanismo previsto dall’art. 208 c.p.c.per l’ipotesi di non comparizione del difensore che ha intimato i testi.. 24/11/2004, n. 22146,13-08-2004, n. 15759, 09-081997, n. 7436, affermano che la sanzione di decadenza dalla prova di cui all’art. 104 disp. att. c.p.c. è predisposta non per ragioni di ordine pubblico ma nell’interesse delle parti, e la norma in esame, da interpretarsi in coordinazione sistematica con l’art. 250 c.p.c., deve essere intesa nel senso che la decadenza dalla prova, nel caso di omessa citazione dei testi, senza giusto motivo, per l’udienza fissata per il raccoglimento della prova, deve essere pronunziata quando tale omissione venga posta in essere in relazione all’udienza nella quale la prova deve essere assunta e deve essere eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce la inattività, che ne costituisce il presupposto di fatto, salvo che sussista un valido motivo per rinviare all’udienza successiva la proposizione dell’eccezione”.

La Suprema Corte, poi, riconoscendo la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. 5.3, afferma il seguente principio di diritto: “al cospetto di una pluralità di fatti storici, ciascuno portatore di una propria, singola valenza indiziaria, il giudice non può procedere alla relativa valutazione attraverso un procedimento logico di scomposizione atomistica di ciascuno di essi, per poi svalutarne, singolarmente e frammentatamente, la relativa efficacia dimostrativa”.

Nel caso di specie, gli Ermellini censurano il decisum del giudice di appello, ritenendo che qualora gli il giudice dell’impugnazione avesse di contro correttamente operato una “…valutazione necessariamente diacronica e complessivamente sintetica dei fatti di causa…” dalla stessa sarebbe emerso “…che la condotta denigratoria ascritta all’odierno resistente ebbe diacronicamente a dipanarsi attraverso una serie di atti e comportamenti univocamente e pervicacemente intesi a ledere l’onore, il prestigio e la stessa dignità dell’insegnante”, con conseguenze gravissime sull’insegnante, senza che dette azioni possano ritenersi “…scriminate né sminuite, come erroneamente mostra di ritenere il giudice d’appello, nella scia del convincimento del tribunale, né dalla circostanza che anche altri, insieme al M., avrebbero contribuito alla verificazione degli eventi (tale affermazione ponendosi in evidente e irredimibile contrasto con il dettato dell’art. 41 c.p., in tema di con-causalità dell’evento), né dalla accertata diacronia delle condotte – il cui dipanarsi nel tempo costituisce non una scriminante ma, di converso, un aggravante della condotta stessa – né tantomeno “dall’ormai conclamata dimensione collettiva e pubblica” dei fatti, ovvero dalla “autonoma risonanza” che la vicenda avrebbe assunto con lo scorrere del tempo”.

Rilevante, a sommesso avviso dello scrivente è altresì il messaggio etico e sociale con cui la Suprema Corte conclude il proprio iter argomentativo affermando che, sebbene con sia certamente “…compito della giurisdizione sindacare, sul piano etico e sociale, il comportamento dei consociati in una determinata epoca storica, poiché il processo civile (e in particolare quello avente ad oggetto vicende di responsabilità civile) è funzionale ad offrire precise risposte, rigorosamente circoscritte al piano del diritto, a singole vicende che riguardano singole persone che chiedono tutela al giudice”, dall’altro lato il “giudice civile, nella valutazione e liquidazione del quantum deleatur, non può e non deve ignorare, – quasi che la dimensione della giurisdizione si collochi entro un asettico territorio di pensiero tanto avulso dal reale, quanto insensibile ai mutamenti sociali e culturali in cui essa viene esercitata (in argomento, tra le altre, Cass. 21619/2007, che discorre di “dimensione storica” dei criteri di causalità; Cass. 5146/2018, che ricostruisce espressamente il risarcimento da perdita di chance in termini di scelta “di politica del diritto”) – il preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il processo educativo e formativo delle giovani e giovanissime generazioni”.

