[:it] 

downloadA partire dalla scorsa estate si sono intensificati dibattiti e scontri, tanto nelle aule di tribunali quanto nelle piazze, sull’opportunità di introdurre la c.d. “shared residence” quale regola in punto di affido di figli minori; ciò a seguito del deposito da parte del senatore Pillon del disegno di legge n°735 del 2018, c.d. DDL “Pillon”. I sostenitori della necessità di abolire la figura del genitore collocatario partono da un dato reale: in Italia, troppo spesso, l’affido condiviso risulta tale solo formalmente. Troppo spesso, infatti, dati alla mano, in Italia il genitore che non vive con la prole riesce a trascorrere con la prole tempi superiori al 30-40% del totale solo nel 3-4% dei casi.[1]

Quelli che, di contro, osteggiano alla generalizzazione dell’affido alternato come regola pongono di solito l’accento:

  • sulla specificità della situazione socio-familiare italiana – caratterizzata da una presenza ancora nutrita di donne che sacrificano, in misura maggiore o minore, la propria vita professionale per prendersi cura dei figli e del ménage familiare, e da una discriminazione in ambito lavorativo che porta tuttora gli uomini a guadagnare, a parità di mansioni, di più delle donne;
  • sulla necessità di valutare caso per caso l’opportunità di un affido alternato, non sempre corrispondente all’interesse della prole, anzi, spesso ritenuto destabilizzante a causa dello stress congenito al continuo cambio di casa.

I semi dell’affido alternato tra Europa e tribunali nostrani

A ben vedere, l’obiettivo di modificare radicalmente il diritto di famiglia – partendo dalla ripartizione paritetica dei tempi di permanenza dei figli, sino alle sue conseguenze in punto di assegno di mantenimento e di assegnazione della casa familiare – affonda le proprie origini alcuni anni indietro, con la firma da parte del Governo italiano della risoluzione n°2079 del 2015 del Consiglio d’Europa, rubricata “Equality and shared parental responsibility: the role of fathers” (equità e responsabilità genitoriale condivisa: il ruolo dei padri), pietra miliare in Europa della necessità di garantire tempi paritetici dei figli con entrambi i genitori.

Detta risoluzione, di cui l’Italia è firmataria, afferma infatti:

  • che la separazione di un genitore dal figlio ha effetti irrimediabili sulla loro relazione e, pertanto, la stessa dovrebbe essere ordinata esclusivamente dall’autorità giudiziaria e solo in casi eccezionali configuranti un rischio grave per l’interesse della prole[2];
  • che una responsabilità parentale condivisa aiuterebbe a superare gli stereotipi di genere relativi ai ruoli ricoperti dall’uomo e dalla donna nella famiglia, riflettendo pertanto i cambiamenti sociologici che hanno preso piede negli ultimi 50 anni[3];
  • contiene infatti l’espresso invito agli Stati membri ad assicurare l’effettiva eguaglianza tra genitori anche attraverso la promozione della c.d. “shared residence”, definita quale “…forma di affidamento in cui i figli dopo la separazione della coppia genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre”.

Alla luce delle predette riflessioni, la risoluzione in oggetto, ancorché non vincolante, ha chiamato gli Stati membri ad una serie di adempimenti e novelle legislative, tra le quali:

  • introdurre nei propri ordinamenti il principio della “shared residence” a seguito della separazione, limitando a casi eccezionali di particolare gravità (quali abusi sui minori o violenza domestica), l’adozione di forme alternative[4];
  • incoraggiare e sviluppare la mediazione in tutti i casi concernenti minori[5];
  • incoraggiare accordi tra i genitori al fine di permettere a questi ultimi di determinare essi stessi i principali aspetti relativi alla vita dei figli, consentendo altresì agli stessi minori di poter richiedere una revisione di detti accordi, nella misura in cui abbiano effetti sugli stessi, con particolare riferimento al luogo della loro residenza[6].

 

La posizione della Suprema Corte e l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di merito

La Suprema Corte, con ordinanza n°4060 del 15 febbraio 2017, intervenendo sulla questione aveva dato atto del limitato utilizzo in Italia dell’affidamento alternato, riconoscendo che lo stesso “…tradizionalmente previsto come possibile dal diritto di famiglia italiano, è rimasto una soluzione di limitate applicazioni, essendo stato ripetutamente affermato che esso assicura buoni risultati quando non vi è un accordo tra i genitori e tutti i soggetti coinvolti, anche il figlio, condividono la soluzione”. Ad avviso della Corte, infatti, l’affidamento alternato, comportando una modifica continua della propria casa di abitazione, potrebbe avere “…un effetto destabilizzante per molti minori”.

Detta posizione appare sovrapponibile a quella invalsa nella maggior parte dei Tribunali nostrani, in cui la regola dell’affido condiviso con collocamento prevalente presso uno dei genitori (nella maggioranza dei casi la madre), appare di gran lunga maggioritaria. Ad onor del vero, ancorchè non si parli di affido alternato, dei passi in avanti nella direzione dell’aumento dei tempi di permanenza dei figli presso il genitore collocatario si sono pur registrati:

  • sono drasticamente diminuiti i casi di affido esclusivo del minore a uno dei genitori;
  • è oramai stato esteso il pernotto dei figli, anche in tenera età (ex multis Tribunale civile di Trieste, decreto del 5 settembre 2018);
  • sono aumentati in genere i tempi di permanenza dei figli presso il genitore non collocatario;
  • iniziano ad essere presenti diversi casi in cui i genitori hanno chiesto e ottenuto dai Tribunali l’omologazione di condizioni di affido e mantenimento di figli nati dentro o fuori il matrimonio, in cui è previsto l’affido alternato.

