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La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 7940 del 12 settembre 2019, ha ribadito il principio, ormai cristallizzato dagli Ermellini, secondo il quale la deroga posta dal secondo comma dell’art. 2721 c.c. è ammissibile solo se giustificata da una concreta valutazione delle ragioni per cui la parte, incolpevolmente, non sia in possesso di documentazione scritta.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine da un procedimento di ingiunzione promosso da un avvocato nei confronti di una cliente, nel quale il Tribunale di Cagliari, con sentenza n. 2478/2012, rigettava l’opposizione proposta avverso il decreto ingiuntivo.

Il credito azionato in via monitoria – della somma di euro 8.860,72 – aveva ad oggetto il compenso per l’attività professionale prestata nella causa di risarcimento danni da sinistro stradale, definito in via transattiva.

Dolendosi di tale decisione, la cliente ricorreva alla Corte d’Appello di Cagliari che, all’esito del giudizio, riformava la decisione del giudice di prime cure e condannava l’avvocato – previa revoca del decreto ingiuntivo – a restituire alla controparte la somma di euro 789,95. La Corte territoriale calcolava tale importo dalla differenza tra quanto già corrisposto dalla cliente a titolo di acconto, grossolanamente considerando attendibili le dichiarazioni dei genitori della medesima, e il compenso parametrato all’importo attribuito alla cliente a titolo risarcitorio, sulla scorta delle tariffe dettate dal D.M. 8 aprile 2004, vigente ratione temporis.

Il ricorso per cassazione  

Il difensore, vista la decisione della Corte d’Appello, adiva la Suprema Corte dolendosi, in particolare, di come il giudice di secondo grado avesse ritenuto provato il pagamento di acconti su prove testimoniali – peraltro fornite dai genitori – “senza giustificare la deroga al divieto previsto per i contratti ed esteso ai pagamenti di valore superiore ad euro 2,58”.

Il giudizio della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso limitatamente alla suesposta doglianza, ha ribadito il consolidato principio secondo il quale “poiché ai sensi dell’art. 2726 cod. civ. le norme stabilite per la prova testimoniale si applicano anche al pagamento e alla remissione del debito, è ammessa la deroga al divieto della prova testimoniale in ordine al pagamento delle somme di denaro eccedenti il limite previsto dall’art. 2721 cod. civ., ma la deroga è subordinata ad una concreta valutazione delle ragioni in base alle quali, nonostante l’esigenza di prudenza e di cautela che normalmente richiedono gli impegni relativi a notevoli esborsi di denaro, la parte non abbia curato di predisporre una documentazione scritta (ex plurimis, Cass. 14/07/2003, n. 10989; Cass. 25/05/1993, n. 5884; Cass. 18/03/1968, n. 879).  

Di qui, la decisione della Suprema Corte di cassare in parte qua la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa composizione, affinché si conformi al principio di diritto sopra richiamato.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

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cdc-c4ibsscuwiu-unsplash-1Dal 1° aprile 2020 sono disponibili sul sito http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rel028-2020.pdf, i chiarimenti offerti dalla Corte di Cassazione sul contenuto e la portata delle misure adottate dal Governo per il contrasto al diffondersi del corona virus, di cui al D.L. n°18/2020.

In particolare:

  • il rinvio d’ufficio delle udienze deve essere inteso come “un mero rinvio ex lege e non di una sospensione dei processi, sicché non si applica l’art. 298, primo comma, c.p.c., a tenore del quale ‘durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento’”;
  • la sospensione dei termini processuali deve essere inteso come operante tutti gli atti processuali, compresi quelli necessari per avviare un giudizio di cognizione o esecutivo (atto di citazione o ricorso, ovvero atto di precetto), come per quelli di impugnazione (appello o ricorso per cassazione)”;
  • con riferimento alla sospensione che riguardi termini a ritroso che ricadano in tutto o in parte nel periodo di sospensione, “…è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il pieno rispetto” e non già la mera sottrazione dal relativo computo, come avveniva durante il periodo feriale;
  • ai sensi dell’art. 83, comma 10 del D.L. n°18/2020, per tutti i procedimenti in cui vi sia stato un rinvio d’udienza, non si terrà conto, ai fini dell’equa riparazione di cui all’art. 2, della l. 89/01 (legge Pinto) del periodo compreso tra il 08/03/2020 e il 30/06/2020;
  • ai sensi del comma 20 dell’art. 83 del D.L. n°18/2020, la sospensione dei procedimenti di mediazione, di negoziazione assistita e di risoluzione stragiudiziale delle controversie, riguarderà quelli promossi entro il 9 marzo 2020, senza alcuna espressa previsione per quanto riguarda quelli eventualmente promossi successivamente a tale data;
  • la sospensione, di cui all’art.83, comma 8, dei termini sostanziali “comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto” appare poter essere invocata da chi ne abbia interesse unicamente per il periodo dal 16 aprile al 30 giugno e subordinata alla presenza di due condizioni: “a) che siano stati adottati i provvedimenti organizzativi che spettano ai capi degli uffici (e solo durante il periodo di loro efficacia); b) che si tratti di diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento di attività processuali precluse;
  • la sospensione di tutti termini, siano essi processuali o sostanziali, non opera per quelle controversie che rientrano nell’elencazione di cui all’art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020.