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[:it]car-accident-1995852_960_720Tra i danni di cui si chiede usualmente il risarcimento, in conseguenza di un incidente stradale, si annovera il c.d. danno “da fermo tecnico” o “da sosta tecnica”, consistente tanto nella perdita economica conseguente alla necessità di procacciarsi un veicolo sostitutivo, quanto nel mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che si sarebbero potuti conseguire attraverso l’uso del mezzo.

Il risalente e superato orientamento della Suprema Corte

La giurisprudenza più risalente – ex multis Cass. 23/06/1972, n°2109; Cass. 14/12/2002, n°17963; Cass. 13/07/2004, n.12908; Cass. 09/11/2006, n°23916; Cass. 08/05/2012, n°6907; Cass. 19/04/2013, n°9626; Cass. 04/10/2013, n°22687; Cass. 26 giugno 2015, n°13215), a riguardo, riteneva detto danno in re ipsa, ovvero sussistente a seguito della mera indisponibilità del veicolo, anche a prescindere dall’uso effettivo cui la vettura era destinata, con la conseguenza:

  • di esonerare il richiedente dalla specifica e concreta dimostrazione del pregiudizio economico subito;
  • di consentire la liquidazione in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., del predetto danno.

Il revirement degli Ermellini

Negli ultimi tre anni, tuttavia, la Suprema Corte, a partire dalla celebre sentenza n°20620 del 14 ottobre 2015, ha mutato il proprio indirizzo chiarendo come il danno da fermo tecnico non possa qualificarsi, come avvenuto in precedenza, quale danno in re ipsa, e onerando conseguentemente colui che agisca al fine di ottenere il predetto risarcimento dell’allegazione, dimostrazione e quantificazione della perdita subita dal suo patrimonio.

Dette conclusioni sono state recentemente ribadite dalla Suprema Corte con sentenza 11 aprile – 31 maggio 2017, n°13718, alla luce delle seguenti condivisibili motivazioni.

La non configurabilità di un danno in re ipsa

Partendo dallo stesso concetto di danno in re ipsa, la Cassazione chiarisce come detta nozione sia “…estranea al nostro ordinamento che subordina il risarcimento alla sussistenza di un concreto pregiudizio della sfera giuridica patrimoniale o non patrimoniale del richiedente”.

A ciò consegue l’onere in capo a colui che asserisca di aver subito in concreto il danno, di comprovarlo debitamente.

La quantificazione del danno

Gli ermellini, passando poi alla quantificazione del danno, affermano che:

  • la liquidazione equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è “…consentita soltanto a condizione che sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile dimostrare, nel suo preciso ammontare, il danno di cui è peraltro provata con certezza la sussistenza (tra le più recenti, Cass. 08/01/2016, n°127 e Cass. 28/12/2016, n°27183)”;
  • l’orientamento pregresso riteneva – attraverso un’applicazione distorta dell’art. 1226c. – automatico il danno determinato dalla sosta forzata del veicolo, individuandolo “…nelle spese necessariamente sostenute dal proprietario del veicolo incidentato per il pagamento del premio di assicurazione e della tassa di circolazione”;
  • in verità dette voci non possono costituire un danno né essere liquidate in via equitativa in quanto “…bollo di circolazione è ormai una tassa di possesso da pagarsi indipendentemente dall’utilizzo del mezzo (art°5 d.l°n°955 del 1982, convertito, con modificazioni, nella l°n.53 del 1983) mentre la conseguenza economica negativa derivante dal pagamento del premio assicurativo (comunque non inutile, atteso che il veicolo potrebbe recare danno a terzi anche durante la sosta tecnica) potrebbe essere in concreto evitata dal danneggiato chiedendo la sospensione dell’efficacia della polizza”;
  • parimenti, il precedente indirizzo giurisprudenziale, al fine di qualificare “…il pregiudizio da sosta tecnica quale danno in re ipsa è costretto, non solo ad individuare un nesso di consequenzialità necessaria tra il fermo del veicolo e il suo deprezzamento (nesso evidentemente insussistente, atteso che il deprezzamento è una conseguenza del sinistro e non della successiva sosta tecnica, la quale, al contrario, potrebbe far recuperare valore al mezzo), ma anche a negare rilevanza all’uso effettivo a cui il veicolo in riparazione era destinato, omettendo di considerare che, al contrario, l’uso effettivo del veicolo assume rilievo determinante ai fini della esistenza di un danno risarcibile, non potendosi dubitare, sotto questo aspetto, della differenza intercorrente tra il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato solo per ragioni di svago e il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato per ragioni di lavoro”.