A ciò aggiungasi che, da qualche tempo, alcuni tribunali nostrani si sono mossi autonomamente mediante l’adozione di linee guida e protocolli in cui individuano l’affido alternato come modello maggiormente corrispondente all’interesse della prole (in tal senso il Tribunale di Brindisi e il Tribunale di Salerno).

La recente pronuncia del Tribunale di Catanzaro

Di recente diverse testate giornalistiche hanno portato agli onori della cronaca regionale e nazionale una pronuncia con cui il Tribunale civile di Catanzaro ha disposto “…l’affidamento congiunto ad entrambi i genitori del figlio minore con tempi paritetici di permanenza del minore presso i due genitori…”.

Il decreto n°443 del 28 febbraio 2019 ha senza dubbio una portata innovativa, rappresentando, almeno a memoria di chi scrive, il primo caso in Italia in cui un Tribunale abbia disposto tempi paritetici di frequentazione del minore in assenza di una domanda congiunta in tal senso da parte dei rispettivi genitori.

Il caso in esame

La vicenda trae origine dal ricorso con cui una madre adiva il Tribunale calabrese chiedendo di disporre: l’affido condiviso del minore, con collocamento prevalente presso la madre; una frequentazione padre-figlio “…con esclusione del pernottamento…”; l’assegnazione della casa familiare; il versamento di un assegno di mantenimento in favore della prole e la ripartizione delle spese straordinarie per i figli.

Il padre, costituendosi in giudizio, chiedeva al giudice di disporre l’affido condiviso del minore con collocamento alternato e conseguente rigetto della richiesta di assegnazione della casa familiare, di sua proprietà.

L’excursus normativo, giurisprudenziale e scientifico sull’attuabilità in astratto dell’affido alternato e la sua corrispondenza al superiore interesse del minore

La prima sezione del Tribunale catanzarese, nel pronunciarsi sul regime di affido, pone preliminarmente l’accento su alcuni dati giuridici e scientifici a supporto della corrispondenza al superiore interesse del minore del c.d. affido alternato:

  • la d. shared custody, nonostante non sia ancora una misura di larga applicazione nella giurisprudenza italiana, sarebbe “…in linea teorica aderente alla previsione contenuta nel citato art. 337 ter c.c. che non pare riferirsi esclusivamente all’affidamento legale condiviso, ma anche alla custodia fisica condivisa”;
  • il recente DDL Pillon, dimostrerebbe una chiara intenzione del Legislatore “…a togliere qualsiasi discrezionalità al giudice nella scelta sull’affidamento dei figli e sul tempo di permanenza presso ciascuno dei genitori”;
  • l’Italia, attraverso la sottoscrizione della Risoluzione n°2079/2015 del Consiglio d’Europa, sottoscritta dall’Italia, avrebbe espresso il proprio impegno ad apportare le modifiche normative necessarie per l’introduzione nel nostro sistema della “…shared residence, ossia quella forma di affidamento in cui i figli della coppia separata trascorrono tempi più o meno uguali tra il padre e la madre”;
  • l’affido alternato sarebbe conforme altresì ai diritti riconosciuti dalla Convenzione di New York del 1989, ratificata dall’Italia con legge n°176/1991, in particolare il diritto del fanciullo “…di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori…” (art. 9, comma 3) e dalla Carta di Nizza;
  • la scelta dell’affido alternato sarebbe corrispondente ai principi affermati dalla Corte Edu in alcune celebri pronunce;
  • la regola dell’affido alternato avrebbe già trovato ingresso mediante alcuni protocolli e linee guida adottati da tribunali nazionali (tra cui Perugia, Brindisi e Salerno);
  • il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi avrebbe già espresso nel 2011 un parere positivo in merito alla shared custody, criticando il D.D.L. Pillon limitatamente “…alla mancanza di potere discrezionale del giudice nel decidere circa i tempi di custodia del bambino (…) e l’assenza di previsioni differenziate in base all’età del minore e alle esigenze del caso concreto”;
  • un’ampia letteratura scientifica statunitense e del Nord Europa, avrebbe dato atto del “…crescente uso della joint or shared physical custody (…)” e dimostrato “…che il figlio la cui figura paterna è coinvolta nella crescita attraverso una frequentazione costante, trae dei benefici a livello psicologico rispetto al figlio che frequenta il padre solo per poche ore a settimana o nel fine settimana (…);
  • sarebbe ampiamente condiviso nella comunità scientifica il principio secondo cui “…entrambi i genitori necessitano di molto tempo trascorso con i propri figli per creare delle relazioni durature e consolidate e che, se questo non avviene, il tentativo di recuperare un rapporto compromesso diviene molto difficile specie con il passare del tempo”.