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[:it]

imagesLa Suprema Corte, con ordinanza n°5372 del 27 febbraio 2020, ha chiarito che è ricevibile il ricorso introduttivo depositato telematicamente, ancorché privo della produzione della marca da bollo, e ciò in quanto ai sensi del D.L. 18 ottobre 2012, n. 170, art. 16 bis, comma 7, conv. con modifiche in L. 17 dicembre 2012, n. 221, “il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia”.  

Il caso

La pronuncia de quo trae origine dall’impugnazione di un provvedimento con cui la Commissione territoriale aveva negato la protezione internazionale ad un cittadino, dichiarando inammissibile il suo ricorso e dichiarato inaccoglibile la successiva istanza di remissione in termini “…in quanto, anzitutto, l’inosservanza del suddetto termine era imputabile al ricorrente perché quest’ultimo aveva iscritto a ruolo il ricorso telematicamente, una prima volta, senza la coeva produzione della marca da bollo, determinandone l’irricevibilità, in conformità del t.u. n. 115 del 2002, art. 285 norma applicabile anche successivamente all’introduzione della procedura telematica di deposito del ricorso che era comunque oggetto della verifica del cancelliere in ordine all’osservanza delle norme tributarie”.

Il ricorso per cassazione

Avverso il predetto provvedimento, ricorreva per cassazione il sig. XXX, eccependo l’inapplicabilità alla fattispecie in esame della previsione di cui all’art. 285, comma 4 del  T.U. n°115 del 2002 – rubricato “Modalità di pagamento del diritto di copia, del diritto di certificato e delle spese per le notificazioni a richiesta d’ufficio nel processo civile” – che, come, noto, dispone “Il funzionario addetto all’ufficio annulla mediante il timbro a secco dell’ufficio le marche, attesta l’avvenuto pagamento sulla copia o sul certificato, rifiuta di ricevere gli atti, di rilasciare la copia o il certificato se le marche mancano o sono di importo inferiore a quello stabilito”.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, accoglie il ricorso, rilevando che:

  • la previsione di cui all’art. 285 T.U. sia stata adottata “…allorché era previsto il solo deposito cartaceo degli atti, sia esclusa dalle sopravvenute modalità telematiche per l’introduzione del processo”;
  • lo stesso Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli Affari di Giustizia – Direzione generale della Giustizia Civile, con nota del 4 settembre 2017, n. 164259, si era pronunciato sulla questione escludendo l’applicabilità della predetta sanzione al deposito telematico dell’atto introduttivo del processo;
  • la predetta indicazione ministeriale, ancorché non vincolante per il giudice, era certamente da condividersi alla luce del chiaro disposto del D.L. 18 ottobre 2012, n. 170, art. 16 bis, comma 7, conv. con modifiche in  17 dicembre 2012, n. 221 (“il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia“).

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separazione-e-soldi_smallI fatti di cui è causa

In pendenza del giudizio di divorzio, la Corte d’Appello di Cagliari accoglieva il gravame proposto dalla moglie avverso la sentenza di separazione, aumentando il mantenimento per sé e per i figli sino al mese precedente all’adozione dell’ordinanza presidenziale da parte del giudice del divorzio; ciò in considerazione dell’aumento dei predetti assegni disposto dal giudice del divorzio in sede presidenziale.

Ricorreva avverso detto provvedimento il marito, sostenendo che la Corte d’Appello, quale giudice della separazione, “…avrebbe indebitamente sovrapposto la propria valutazione sulle statuizioni economiche conseguenti alla separazione a quella adottata dal giudice nel parallelo giudizio di divorzio”, non potendo rideterminare il predetto contributo essendo già stati adottati i provvedimenti presidenziali nel giudizio di divorzio.