 

Il principio affermato dalla Suprema Corte

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, gli Ermellini cristallizzano il seguente condivisibile principio: “…il danno derivante dall’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per la riparazione, deve essere allegato e dimostrato da colui che ne invoca il risarcimento, il quale deve provare la perdita subita dal suo patrimonio in conseguenza della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (danno emergente) oppure il mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che avrebbe conseguito con l’uso del veicolo (lucro cessante).

 

Alla luce del revirement giurisprudenziale della Suprema Corte e del principio sopraesposto, si può pertanto affermare che il danno da fermo tecnico:

  • non possa considerarsi in re ipsa, con conseguente onere incombente sul danneggiato di allegare e comprovarne l’esistenza, a partire dall’uso effettivo del veicolo e/o dalla spesa sostenuta per procacciarsi un veicolo sostitutivo (in particolare se per ragioni di lavoro);
  • non possa identificarsi con il pagamento del “bollo d’assicurazione”, essendo lo stesso una tassa di possesso da pagarsi indipendentemente dall’utilizzo del mezzo;
  • non possa tantomeno derivare dal pagamento del premio assicurativo, ben potendosi evitare detta conseguenza economica pregiudizievole semplicemente chiedendo la sospensione dell’efficacia della polizza.

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[:it]downloadLa Suprema Corte è recentemente tornata sull’annosa questione dell’ammissibilità di un ricorso introduttivo notificato tramite un servizio di posta privato.

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato da un avvocato avverso la pronuncia con cui la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva confermato la pronuncia con cui il CTP di Napoli aveva dichiarato inammissibile il suo ricorso in quanto notificato non a mezzo Poste Italiane bensì a mezzo di un suo competitor privato.

La Suprema Corte, tuttavia, conferma la pronuncia resa in primo grado e confermata dalla CTR Campania sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • antecedentemente all’entrata in vigore della legge 4 agosto 2017 n°124, il D.lgs. n°261/99, pur liberalizzando il settore dei servizi postali, ha stabilito che “…per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale, (cioè Poste Italiane S.p.A.) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con le notificazioni di atti giudiziari di cui alla L. 20.11.1982 n. 890 e successive modificazioni”… tra cui rientrano anche le notificazioni a mezzo posta degli atti tributari sostanziali e processuali;
  • la legge 4 agosto 2017 n°124, all’art. 1, comma 57, lett. b), disponendo l’abrogazione della citata norma, ha soppresso l’attribuzione in esclusiva alle Poste Italiane di tali servizi ma esclusivamente a decorrere dal 10 settembre 2017;
  • a ciò consegue l’inesistenza della notificazione del ricorso di primo grado eseguita anteriormente a tale data a mezzo posta privata, con conseguente insanabilità dello stesso mediante la costituzione in giudizio delle controparti (come chiarito dalle SS.UU. con le sentenze nn°13452 e 13453 del 29 maggio 2017).

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[:it]

Risultati immagini per immagine usuraLa Sesta Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza 4 ottobre 2017 n. 23192, si è espressa ancora una volta sulla delicata e controversa questione del superamento del tasso soglia in materia di usura bancaria e, inparticolare, sulla questione riguardante la possibilità di sommare tra loro gli interessi corrispettivi e quelli moratori.

I giudici, respingendo il ricorso di un istituto bancario ha affermato che in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori. Si incorre pertanto in errore allorché si ritenga in maniera apodittica che il tasso di soglia non sia superato solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso.