L’aspra critica alla prassi generalizzata del collocamento prevalente del minore

Il Tribunale, poi, critica aspramente la prassi invalsa nei Tribunali italiani di prevedere quale regola, nella stragrande maggioranza dei casi, del collocamento prevalente del minore presso uno dei genitori (generalmente la madre) in quanto:

  • vanificherebbe la portata innovativa delle modifiche introdotte dalla legge n°56/2006 e previste espressamente nell’ 337 ter c.c., comportando, da un punto di vista fatturale un affido materialmente esclusivo del figlio (c.d. “sole physical custody”);
  • comporterebbe un aumento della conflittualità della coppia, poiché, come noto, al collocamento prevalente della prole consegue l’assegnazione della casa familiare e il versamento di un assegno di mantenimento da parte del genitore non collocatario;
  • deresponsabilizzerebbe il genitore non collocatario, gravato del versamento di un assegno di mantenimento, in quanto “…di fatto autorizzato a non aver contezza degli effettivi bisogni economici della prole”.

La necessità di appurare l’attuabilità e la corrispondenza in concreto dell’affido alternato al superiore interesse del minore

Il Tribunale, passando al caso di specie, chiarisce preliminarmente come, quanto precedentemente esposto non equivalga a considerare la suddivisione paritetica dei tempi di permanenza quale soluzione da preferire in assoluto ma unicamente qualora “…siano presenti le condizioni di fattibilità e, quindi, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto”.

Il Tribunale, dunque, chiarisce quali siano i criteri su cui operare la scelta in favore dell’affido alternato:

  • l’età del figlio, dovendosi escludere la predetta misura “…in presenza di figli minori molto piccoli”, in particolare se in età d’allattamento;
  • il concreto assetto della coppia separanda, tenendo in particolare considerazione “…se entrambi hanno degli impegni lavorativi e di che tipo, se hanno entrambi la disponibilità di un’abitazione dignitosa per la crescita dei figli”, e ciò in conseguenza degli “…ostacoli economici e sociali alla realizzazione di una parità dei ruoli all’interno della coppia genitoriale”, tuttora presenti in Italia.

La decisione in punto di affido alternato

Il Tribunale, infine, motiva nel caso di specie la ripartizione paritetica del minore tra i due genitori, con conseguente rigetto della domanda di assegnazione della casa familiare formulata dalla madre, in considerazione:

  • dell’età del bambino, di anni 6, ritenuta non “…di ostacolo all’adozione della misura…”, ciò alla luce anche di studi scientifici nord europei che attestano “…una maggiore propensione alla doppia residenza nei più giovani rispetto agli adolescenti, che sono maggiormente proiettati verso i loro interessi sociali e possono percepire più dei bambini la ‘scomodità’ derivante dall’avere più case”;
  • del mancato accertamento nel giudizio di alcuna delle ragioni ostative dedotte dalla madre, ad avviso del quale “…il bambino non potrebbe distaccarsi da lei per lungo tempo o di notte…”;
  • della mancanza di alcun pregiudizio derivante dalla “…permanenza presso l’abitazione del padre (pernotto compreso) (…) trattandosi di un ambiente per lui familiare in cui sono presenti spazi a lui dedicati e di recente ristrutturazione”, come asseverato dalla perizia depositata in atti;
  • della presenza di studi scientifici che comprovano gli effetti positivi derivanti dal pernottamento del bambino presso il padre…dal momento che si crea una più approfondita e intima conoscenza e il minore percepisce maggiormente come propria l’abitazione paterna”;
  • dall’espressa manifestazione da parte del padre del “…l’interesse a occuparsi a tempo pieno del figlio, anche in considerazione del suo attuale ridotto impegno lavorativo”;
  • della presenza in ogni caso, “…di una rete familiare di supporto, costituita dai genitori e, si suppone, anche di una rede amicale” che possa aiutare il padre durante la permanenza del figlio presso di sé;
  • dell’adeguata capacità genitoriale del padre, non essendo la madre riuscita a comprovare il contrario;
  • dell’assenza di “particolari conflitti della coppia”;
  • della regolarità con cui il padre attualmente vede il figlio.

La decisione in punto di mantenimento

Da ultimo, il Tribunale pronunciandosi in punto di mantenimento, ricorda preliminarmente come l’art. 337 ter, comma 4 c.p.c. ha introdotto il principio cardine secondo cui “…i genitori devono provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale ai propri redditi” a cui consegue che “…l’assegno perequativo a carico di uno dei genitori può essere stabilito, ove necessario, per attuare il principio di proporzionalità, tenuto conto dei diversi parametri indicati dalla stessa norma, tra cui rilevano anche i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore”.

Passando al caso di specie, il Tribunale di Catanzaro dispone il mantenimento in via diretta del figlio da parte dei genitori nei rispettivi periodi di permanenza del figlio presso di loro e la ripartizione al 50% delle spese straordinarie per il minore, sulla scorta dei seguenti motivi:

  • la situazione reddituale dei genitori, tenendo conto anche degli oneri connessi alle esigenze abitative degli stessi, sarebbe paritetica[7];
  • paritetici sarebbero altresì i tempi di permanenza del minore presso ciascuno dei genitori.