La decisione della Suprema Corte

Gli Ermellini, tuttavia, reputano infondato il ricorso del marito richiamando, preliminarmente il noto principio secondo cui: “…il giudice della separazione è investito della potestas iudicandi sulla domanda di attribuzione o modifica del contributo di mantenimento per il coniuge e i figli anche quando sia pendente il giudizio di divorzio, a meno che il giudice del divorzio non abbia adottato provvedimenti temporanei e urgenti nella fase presidenziale o istruttoria (Cass. n. 27205 del 2019), i quali sono destinati a sovrapporsi a (e ad assorbire) quelli adottati in sede di separazione solo dal momento in cui sono adottati o ne è disposta la decorrenza” (in senso conforme (Cass. n. 27205/2019; Cass. n. 5510/2017; Cass. n. 17825/2013; Cass. n. 5062/2017; Cass. n. 1779/2012).

La Suprema Corte, ha ritenuto pertanto correttamente applicato il predetto principio dal giudice della separazione in quanto:

  • i provvedimenti economici adottati nel giudizio di separazione anteriormente iniziato sono destinati ad una perdurante vigenza fino all’introduzione di un nuovo regolamento patrimoniale per effetto delle statuizioni (definitive o provvisorie) rese in sede divorzile (Cass. n. 1779 del 2012)”.
  • la pronuncia di divorzio, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporti la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale (o di modifica delle condizioni di separazione) iniziato anteriormente e ancora pendente, ove esista l’interesse di una delle parti all’operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali (tra le tante Cass. n. 5510 e 5062 del 2017)”;
  • Nella specie, il giudice della separazione con la sentenza impugnata non è intervenuto impropriamente a modificare le statuizioni economiche rese in sede di divorzio (cfr. Cass. n. 17825 del 2013), ma ha fissato la decorrenza del contributo di mantenimento a carico del M. fino al mese di settembre 2015, senza dunque interferire con le statuizioni economiche emesse in sede divorzile a decorrere dal mese di (OMISSIS)”.

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schermata-2020-03-18-alle-09-52-03Di seguito una disamina del Decreto Legge “Cura Italia”,con particolare riferimento alle disposizioni relative ai procedimenti civili, pubblicato nelle ultimissime ore nella Gazzetta Ufficiale, n°70 del 17 marzo 2020.

Il Decreto, tra le misure economiche a sostegno di famiglie, lavoratori ed imprese, in materia di Giustizia dispone la proroga del periodo inizialmente nato come “Periodo cuscinetto”; il differimento urgente delle udienze e delle relative sospensioni dei termini processuali, in precedenza disposto dal D.L. 11/2020 dall’8 marzo fino al 22 marzo 2020, sarà infatti protratto fino al successivo 15 aprile 2020.

L’art. 83 del Decreto citato dispone che le udienze dei procedimenti civili e penali a decorrere dal 9 marzo sino al 15 aprile 2020 sono rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020.

Con specifico riferimento alla materia civile le eccezioni al predetto periodo riguardano:

  • cause di competenza del tribunale per i minorenni (dichiarazioni di adottabilità, minori stranieri non accompagnati e minori allontanati dalla famiglia, nonché situazioni di grave pregiudizio);
  • cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari;
  • procedimenti cautelari (per la tutela dei diritti fondamentali della persona);
  • procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, amministrazione di sostegno, interdizione, inabilitazione esclusivamente se sussiste una comprovata esigenza di indifferibilità e sempre che non risulti incompatibile con le condizioni di età e salute del beneficiario;
  • procedimenti per accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale (art. 35, L. 833/1978);
  • procedimenti per la richiesta di interruzione della gravidanza (art. 12, L. 194/1978);
  • procedimenti contro gli abusi familiari per l’adozione di ordini di protezione;
  • procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di Paesi terzi e dell’Unione europea;

procedimenti di cui agli artt. 283, 351 e 373 c.p.c: provvedimenti sulla provvisoria esecuzione in appello, provvedimenti sulla provvisoria esecuzione, sospensione dell’esecuzione a seguito di ricorso per Cassazione.

L’elenco è tassativo ma il Decreto prevede una disposizione “di chiusura”: è disposta una dichiarazione di urgenza per tutti gli altri procedimenti la cui trattazione posticipata produrrebbe un grave pregiudizio.

Oltre al differimento delle udienze, il Decreto, in ottemperanza alle misure disposte dal Governo, ha stabilito che gli Uffici giudiziari possono prevedere lo svolgimento telematico delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti.