In altri termini: si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettiva tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 4 ottobre 2017, n. 23192
Presidente Scaldaferri – Relatore Ferro

Fatti di causa

Rilevato che:
1. Bancapulia s.p.a., che aveva domandato l’ammissione al passivo per un credito vantato in virtù di un contratto di mutuo fondiario del 3.8.2001, impugna il decreto Trib. Matera 19.5.2016, in R.G. 1667/2013, con cui è stata rigettata la sua opposizione allo stato passivo del fallimento (omissis) s.p.a.;
2. il tribunale, concordemente con quanto già affermato dal giudice delegato, ha ritenuto che la banca deve essere ammessa al passivo con riferimento alla sola sorte capitale, non potendo essere riconosciuti gli interessi moratori: come emerso dalla c.t.u., al momento della pattuizione il tasso degli interessi moratori era superiore al tasso soglia, vertendosi, così, in ipotesi di usura originaria (e non in quella di usura sopravvenuta come dedotto dalla banca) e, conseguentemente, ai sensi dell’art. 1815 c.c., la pattuizione del tasso di mora era considerata nulla e nessun interesse spettava;
3. con il ricorso si deduce in unico motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 1815 c.c. e della l. 108/1996, in quanto il tribunale ha erroneamente rilevato che, al fine del superamento del tasso soglia, si deve valutare l’eventuale usurarietà originaria del tasso di mora e posto che, nel caso di affermata nullità degli interessi usurari moratori, detta nullità non potrebbe colpire gli interessi corrispettivi i quali non superino il tasso soglia.

Ragioni della decisione

Considerato che:
1. l’art. 1815, co. 2, c.c. stabilisce che “se sono dovuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” e ai sensi dell’art. 1 d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in l. 28 febbraio 2001, n. 24, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettiva tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore;
2. il ricorso è manifestamente infondato; come ha già avuto modo di statuire la giurisprudenza di legittimità “è noto che in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della l. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (Cass. 4 aprile 2003, n. 5324). Ha errato, allora, il tribunale nel ritenere in maniera apodittica che il tasso di soglia non fosse stato superato nella fattispecie concreta, solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso” (Cass. ord. 5598/2017; con principio già affermato da Cass. 14899/2000).
Il ricorso è dunque infondato e va rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, d.P.R. 115/02, come modificato dalla l. 228/12, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del co. 1-bis dello stesso art. 13[:]

[:it]Risultati immagini per immagine incidente cartoon

Il Tribunale aveva riconosciuto la concorrente responsabilità tra un’auto e un ciclomotore (per quel che concerne la responsabilità del sinistro avvenuto), aveva provveduto a liquidare il risarcimento al conducente del ciclomotore nonché alla coniuge dello stesso in una misura ritenuta, dai danneggiati, insufficiente.

Accogliendo l’impugnativa dei danneggiati la Corte di Appello rideterminava in aumento gli importi.

Tale decisione veniva erronea dalla compagnia assicurativa dell’auto, che dunque proponeva ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, i primi due aventi ad oggetto la eccessiva personalizzazione del danno al conducente, e gli ultimi due  relativi invece alla liquidazione del danno subito dal coniuge mediante l’utilizzo (seppur con riduzione percentuale) della tabella predisposta dal Tribunale di Roma per la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale per morte del congiunto.

La terza sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 21 settembre 2017 n. 21939, ha accolto il primo motivo di ricorso.

Ad avviso della sentenza di legittimità le tabelle di risarcimento possono essere utilizzate per la riparazione delle conseguenze ordinarie, cioè inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente subirebbe. Il giudice, quindi, può stabilire un importo superiore a quella previsto dalle consuete tabelle solo se precisa le peculiarità del caso in esame, che sono solo quelle legate all’«irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale».

Per tali ragioni è stata cassata con rinvio una sentenza della Corte d’appello di Roma che aveva incrementato gli importi liquidati dal primo giudice in favore di un motociclista e di sua moglie, riconoscendo poste aggiuntive.

La Terza Sezione ha ricordato che la categoria del danno non patrimoniale presenta una natura composita, dal momento che si suddivide in una serie di voci (o aspetti), la cui funzione è meramente descrittiva, quali: a) il danno morale; b) il danno biologico; c) il danno esistenziale. Da un lato occorre tener presenti tali diverse voci in sede di liquidazione (onde rispettare il principio dell’integralità del risarcimento) ma, dall’altro lato, bisogna rispettare il carattere unitario della liquidazione (che deve ritenersi violato quando lo stesso aspetto venga computato più volte sulla base di diverse denominazioni, solo formali).