[1] Basti pensare che, nel nostro Paese, la percentuale di affidi di minori c.d. “paritetici” risulti pari ad appena 1-2 %, a fronte di medie superiori al 20% in paesi quali Belgio (20%) e Svezia (28%); quella di affidi “materialmente condivisi”, ovvero con tempi di permanenza presso il genitore non collocatario pari o superiori al 30%, di appena 3-4%, a fronte di medie superiori al 30% in paesi quali Belgio (30%) e Svezia (40%); quella, di contro, di affidi “materialmente esclusivi”, pari ad oltre il 90%%, a fronte di medie inferiori al 50% in paesi quali Belgio (50%) e Svezia (30%).

[2]For a parent and child, being together is an essential part of family life. Parent–child separation has irremediable effects on their relationship. Such separation should only be ordered by a court and only in exceptional circumstances entailing grave risks to the interest of the child”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[3] “…developing shared parental responsibility helps to transcend gender stereotypes about roles supposedly assigned to women and men within the family and is simply a reflection of the sociological changes that have taken place over the past fifty years in terms of how the private and family sphere is organized”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[4] “…introduce into their laws the principle of shared residence following a separation, limiting any exceptions to cases of child abuse or neglect, or domestic violence, with the amount of time for which the child lives with each parent being adjusted according to the child’s needs and interests”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[5] “…encourage and, where appropriate, develop mediation within the framework of judicial proceedings in family cases involving children, in particular by instituting a court-ordered mandatory information session, in order to make the parents aware that shared residence may be an appropriate option in the best interests of the child, and to work towards such a solution, by ensuring that mediators receive appropriate training and by encouraging multidisciplinary co-operation based on the “Cochem model”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[6] “…encourage parenting plans which enable parents to determine the principal aspects of their children’s lives themselves and introduce the possibility for children to request a review of arrangements that directly affect them, in particular their place of residence”, in http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-EN.asp?fileid=22220

[7] Il marito, come emerso nel giudizio, guadagna circa € 800,00 mensili netti e, ancorchè risultava proprietario della casa familiare, era gravato di un prestito personale contratto per la ristrutturazione della casa. La madre, di contro, vantava un reddito superiore, pari a € 1.200,00 mensili, ma sarebbe in futuro gravata delle spese locatizie di un immobile, nella prevedibile misura di € 450,00 mensili[:]

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ueIn data 16 febbraio 2019 è entrato in vigore il Regolamento 2016/1191/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016 che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i requisiti per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea e che modifica il regolamento (UE) n. 1024/2012.

Come si legge nel 1° Considerando, il Regolamento in oggetto si pone l’obiettivo “…di assicurare la libera circolazione dei documenti pubblici nell’Unione e, in tal modo, promuovere la libera circolazione dei cittadini dell’Unione…” mediante l’istituzione di “…un sistema per l’ulteriore semplificazione delle formalità amministrative per la circolazione di alcuni documenti pubblici e delle relative copie autentiche rilasciati da un’autorità di uno Stato membro ai fini della presentazione in un altro Stato membro” (3° Considerando).

Il nuovo sistema trova applicazione con riguardo:

  • “…ai documenti pubblici rilasciati dalle autorità di uno Stato membro conformemente alla sua legislazione nazionale e il cui obiettivo principale è accertare uno dei seguenti fatti: nascita, esistenza in vita, decesso, nome, matrimonio, compresi la capacità di contrarre matrimonio e lo stato civile, divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, unione registrata, compresi la capacità di sottoscrivere un’unione registrata e lo stato di unione registrata, scioglimento di un’unione registrata, separazione personale o annullamento di un’unione registrata, filiazione, adozione, domicilio e/o residenza, o cittadinanza” (6° Considerando);
  • “…ai documenti pubblici rilasciati a una persona dal proprio Stato membro di cittadinanza per attestarne l’assenza di precedenti penali. Il presente regolamento dovrebbe inoltre applicarsi ai documenti pubblici la cui presentazione possa essere richiesta da cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non sono cittadini quando, in conformità con la pertinente legislazione dell’Unione, desiderano votare o candidarsi alle elezioni del Parlamento europeo o alle elezioni comunali nel loro Stato membro di residenza” (6° Considerando);
  • “…alle copie autentiche di documenti pubblici prodotte da un’autorità competente dello Stato membro in cui è stato rilasciato il documento pubblico originale” (8° Considerando);
  • “…alle versioni elettroniche di documenti pubblici e ai moduli standard multilingue adatti allo scambio elettronico…” (9° Considerando).