Inoltre, sempre relativamente allo svolgimento delle udienze, è prevista la possibilità per gli Uffici giudiziari – per il periodo compreso tra il 16 aprile e il 30 giugno 2020 – di:

  • adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze;
  • celebrare a porte chiuse le udienze pubbliche civili e penali;
  • rinviare le udienze a data successiva al 30 giugno 2020, salvo le suddette eccezioni;
  • tenere le udienze civili che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori mediante lo scambio e il deposito telematico di note recanti le sole istanze e conclusioni, con successiva adozione fuori udienza del provvedimento da parte del giudice.

Le misure si estendono anche all’accesso al pubblico a detti Uffici, ad eccezione che per le attività urgenti e lo scaglionamento anche dei servizi telefonici e telematici.

Nel periodo tra l’8 marzo e il 15 aprile 2020 il Decreto “Cura Italia” stabilisce, altresì, la sospensione dei termini per il compimento di ogni atto processuale.

Con il “nuovo” Decreto, il Governo ha fornito una serie di precisazioni fortemente richieste dalle istituzioni forensi circa gli esatti limiti delle deroghe disposte dal precedente D.L. 11/2020.

In primo luogo, la sospensione opera anche relativamente ai termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi; per le impugnazioni e, in genere, a tutti i termini procedurali.

Nei casi in cui i procedimenti di mediazione, negoziazione assistita e risoluzione stragiudiziale delle controversie, siano stati promossi entro il 9 marzo 2020 e quando costituiscono condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ne sono sospesi i termini riguardanti qualunque attività.

Nel maxi Decreto “Cura Italia”, il Governo ha quindi accolto le numerose richieste avanzate negli ultimi giorni dagli operatori del settore Giustizia volte ad ottenere indicazioni più specifiche per un corretto inquadramento normativo, o perlomeno interpretativo, delle disposizioni adottate in via emergenziale ed evitare così di incorrere in prescrizioni e decadenze.

Allo stesso scopo, relativamente ai procedimenti incardinati di fronte agli organi di Giustizia amministrativa, il Governo infatti ha accolto le osservazioni dei Giudici di Palazzo Spada[1] e disposto, come estrema ratio, la rimessione in termini, per la quale basterà un’istanza congiunta da parte dei difensori costituiti.

Il Governo ha già annunciato che ci sarà una seconda fase regolatoria, a decorrere dal prossimo 16 aprile. Nel frattempo, in virtù di quanto disposto dal D.L. 18/2020, saranno adottate le varie linee guida e misure a cura dei Capi degli Uffici Giudiziari per consentire agli operatori del settore di impiegare misure coerenti con l’emergenza epidemiologica.

[1] L’Adunanza Speciale del C.d.S., il 10 marzo u.s., aveva inviato un parere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri al fine di sollecitare risposte circa l’interpretazione e l’esatto ambito di applicabilità dell’ormai abrogato art. 3, comma 1 del D.L. 11/2020.

Articolo della dott.ssa Michela Terella

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La Suprema Corte di Cassazione – con la sentenza, n°2394/20 del 10 settembre 2019, depositata in cancelleria il 3 febbraio 2020 – ha recentemente chiarito, attraverso una ricostruzione ermeneutica e letterale dell’art. 168 bis c.p.c., le conseguenze del differimento dell’udienza di comparizione sul termine di costituzione del convenuto, con particolare riferimento all’ipotesi eccezionale in cui il decreto di differimento ex art. 168 bis, co. 5, c.p.c. sia intervenuto dopo lo scadere del termine di costituzione di cui all’art. 166 c.p.c.

Come noto l’art. 168 bis c.p.c. prevede al comma 4, il differimento dell’udienza di comparizione alla prima udienza immediatamente successiva tenuta dal giudice designato, nell’evenienza in cui “…nel giorno fissato per la comparizione il giudice istruttore designato non tiene udienza…”. A differenza della previsione di cui al successivo comma 5, il predetto differimento:

  • non viene comunicato dalla cancelleria alle parti costituite;
  • non comporta alcuna conseguenza sul termine di costituzione del convenuto.

Il caso

La Suprema Corte, nel caso in esame, si è pronunciata sulle conseguenze del differimento d’udienza ex art. 168 bis, co. 5, emesso successivamente allo scadere dei termini di costituzione di cui all’art. 166 c.p.c., in una singolare vicenda in cui il ricorrente aveva eccepito l’estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, a seguito dell’omessa riassunzione del giudizio conseguente alla sua asserita interruzione, dipendente dalla cancellazione del difensore dall’albo costituito nella fase monitoria, ancorchè intervenuta successivamente alla notificazione dell’atto introduttivo.