Nella liquidazione del danno da parte del giudice vanno quindi distinte due fasi: la prima identifica le conseguenze ordinarie che subirebbe normalmente qualsiasi vittima di analoghe lesioni; la seconda individua le eventuali conseguenze peculiari, ovvero quelle che non sono necessariamente sempre presenti, ma che si sono verificate nello specifico caso.

Se le prime vanno necessariamente liquidate con criterio uniforme (con conseguente utilizzo delle tabelle), le seconde necessitano invece di un criterio ad hoc, senza l’utilizzo di alcun automatismo.

Nel caso in esame la Corte d’Appello aveva fatto ricorso all’apprezzamento di circostanze solo apparentemente personalizzanti, laddove ciascuna delle voci richiamate nella sentenza appellata (quali: “aiuto di terzi”, “patemi”, iter clinico”, eccetera) avrebbe potuto riferirsi a qualunque altro soggetto che fosse incorso nelle medesime conseguenze lesive del conducente. Ha quindi errato la Corte d’appello perchè si è «erroneamente diffusa all’apprezzamento di circostanze solo asseritamente personalizzanti», senza «opportuna articolazione analitica» che valorizzasse i «profili di concreta riferibilità e inerenza alla personale, specifica e irripetibile, esperienza di vita» del danneggiato.

Detta esperienza è caratterizzata «da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all’uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettivi e riconoscibili ragioni di apprezzamento (…), meritevoli di tradursi in una differente (…) considerazione in termini monetari rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità». Pertanto, in mancanza di tali specifiche circostanze, riconoscere ulteriori poste risarcitorie farebbe inevitabilmente col ricadere in una duplicazione di voci di danno.

Il che non ammissibile, considerato che «ciascuna delle conseguenze ordinariamente secondarie a quel tipo di lesioni (di quella specifica entità e riferite ad un soggetto di quella specifica età anagrafica) devono presumersi come già per intero ricomprese nella liquidazione del danno alla persona operata attraverso il meccanismo c.d., tabellare».

Una personalizzazione solo formale equivale, infatti, a una duplicazione.[:]

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downloadNella recente ordinanza del 19 luglio 2017, pubblicata il 3 agosto 2017, il Tribunale civile di Bologna ha dichiarato l’improcedibilità di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, a seguito della mancata promozione della mediazione nel termine perentorio assegnato all’opponente, con conseguente definitività dell’opposto decreto ingiuntivo.

Il caso:

Con atto di citazione, un opponente aveva svolto domanda di opposizione a decreto ingiuntivo, contestandone l’ammontare alla luce dell’asserito pagamento di parte dell’importo precettato. Si costituiva l’opposto, insistendo per la concessione della provvisoria esecutorietà del decreto e contestando l’entità dell’importo effettivamente già versato dall’opponente.

All’esito della prima udienza il Tribunale disponeva la provvisoria esecutorietà del decreto avuto riguardo al minore importo riconosciuto e la prosecuzione del giudizio nelle forme di cui all’art. 702 ter c.p.c.. Alla successiva udienza il giudice, ritenendo sussistere l’opportunità di addivenire ad una soluzione conciliativa, disponeva la mediazione delegata di cui all’art. 5, IV° co., lett. a) del d.lgs. n°28/2010, che recita: “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”.