Da un’attenta analisi dei consideranda al Regolamento in oggetto emerge parimenti che lo stesso:

  • non ha lo scopo “di modificare il diritto sostanziale degli Stati membri per quanto concerne nascita, accertamento dell’esistenza in vita, decesso, nome, matrimonio (inclusa la capacità di contrarre matrimonio e stato civile), divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, unione registrata (inclusa la capacità di sottoscrivere un’unione registrata e lo stato dell’unione registrata), scioglimento di un’unione registrata, separazione personale o annullamento di un’unione registrata, filiazione, adozione, domicilio e/o residenza, cittadinanza, assenza di precedenti penali o documenti pubblici la cui presentazione potrebbe essere richiesta da uno Stato membro ad un candidato alle elezioni del Parlamento europeo o alle elezioni comunali o ad un elettore a tali elezioni, che sia un cittadino di tale Stato membro” (18° Considerando);
  • “…non dovrebbe incidere sul riconoscimento in uno Stato membro degli effetti giuridici relativi al contenuto di un documento pubblico rilasciato in un altro Stato membro” (18° Considerando);
  • non impone agli Stati membri, di “…rilasciare documenti pubblici non previsti ai sensi del diritto nazionale…” (7° Considerando);
  • “…non dovrebbe applicarsi alle copie di copie autentiche…” (8° Considerando);
  • “…non dovrebbe applicarsi a passaporti o carte d’identità rilasciati in uno Stato membro, in quanto tali documenti non sono soggetti a legalizzazione o formalità analoghe quando sono presentati in un altro Stato membro” (10° Considerando);
  • “…non dovrebbe applicarsi agli atti di stato civile rilasciati sulla base delle pertinenti convenzioni della Commissione internazionale dello stato civile” (10° Considerando);
  • Non trova applicazione con riferimento ai “…documenti pubblici rilasciati dalle autorità di paesi terzi” (48° Considerando).

Oggetto del regolamento 2016/1191/UE, ai sensi dell’art. 1 è quello pertanto di creare un sistema tra gli stati membri di esenzione dalla legalizzazione o formalità analoghe e di semplificazione delle altre fomralità, attraverso l’istituzione di “…moduli standard multilingue da utilizzare come supporto per la traduzione e allegati ai documenti pubblici nazionali relativi alla nascita, all’esistenza in vita, al decesso, al matrimonio (compresi la capacità di contrarre matrimonio e lo stato civile), all’unione registrata (compresi la capacità di sottoscrivere un’unione registrata e lo stato di unione registrata), al domicilio e/o alla residenza e all’assenza di precedenti penali”.

Ai sensi dell’art. 2, il regolamento trova applicazione ai documenti pubblici relativi a: a) nascita; b) esistenza in vita; c) decesso; d) nome; e) matrimonio, compresi la capacità di contrarre matrimonio e lo stato civile; f) divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio; g) unione registrata, compresa la capacità di sottoscrivere un’unione registrata e lo stato di unione registrata; h) scioglimento di un’unione registrata, separazione personale o annullamento di un’unione registrata; i) filiazione; j) adozione; k) domicilio e/o residenza; l) cittadinanza; m) assenza di precedenti penali, a condizione che i documenti pubblici riguardanti tale fatto siano rilasciati a un cittadino dell’Unione dalle autorità del suo Stato membro di cittadinanza, nonché “…ai documenti pubblici la cui presentazione possa essere richiesta da cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non sono cittadini quando essi desiderano votare o candidarsi alle elezioni del Parlamento europeo o alle elezioni comunali nel loro Stato membro di residenza, alle condizioni definite rispettivamente nella direttiva 93/109/CE e nella direttiva 94/80/CE del Consiglio”.

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downloadIl caso

Con ricorso depositato il 5 luglio 2012, una signora cagliaritana adiva il Tribunale di Cagliari al fine di ottenere la modifica delle condizioni concordate in sede di separazione consensuale due anni prima, richiedendo un sostanzioso aumento dell’assegno separatizio in suo favore nonché di quello per la figlia alla luce della scomparsa del padre, il quale, sino ad allora, aveva garantito alla figlia e alla nipote un notevole sostegno economico.

Il Giudice di primo grado, accogliendo la domanda della moglie, poneva a carico del marito un assegno divorzile di € 800,00 e un assegno per il mantenimento della figlia minorenne pari ad € 2.000,00, oltre al 70% delle spese straordinarie, in misura peraltro maggiore rispetto a quella richiesta dalla stessa ricorrente.

Il marito proponeva reclamo avverso il predetto decreto, chiedendo di ridurre l’assegno di mantenimento della figlia nella misura di € 300,00, concordata in sede di separazione, revocando altresì l’assegno separatizio in favore della moglie.

La Corte d’Appello, tuttavia, con decreto n°1653/16, rigettava il reclamo rilevando:

  • che la morte del padre della moglie “…aveva determinato un rilevante mutamento delle sue condizioni facendo venir meno il consistente aiuto economico in favore della figlia e della nipote, aiuto che aveva consentito sino ad allora alla ___ di integrare il modesto importo dell’assegno previsto della separazione consensuale”;
  • che, sebbene la moglie avesse in astratto un’abilità lavorativa, essendo laureata e avendo conseguito l’abilitazione all’attività di giornalista, in concreto la “…la sua capacità reddituale è pressoché inesistente non avendo maturato, all’età di 50 anni, alcuna esperienza lavorativa”;
  • che non erano state comprovate dal reclamante né l’acquisto di un immobile da parte della moglie né un’asserita stabile convivenza con il nuovo compagno della stessa;
  • che l’aumento dell’assegno di mantenimento per la figlia – che all’epoca della separazione consensuale aveva 6 anni – poteva ben essere giustificata dalla presunzione di un incremento delle sue esigenze proporzionalmente alla sua età.