I chiarimenti e il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte

A tal fine, gli Ermellini offrono preliminarmente i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • il differimento del termine di costituzione del convenuto di cui all’art. 166 c.p.c. avviene unicamente in caso di differimento di udienza disciplinato dal comma 5° dell’art. 168 bis c.p.c., e non anche nella diversa ipotesi disciplinata dal comma 4° del predetto articolo;
  • la ratio della predetta previsione risiede da un lato nell’innecessarietà di costringere il convenuto a costituirsi “…in una data che potrebbe essere anche molto anteriore a quella in cui si terrà effettivamente l’udienza di prima comparizione” e, dall’altro, di riservare al G.I. “…la facoltà di indicarne una diversa da quella fissata dall’attore allo scopo di consentire una più efficiente organizzazione dei ruoli di udienza e per rispondere all’esigenza fondamentale di porre il giudice in condizione di conoscere l’effettivo thema decidendum fin dal momento iniziale della trattazione della causa…”;
  • il differimento di udienza previsto dal 5° comma dell’art.168 bis c.p.c. dovrebbe essere emesso entro 5 giorni dalla presentazione del fascicolo e dovrebbe disporre un rinvio non superiore al 45 giorni;
  • i predetti termini, tuttavia, hanno natura ordinatoria e non perentoria, di talché quandanche il decreto di differimento sia stato emesso dopo il termine di 5 giorni e/o preveda una dilazione superiore ai predetti 45 giorni, lo stesso conserva “…l’effetto di fissare di fatto la prima udienza di comparizione alla nuova data indicata dal giudice”;
  • nell’ipotesi eccezionale in cui il decreto di differimento sia emesso successivamente allo scadere dei termini per la costituzione del convenuto di cui all’art. 166 c.p.c., tuttavia, questo non determina alcuna rimessione in termini rispetto alle eventuali già maturate decadenze di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c. poiché, in caso contrario, determinerebbe un’illegittima alterazione della posizione di parità delle parti nel processo, ponendosi manifestamente in contrasto con importanti valori costituzionali, quali quelli enunciati dagli articoli 3, 24 e 111, comma 2°, della Costituzione.

Alla luce dei predetti chiarimenti la Suprema Corte ha enunciato il seguente condivisibile principio di diritto: “nel caso in cui il differimento della prima udienza di comparizione da parte del giudice istruttore, ai sensi dell’art. 168 bis c.p.c., comma 5, intervenga dopo che sia già scaduto il termine di cui all’art. 166 c.p.c., per la costituzione del convenuto, il differimento stesso non determina la rimessione in termini del convenuto ai fini della sua tempestiva costituzione e, di conseguenza, restano ferme le decadenze già maturate a suo carico, ai sensi dell’art. 167 c.p.c.”.

Sulla base del predetto principio, la Suprema Corte esclude pertanto, nel caso di specie, “…che si sia determinata l’interruzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in primo grado”.

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downloadLa Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°22951 del 13 settembre 2019, chiarisce nuovamente i presupposti per ottenere la condanna ex art. 96 c.p.c. nonché illegittimità della compensazione delle spese di lite a seguito del rigetto della domanda di risarcimento ex art. 96 c.p.c. proposta dai convenuti totalmente vittoriosi sul merito della lite.

Il caso

La vicenda trae origine dalla sentenza con cui Tribunale di Pesaro aveva rigettato sia le domande principali degli attori sia la richiesta di condanna per lite temeraria, avanzata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., co. 1, dai convenuti, con compensazione delle spese di lite, giustificata alla luce della soccombenza reciproca.

I convenuti proponevano appello dinanzi alla Corte anconetana dolendosi del mancato accoglimento della richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c.. La Corte d’Appello di Ancona, tuttavia confermava la sentenza di primo grado, ritenendo la domanda degli appellanti carente in punto di prova del pregiudizio lamentato, condannandoli alla rifusione delle spese del secondo grado di giudizio.

I convenuti decidevano quindi di ricorrere sino in Cassazione contestando tanto il rigetto della domanda risarcitoria quanto la compensazione delle spese di lite.

I presupposti per la condanna ex art. 96 c.p.c.

La Suprema Corte, attraverso la pronuncia in esame, giudica infondata la prima doglianza, chiarendo quanto segue:

  • la responsabilità aggravata per lite temeraria ha natura extracontrattuale;
  • è conseguentemente onere della parte che richiede il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1 dedurre e comprovare sia l’an che il quantum debeatur;
  • “… il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne concretamente l’esistenza, desumibili anche da nozioni di comune esperienza e dal pregiudizio che la parte resistente abbia subito per essere stata costretta a contrastare un’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario”.