Le motivazioni del Tribunale:

Ambedue le parti, tuttavia, omettevano di promuovere detta mediazione nei termini assegnati dal Tribunale che, conseguentemente dichiarava l’improcedibilità del giudizio per le seguenti condivisibili ragioni:

  • l’art. 5, II^ co., del d.lgs. n°28/2010 espressamente sanziona il mancato esperimento della mediazione con l’improcedibilità del giudizio;
  • detta improcedibilità attiene “…alla domanda formulata dall’opponente con l’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, con conseguente definitività del decreto ingiuntivo opposto”;
  • l’onere di esperire il tentativo di mediazione è posto unicamente sulla parte opponente, a tal fine richiamando l’univoco orientamento della Suprema Corte, cristallizzato nella sentenza n°24629 del 3 dicembre 2015, in cui la stessa ha affermato “…in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione verte sulla parte opponente poiché l’art. 5 del d.lgs. n.28 del 2010 deve essere interpretato in conformità con la sua ratio e, quindi, al principio della ragionevole durata del processo, sulla quale può incidere negativamente il giudizio di merito che l’opponente ha interesse ad introdurre;
  • non può pertanto aderirsi alla tesi della parte opposta, fondata sul dato letterale della norma in parola – ad avviso della quale l’onere di esperire la mediazione incomberebbe anche sulla parte opponente, con conseguente improcedibilità anche della domanda svolta con ricorso monitorio, esperimento della mediazione – che porterebbe a conclusioni “eccentriche” e contrastanti con le finalità deflattive proprie del d.lgs. n°28/2010.

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[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°12477 del 31 gennaio 2017 e pubblicata il 18 maggio c.a., è recentemente ritornata sull’annosa questione della valenza probatoria della c.d. testimonianza de relato actoris, ovvero della deposizione resa da su fatti e circostanze di cui sono i testi siano stati informati dallo stesso soggetto che ha proposto il giudizio.

La vicenda trae origine da una richiesta di risarcimento danni tra condomini presentata a seguito degli atteggiamenti persecutori e ingiuriosi posti in essere da uno di essi durante dieci anni di assemblee condominiali. La domanda attorea veniva tuttavia rigettata tanto in primo grado quanto in appello per mancato assolvimento dell’onere probatorio con riferimento tanto ai comportamenti persecutori e alla loro durata decennale quanto all’asserita ed indimostrata qualità di vittima del ricorrente.

Il condomino, tuttavia, non demorde e ricorre in cassazione dolendosi, inter alia, della mancata considerazione di due testimonianze de relato ex parte e dirette, ritenute inutilizzabili a fini probatori per mancata di sostanziali riscontri.

La Corte transtiberina, esaminando congiuntamente i motivi di ricorso, dichiara gli stessi infondati, seppur emendando ex art. 384 c.p.c. il percorso motivazione, seppur condivisibile, in relazione alla questione della testimonianza de relato actoris.

A tal fine, la Corte:

  • preliminarmente fuga i dubbi attorei circa la natura delle testimonianze, da considerarsi de relato actoris in quanto “…aventi ad oggetto la dichiarazione della parte che ha proposto il giudizio, e non già il fatto oggetto di accertamento…”;
  • analizza i due orientamenti invalsi negli anni nella stessa Corte di legittimità, uno dei quali considera, attraverso un’interpretazione maggiormente rigorosa, detta deposizione affetta tout court da nullità, e l’altro, secondo il quale tale testimonianza “…può assurgere a valido elemento di prova quando sia suffragata da ulteriori risultanze probatorie, che concorrano a confermarne la credibilità”;
  • censura, infine, l’orientamento meno rigoroso, rilevando come lo stesso abbia l’inaccettabile conseguenza di attribuire “…una veste qualificata (quella di “elemento di prova”) ad una mera allegazione della parte circa un fatto costitutivo della domanda, per il solo fatto di essere stata confermata nella fase istruttoria mediante la deposizione di un teste, che quella allegazione si è invece limitato in ipotesi a riportare in quanto tale (ossia, per aver appreso il fatto dalla parte stessa, e non per cognizione diretta, o al limite per averlo appreso da terzi estranei al giudizio), come è avvenuto nella specie”.

La Corte pertanto conclude rigettando il ricorso ed emendando la motivazione nella parte in cui la Corte d’appello, al posto che dichiarare le testimonianze de relato actoris inutilizzabiliperché concernenti fatti, dichiarazioni, stati d’animo (specie, teste B.) riferiti ai testi…” dallo stesso attore, aveva ritenuto le stesse “…inutilizzabili a fini probatori per mancanza di sostanziali riscontri…”.[:]

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