 

Il ricorso per cassazione

Il marito, lungi da darsi per vinto, proponeva ricorso per cassazione deducendo, inter alia:

  • che la Corte d’Appello avrebbe “…errato nel ritenere la morte del padre della M un mutamento di fatto tale da giustificare un mutamento delle condizioni economiche concordate in sede di separazione consensuale, trattandosi di un evento non eccezionale né imprevedibile”;
  • che la Corte d’Appello avrebbe violato il principio dispositivo confermando la sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto alla moglie una somma addirittura superiore a quella richiesta.

La decisione della Suprema Corte

Di diverso avviso gli Ermellini che, con l’ordinanza in oggetto, rigettavano il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali alla luce della seguente motivazione:

  • l’aggravarsi delle condizioni di salute del padre e la conseguente morte all’età di 71 annicostituiscono una circostanza sopravvenuta e rilevante ai fini della modifica delle condizioni economiche della separazione per il venire meno dell’importante contributo economico destinato dal padre della M al mantenimento della figlia e della nipote”;
  • il riconoscimento da parte del giudice di prime cure della somma di € 2.000,00 rispetto alla somma di € 1.800,00 richiesta con il ricorso introduttivo, “…ha comportato una elevazione solo per ciò che concerne la misura del contributo riconosciuto al mantenimento della figlia”. Ciò è pienamente legittimo alla luce del principio per cui “…per ciò che concerne la determinazione degli obblighi di mantenimento dei figli minorenni il giudice non è soggetto al principio della domanda”.

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[:it]separazione-e-soldi_smallDi recente, la Suprema Corte di Cassazione – con ordinanza n°2480 del 13 dicembre 2018, depositata il 29 gennaio 2019 – è ritornata sui criteri sulla stregua dei quali determinare la debenza e la successiva quantificazione dell’assegno divorzile.

La pronuncia trae origine dal ricorso presentato da un’ex moglie avverso la pronuncia con cui la C.d’A. di Bologna, in parziale accoglimento dell’appello presentato dall’ex marito avverso la sentenza del giudice di prime cure, aveva ridotto l’assegno divorzile in favore della moglie da € 1.000,00 ad € 600,00 alla luce delle “…poliedriche capacità imprenditoriali e la percezione di un reddito superiore a quello dichiarato, ritenendo tale minor importo sufficiente a garantirle il tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale”.

La Suprema Corte, investita della questione, preliminarmente richiama i principi di diritto affermati dalle SS.UU. nella nota sentenza n°18287 del 2018:

  1. “all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”;
  2. “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”;
  3. “il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della  n. 898 del 1970,art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto”.

La Corte trasteverina, rileva altresì che “…la mancata richiesta di assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude di certo il suo riconoscimento in sede divorzile, ma può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi alle condizioni economiche dei coniugi.

Alla luce di quanto sopra la Suprema Corte cassa pertanto il provvedimento della Corte d’Appello, per i dovuti accertamenti, alla luce dei principi sopra richiamati.

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[:it]

separazione-e-soldi_smallCon sentenza n°32871 del 3 dicembre 2018, depositata in data 19 dicembre 2018, la I^ sezione della Corte di Cassazione è tornata nuovamente a chiarire le conseguenze della creazione di una nuova famiglia sul diritto del coniuge separato e/o divorziato all’assegno di mantenimento.

Il caso in esame

In accoglimento dell’appello promosso da un marito avverso la sentenza di separazione, con cui il giudice di prime cure aveva riconosciuto all’ex moglie il diritto a percepire un assegno separatizio, la Corte d’Appello di Perugia, con sentenza n°26/2015, revocava il predetto assegno di mantenimento:

  • ritenendo comprovata instaurazione di una famiglia di fatto da parte dell’appellata;
  • ritenendo applicabile al caso di specie la giurisprudenza di legittimità formatasi in punto di assegno divorzile.

Avverso la predetta sentenza ricorreva per cassazione la moglie, denunciando, con unico motivo, la “violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3” ritenendo che la Corte territoriale avrebbe errato:

  • nel qualificare quale convivenza more uxorio la sua nuova relazione, nonostante l’assenza dei caratteri di stabilità della predetta;
  • nel non “…aver accertato e valutato se, dalla nuova convivenza, la ricorrente ritraesse benefici economici idonei a giustificare la diminuzione dell’assegno o, addirittura, la sua revoca”.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, investita della questione, respinge tuttavia il ricorso, alla stregua della seguente condivisibile motivazione:

  • partendo dalla disciplina normativa relativa al divorzio, gli Ermellini evidenziano come l’art. 5, comma 10, L. div. preveda espressamente che “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”;
  • la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla celebre sentenza n°6855/15 ha poi esteso la causa estintiva di cui all’art. 5, co. 10, l. div. anche all’ipotesi in cui l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile abbia costituito una nuova famiglia, ancorché non fondata sul matrimonio, affermando il seguente principio di diritto: L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorchè di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost., come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo(in senso conforme anche Cass., sez. V-1^, ordinanza n°2466 del 2016);
  • recentemente la Suprema Corte, con la recente sentenza n°16982/2018, ha enunciato il seguente analogo principio in punto di assegno separatizio: “In tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento che grava sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi “more uxorio” siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce “in melius” sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati”. (Cass. civ., sez. I^, sentenza n. 16982 del 27 giugno 2018).