Nel caso di specie, conclude la Corte, la Corte d’Appello, ha rilevato, con motivazione congrua ed esente da vizi logici, che “…nella specie la deduzione del danno conseguito al fatto che i convenuti sarebbero stati costretti, per effetto del giudizio instaurato nei loro confronti, a sottrarre tempo, da dedicare alla causa, alle ordinarie occupazioni (in particolare il D. alla sua attività lavorativa di design nel settore dei mobili) non sono accompagnate da concreti elementi atti a consentire un’attendibile liquidazione del lamentato pregiudizio, così come del tutto generica è l’allegazione dello stato continuo di stress e di apprensione originato dalla pendenza della lite, e ciò anche alla luce delle numerose controversie intercorse tra le parti (aspetto questo desumibile dal contenuto delle difese svolte dagli stessi appellanti)”.

Sulla compensazione delle spese di lite a seguito del rigetto della domanda di condanna ex art. 96 c.p.c.

La Suprema Corte, invece accoglie, il secondo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti avevano lamentato l’ingiusta compensazione delle spese di lite a fronte del rigetto della loro richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c..

Ad avviso degli ermellini, infatti non può condividersi l’orientamento minoritario – da ultimo da Cass. sez. VI^-2, sentenza n°20838 del 14 ottobre 2016 – che riteneva configurata un’ipotesi di soccombenza reciproca ai sensi dell’art. 92 c.p.c. a seguito dell’imputabilità, sulla base del principio di causalità, “…a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate o per aver avanzato istanze infondate”.

Bisogna, di contro, aderire al successivo e maggioritario orientamento che fa discendere dalla natura meramente accessoria della domanda di condanna ex art. 96 c.p.c. la non configurabilità di alcuna parziale e/o reciproca soccombenza.

La Corte conclude confermando che “ha pertanto errato la Corte d’appello a confermare la compensazione delle spese processuali disposta dal Tribunale, sul presupposto – qui disatteso – che il rigetto della domanda di condanna per lite temeraria proposta dai convenuti totalmente vittoriosi sul merito della lite determinasse una loro soccombenza reciproca”.

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tribunale-roma-immagineAd alcuni colleghi sarà capitato, nel proporre un’impugnazione sostituendosi al difensore che assisteva la parte nel primo grado di giudizio civile, di vedersi negata dalla cancelleria la facoltà di ritirare il fascicolo di parte.

Come noto il nostro codice di rito – art. 77 disp. att. c.p.c. in combinato disposto con l’art. 169 c.p.c., rubricato “Ritiro dei fascicoli di parte”[1] – si occupa unicamente della facoltà/diritto di ritirare il fascicolo di parte unicamente quando lo stesso è ancora in corso di definizione.

Ciò ha generato il sorgere di prassi difformi tra le varie cancellerie, alcune delle quali autorizzano il ritiro unicamente al difensore costituito nel primo grado di giudizio, altre unicamente alla parte rappresentata, altre ancora al nuovo difensore munito di espressa autorizzazione del precedente avvocato.

Per dirimere la questione è recentemente intervenuto il Ministero della Giustizia, a mezzo della circolare del 7 gennaio 2019, diretta ai presidenti delle Corti d’Appello ed avente ad oggetto “Ritiro del fascicolo cartaceo di parte nel procedimento civile definito in primo grado Indicazioni operative”.

Nella stessa il Ministero ha affermato che “…nell’ipotesi in cui il procedimento civile sia stato definito, gli Uffici giudiziari debbano consegnare il fascicolo di parte sia alla parte personalmente, sia al nuovo difensore incaricato di difenderla nell’ambito del giudizio di impugnazione (sempre che lo stesso sia munito di apposito mandato)”.

Ad avviso del Ministero, infatti, detta affermazione risulta l’unica compatibile con l’art. 33 del codice deontologico forense. Seguendo il ragionamento del Ministero, poiché l’art. 33 C.D.F. “…pone sul difensore, al termine del mandato, l’obbligo di restituire senza ritardo gli atti e i documenti ricevuti dal cliente e dalla parte assistita per l’espletamento dell’incarico, come pure di consegnare loro copia di tutti gli atti e documenti concernenti l’oggetto del mandato (…) se dunque l’avvocato, al termine del mandato, è tenuto a restituire tutta la documentazione ricevuta dal cliente e comunque concernente l’oggetto del mandato, non v’è ragione per negare alla parte medesima (titolare del diritto alla restituzione) o al suo nuovo procuratore il diritto di richiedere direttamente alla cancelleria dell’Ufficio giudiziario la consegna del fascicolo di parte depositato dal precedente difensore nell’ambito di un giudizio civile ormai concluso, facendo in tal modo venir meno l’obbligo di custodia degli atti a carico del precedente avvocato”.