La Corte, ribadendo il succitato principio, fornisce altresì i seguenti opportuni chiarimenti:

  • Il fondamento della cessazione dell’obbligo di contribuzione deve esser individuato, per quel che riguarda il divorzio ma anche la separazione personale, nel principio di autoresponsabilità, ossia nel compimento di una scelta consapevole e chiara, orgogliosamente manifestata con il compimento di fatti inequivoci, per aver dato luogo ad una unione personale stabile e continuativa, che si è sovrapposta con effetti di ordine diverso, al matrimonio, sciolto o meno che sia”;
  • come nel divorzio, “anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (per quanto – come si è già detto – il suo esito si renda assai probabile) si opera una rottura tra il preesistente “tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale” ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale”.

La Suprema Corte, da ultimo, enuncia il seguente ulteriore principio di diritto: “Anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (assai più che probabile) si opera una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale, con il conseguente riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venire definitivamente meno”.

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Bi-genitorialità: è una parola che sempre più spesso viene utilizzata, soprattutto da quando in Parlamento è in discussione il ddl Pillon.
L’art. 11 del disegno di legge prevede, tra le altre cose, il diritto dei minori a “…trascorrere con ciascuno dei genitori tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale”. Bigenitorialità, quindi, significherebbe tempi uguali con i figli.

Ma i giudici della Corte di Cassazione sono d’accordo?
Il 10 dicembre 2018 gli Ermellini, con ordinanza n. 31902/2018, hanno spiegato che il predetto principio deve essere inteso come diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse, ma sempre considerando le esigenze di vita del minore, le consuetudini di vita di entrambi i genitori, la disponibilità a mantenere un rapporto assiduo, la capacità di relazione affettiva, di attenzione, comprensione ed educazione.
In altri termini, il giudice deve considerare tutti questi elementi prima di ripartire i tempi di permanenza del bambino con ciascuno dei genitori: quello che saprà instaurare un più forte legame affettivo, che saprà meglio educarlo e che saprà farlo crescere in un ambiente sociale più sano, avrà il diritto di trascorrere più giorni con il figlio. Il giudice dovrà valutare, caso per caso, le singole realtà familiari senza stabilire a priori tempi uguali di permanenza del bambino presso entrambi i genitori.
In buona sostanza – ritiene la Corte – non tutti i genitori sono uguali.
D’altro canto, lo stesso art. 11, è chiaro: “Qualora […] non sussistano oggettivi elementi ostativi, il giudice assicura con idoneo provvedimento il diritto del minore di trascorrere tempi paritetici in ragione della metà del proprio tempo, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori”. Cioè, il giudice resta sempre vincolato all’assenza di elementi ostativi: se il genitore non è capace a relazionarsi con il figlio, a educarlo e a comprenderlo, non gli sarà mai affidato il bambino per lo stesso tempo in cui viene affidato all’altro genitore.

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separazione-e-soldi_smallIl Tribunale Amministrativo della Regione Campania, con sentenza n°5763/2018, si è pronunciato sul ricorso con cui un marito chiedeva al T.A.R. “…l’annullamento del diniego maturato per silentium, con conseguente condanna dell’amministrazione intimata agli adempimenti consequenziali”, a seguito  del mancato riscontro da parte dell’Agenzia delle Entrate all’istanza con cui lo stesso richiedeva di avere copia della “…eventuale dichiarazione dei redditi presentata dalla sig.ra _____, relativamente agli ultimi anni tre e/o certificazione reddituale dei dati presenti in anagrafe tributaria; eventuali contratti di locazione a terzi delle eventuali proprietà immobiliari dalla sig.ra ____; eventuali comunicazioni inviate da tutti gli operatori finanziari all’Anagrafe Tributaria – sezione archivio dei rapporti finanziari – relative ai rapporti continuativi, alle operazioni di natura finanziaria ed ai rapporti di qualsiasi genere, riconducibili alla sig.ra _____, anche in qualità di delegante o di delegato; e tutta la ulteriore altra documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale riconducibile alla sig.ra _______”.

Il Tribunale accoglie parzialmente il ricorso del marito sulla stregua della seguente motivazione.

Preliminarmente il giudice amministrativo ha ritenuto, a fronte dell’espressa previsione nella circolare dell’A.E. del 10 ottobre 2017, che “…laddove sussistano effettivamente i requisiti previsti dalla legge n. 241 del 1990, sarà sempre possibile attivare la richiesta di accesso agli atti, limitatamente alle informazioni di natura reddituale e patrimoniale e con l’esclusione delle risultanze derivanti dall’Archivio dei rapporti finanziari”, la stessa A.E. aveva evidentemente reputato “…accessibili i dati relativi ‘alle informazioni reddituali e patrimoniali’”, con conseguente immotivatezza del diniego di consentire l’accesso al coniuge limitatamente “…alle dichiarazione dei redditi del ricorrente e della coniuge, nonché, agli eventuali contratti di locazione a terzi degli immobili di proprietà di quest’ultima”.

Parimenti, ad avviso del T.A.R., il ricorrente avrebbe debitamente comprovato “l’interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l’accesso” previsto dall’art. 22 della legge n°241/90 quale presupposto per legittimazione all’azione e accoglimento della relativa domanda, avendo debitamente chiarito nella propria istanza “…di avere in corso un giudizio di separazione e di avere interesse a conoscere tali dati (interesse in parte riconosciuto dallo stesso giudice della separazione che ha chiesto alle parti di esibire le loro ultime dichiarazioni dei redditi)”.

Il giudice amministrativo, infine, ha dichiarato inammissibile l’ulteriore richiesta di accesso a “…tutta la ulteriore altra documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale riconducibile della moglie” non avendo il ricorrente “…specificato in alcun modo a quale ulteriore documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale faccia riferimento”.

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[:it]Si segnala la pubblicazione sul sito del Tribunale civile di Roma (http://www.tribunale.roma.giustizia.it/),

delle Linee guida elaborate dallaunmarried VI^ sezione civile riassuntiva degli orientamenti e prassi del Tribunale nei procedimenti di convalida di sfratto.

Cliccare di seguito per il testo delle linee guida: Linee Guida T.C. di Roma in punto di procedimenti per convalida di sfratto[:]

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A seguito della novella apportata dal D.lgs. n°154 del 28 dicembre 2013 e all’introduzione nel Titolo IX (“Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”) del Libro Primo, del capo II – rubricato “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimento relativi ai figli nati fuori del matrimonio” – è stato attribuito al giudice il potere di adottare, ai sensi dell’art. 337 ter c.c. “…ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di  temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare”.

In particolare, nei casi caratterizzati da una elevata conflittualità tra i coniugi e da un serio rischio di compromissione del rapporto tra il minore e il genitore con esso non convivente, sempre più frequentemente alcuni Tribunali stanno ricorrendo all’affido del minore presso i servizi sociali, riconoscendo a questi ultimi, come sottolineato dalla Suprema Corte, “…un ruolo di supplenza e di garanzia e intese a far iniziare ai genitori un percorso terapeutico finalizzato al superamento del conflitto e alla corretta instaurazione di una relazione basata sul rispetto reciproco nella relazione con il figlio”.

Di recente, La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°28998/18 del 12 novembre 2018, si è trovata a pronunciarsi sulla legittimità di un decreto con cui la Corte d’Appello di Venezia, in sede di reclamo, aveva disposto, al fine di precostituire “…le condizioni per il ripristino di una condivisa bigenitorialità tutelando da subito nel modo più penetrante il minore…”, l’affidamento dei minori ai servizi sociali, con collocamento presso la madre, nonché “…un progressivo incremento del diritto di visita del padre, secondo un calendario da predisporsi dai Servizi Sociali, con pernottamento del minore presso il padre ed introduzione di periodi alternati tra i genitori di permanenza del minore in occasione delle festività”, senza tuttavia determinarne modalità e durata.

La Corte, investita della questione, preliminarmente conferma l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto di Corte di Appello in quanto, citando alcuni precedenti “Il decreto della corte di appello, contenente provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio e le disposizioni relative al loro mantenimento, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché già nel vigore della L. 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile ‘rebus sic stantibus’ a quella del giudicato” (Cass. 6132 del 2015 cui è seguita 18194 del 2015; Cass. n. 3192/2017).

La Corte invece reputa infondata la censura operata dalla ricorrente relativa alla “…violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 4 commi 3 e 4, avendo la Corte confermato l’affidamento del minore ai Servizi Sociali senza determinare le modalità e la durata dell’incarico”. Ad avviso degli Ermellini, infatti, il provvedimento adottato dalla Corte veneziana risultava “…sufficientemente dettagliato e corretto” in quanto la necessaria indicazione della presumibile durata dell’affidamento e delle modalità di esercizio dei poteri degli affidatari, sono condizioni richieste solo per l’affidamento familiare previsto dall’art. 4, commi 3 e 4 della legge n°184/83, non già per il provvedimento di affidamento familiare di cui all’art. 337 ter c.c. bensì dell’affidamento.

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a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4La II^ sezione del Tribunale Civile di Bergamo, con decreto del 26 settembre 2018, ha chiarito che, nonostante la mancanza di un’espressa previsione in tal senso da parte della legge n°3/2012, tra i soggetti che posso accedere alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento debba annoverarsi anche la famiglia, intesa come “…ente collettivo costituito dai debitori appartenenti alla famiglia in crisi da sovraindebitamento”, e ciò, “…in particolare quando lo squilibrio finanziario derivi proprio dalla gestione della vita in comune dei suoi membri”.

Nel caso di specie, Il Tribunale lombardo aveva disposto la riunione delle due procedure, introdotte dai coniugi con due distinti ricorsi, in cui ognuno aveva chiesto, la liquidazione del loro patrimonio ex artt. 14 ter e segg. L. 3/12 come modificata dal D.L. 179/12, alla luce:

  • di ragioni di economia processuale;
  • della circostanza che la maggior parte dei debiti riguardava obbligazioni solidali dei due coniugi;
  • del fatto che la maggior parte dei beni immobili costituenti il patrimonio immobiliare dei coniugi era in comproprietà tra gli stessi.

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