 

[1] Art. 169 c.p.c.:

  1. 1: “Ciascuna parte può ottenere dal giudice istruttore l’autorizzazione di ritirare il proprio fascicolo di parte dalla cancelleria; ma il fascicolo deve essere di nuovo depositato ogni volta che il giudice lo disponga”.
  2. 2: “ Ciascuna parte ha la facoltà di ritirare il fascicolo all’atto della rimessione della causa al collegio a norma dell’articolo 189, ma deve restituirlo al più tardi al momento del deposito della comparsa conclusionale”.

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facebookA molti sarà capitato di pubblicare contenuti sulla propria pagina Facebook, che vengono “segnalati” ingiustamente. Ad alcuni sarà anche capitato di veder sospeso o cancellato il proprio profilo, senza avere modo di giustificarsi al fine di evitare l’ingiusta sanzione.

Di recente, il Tribunale di Pordenone si è trovato a pronunciarsi su un ricorso ex art. 700 c.p.c. e ex art. 614 bis c.p.c. con cui un utente, lamentando la chiusura arbitraria del proprio profilo da parte del gigante dei social, ha chiesto l’immediato ripristino del proprio profilo personale e la fissazione “… di una somma di denaro da versarsi in favore del Ricorrente per ogni giorno di ritardo nell’eseuczione del provvedimento imposto in capo alla Resistente c.d. ‘astreintes’)”.

I fatti di cui è causa

Un utente di facebook condivideva sul proprio profilo il video del punto decisivo della finale del Torneo di Wimbledon, tratto dal profilo pubblico del torneo stesso, salvo poi venire segnalato da una società estera, la Star India Private Limited, per violazione del diritto d’autore. L’utente, in buona fede, rappresentava immediatamente di aver tratto il video dalla pagina ufficiale del torneo, inviava una lettera di scuse alla società segnalatrice e rimuoveva immediatamente il video oggetto di segnalazione.

Il ravvedimento e la buona fede dell’utente, tuttavia, non sortivano gli effetti sperati. Facebook, infatti, decideva unilateralmente e senza concedere la possibilità di giustificarsi, di chiudere il suo account.

Questi, lungi dal desistere, ricorreva al Tribunale di Pordenone citando l’azienda americana, la quale tuttavia non compariva in udienza.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale friulano, investito della questione, preliminarmente conferma la propria competenza quale foro del consumatore, richiamando sul punto la celebre sentenza Corte di Giustizia dell’Unione europea del 6 ottobre 2015, (caso C-362/14, c.d. Max Schrems).

Passando al merito, il Tribunale friulano, ravvisando la sussistenza di un vero e proprio contratto tra utente e social network, identifica tra le prestazione di Facebook quella dell’offerta “…di un preciso servizio telematico basato sul libero accesso ed utilizzo della propria piattaforma web” e ciò in conseguenza:

  • delle obbligazioni assunte da Facebook al momento dell’attivazione dell’account dell’utente, tra le quali è espressamente prevista quella di garantire all’utente la “…possibilità di esprimersi e comunicare in relazione agli argomenti di interesse…”;
  • di quanto sostenuto dallo stesso social network, alla punto secondo della sezione 1 delle condizioni di utilizzo: “…aiutando l’utente a trovare e a connettersi con persone, gruppi, aziende, organizzazioni e altri soggetti di interesse”.

Secondo il giudicante, Facebook, cancellando arbitrariamente il profilo dell’utente “…pur in assenza di una chiara, seria e reiterata violazione dell’utente delle condizioni contrattuali o della normativa”:

  • avrebbe adottato “…un rimedio del tutto sproporzionato rispetto agli addebiti mossi…”;
  • avrebbe pertanto violato “…non solo le regole contrattuali dalla stessa stabilite, ma anche il diritto di libera espressione del pensiero come tutelato dalla Costituzione”.

Il Tribunale ritiene altresì sussistenti i presupposti per l’adozione:

  • tanto delle misure richieste ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ritenendo ravvisabile la sussistenza del periculum in mora presupposto per l’adozione del provvedimento d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c. – nella circostanza “…che il prolungarsi del ‘congelamento’ della pagina Facebook determina l’assoluta perdita di interesse degli utenti nei confronti della stessa e, di conseguenza la vanificazione di tutto il tempo speso e l’attività svolta dal ricorrente per la sua implementazione, con l’irrimediabile perdita dei followers finora acquisiti”;
  • tanto delle c.d. “astreintes” ex art. 614 bis c.p.c., vale a dire di “…quello specifico ventaglio di strumenti di coartazione della volontà del debitore che si concretano della minaccia di sanzioni civili o penali, al fine di costringerlo ad adempiere ai suoi obblighi”, in quanto la richiesta di riattivazione dell’account utente, avrebbe natura di obbligazione incoercibile di facere – “…vale a dire da una quota di prestazione non attuabile mediante i mezzi di esecuzione forzata previsti dall’ordinamento, richiedendosi una non surrogabile attività di collaborazione o cooperazione ad opera del soggetto obbligato o di un soggetto terzo”.

Il Tribunale di Pordenone, pertanto, in accoglimento del predetto ricorso:

  • “…ordina[va] a Facebook Ireland Limited l’immediato ripristino del profilo personale del Ricorrente presso il proprio portale e, per l’effetto, l’immediata riattivazione del relativo accesso alla gestione della pagina;
  • “…ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. dispone[va] che Facebook Ireland Limited paghi al signor ___ una penale pari ad Euro 150,0 per ogni giorni di ritardo nell’esecuzione del presente procedimento…”.

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[:it]downloadCon una recente pronuncia, datata 28 settembre 2018, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, hanno ritenuto valida la notificazione eseguita all’indirizzo pec di un collega, risultante dall’Albo professionale di iscrizione, ancorché priva dell’inciso “notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994” nonché dell’indicazione del codice fiscale della parte nel cui interesse era stato notificato il provvedimento giudiziario.

La vicenda in esame

Un’Azienda Sanitaria Provinciale proponeva vittoriosamente opposizione avverso un decreto ingiuntivo con cui il Tribunale di Messina l’aveva condannata al pagamento di una cospicua somma di denaro per delle prestazioni di natura riabilitativa eseguite dalla creditrice, sulla scorta della dedotta operatività per tali prestazioni del sistema della c.d. regressione tariffaria. Detta decisione veniva tuttavia ribaltata in sede di Appello dal giudice di seconde cure, che riconoscendo l’esistenza del credito, confermava l’opposto decreto ingiuntivo. La sentenza della Corte d’Appello veniva notificata all’indirizzo pec del difensore in data 26 giugno 2015.

Il ricorso per Cassazione e l’eccezione di inammissibilità

Avverso detta pronuncia ricorreva per Cassazione l’Azienda Sanitaria Provinciale, “…con procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016”.

La controricorrente costituendosi, eccepiva l’inammissibilità del predetto ricorso, in quanto depositato – in palese violazione del termine di 60 giorni indicato nell’art. 352, co. 2, c.p.c. – a distanza di diversi mesi dalla notificazione della sentenza al procuratore costituito.

I difensori del ricorrente, al fine di impedire la decorrenza del termine “breve” di cui all’art. 352. co. II^ c.p.c., deducevano a loro volta la nullità della predetta notificazione in quanto:

  • l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179”;
  • la notifica sarebbe viziata dall’omessa indicazione del codice fiscale della parte nonché dall’omessa indicazione della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994“.

La validità della notificazione eseguita all’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata dall’avvocato al proprio albo di appartenenza.

Di diverso avviso, tuttavia, sono le Sezioni Unite, ritenendo pienamente valida ed efficace la notificazione eseguita all’indirizzo pec risultante dall’albo professionale, sulla stregua della seguente condivisibile motivazione:

  • il D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale“, espressamente prevede che: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.
  • da un’interpretazione letterale della sopracitata norma, emerge con chiarezza che la stessa “…imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE”;
  • detta interpretazione risulta corroborata da quanto espressamente previsto dall’art. 5 della L. n°53/1994: “… l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”.

L’irrilevanza dei vizi di natura procedimentale qualora non comportino un pregiudizio per la decisione

 

Ad avviso della Suprema Corte non meritano parimenti apprezzamento le ulteriori censure operate dalla ricorrente, relative all’omessa indicazione del codice fiscale e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

Richiamando un proprio recente orientamento (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665) gli Ermellini hanno chiarito, infatti, come in tema di notificazione in via telematica, vada privilegiato il raggiungimento dello “scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata”, con conseguente l’irrilevanza dei vizi di mera natura procedimentale che non comportino “…una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione”.

E tali debbono considerarsi:

  • sia “la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituente una “mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto” (sul punto vedasi anche Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814);

sia “…l’omessa indicazione del codice fiscale (…) dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della n[:]

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