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Negli ultimi anni si sono registrate molteplici pronunce dei Tribunali di tutta Italia, originate dai ricorsi di genitori contrari alla presenza di immagini e video dei minori sui social, pubblicate dall’ex partner.

Ne è un chiaro esempio l’ordinanza del 30 agosto 2021 con cui il Tribunale di Trani – pronunciandosi in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato da un padre al fine di veder inibita la pubblicazione di immagini della figlia sul noto social network “Tik Tok” per mano (o meglio click) dell’ex moglie – ha giudicato ammissibile il reclamo e illegittima la condotta materna, alla luce della mancata contestazione della condotta addebitatale nonché della mancata prova del consenso paterno (non desumibile, ad avviso della Corte, dalla possibilità per il ricorrente di controllare e/o accedere al profilo dell’ex moglie):

  • condannando la madre della minore “…alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore … , inseriti su social networks, comunque denominati”;
  • inibendo “…dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso del padre”;
  • determinando “ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima”.

Ad avviso del Tribunale pugliese, infatti, la pubblicazione di video ed immagini di minori senza il consenso dell’altro genitore integra la “….violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali” ed in particolare:

  • dell’art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), che recita: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”;
  • del combinato disposto dell’art. 1 e dell’art. 16 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 1991 che prevedono rispettivamente:
    • l’art. 1 l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto;
    • l’art. 16 che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti“);
  • l’art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018)che considera l’immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.lgs. n. 196 del 2009 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633 del 1941)”;
  • l’art. 2 quinquies del D.lgs. n°101/2018 che recita: “il minore che ha compiuto i quattordici anni può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione. Con riguardo a tali servizi, il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a quattordici anni, fondato sull’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), del Regolamento, è lecito a condizione che sia prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale”.

In merito da ultimo al requisito del periculum, il collegio, richiamando la nota pronuncia del 19 settembre 2017 del Tribunale civile di Mantova, ha condivisibilmente rilevato come “…il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network” e ciò in quanto “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati.

Quanto sopra è stato del resto ribadito in modo pressoché unanime nel corso degli anni da diverse autorità giudiziarie, tra cui il Tribunale civile di Rieti e di Mantova.

In particolare, il Tribunale laziale, con ordinanza del 7 marzo 2019, è giunto alle medesime conclusioni del Tribunale pugliese, affermando:

  • la sussistenza del requisito del fumus boni iuris, alla luce dell’illiceità del trattamento dei dati personali del minore di anni 14 in mancanza del consenso di chi esercita sullo stesso la responsabilità genitoriale, così come disposto dal già citato art. 2 quinques del Codice Privacy;
  • la sussistenza del requisito del periculum in mora, “…atteso che l’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet” e ciò in quanto “Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”;
  • la possibilità di richiedere altresì l’applicazione dell’astreinte ex art. 624 bis c.p.c., ritenuta “…pienamente giustificata dall’esigenza di tutelare l’integrità dei minori e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonchè, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti”.

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A seguito della novella apportata dal D.lgs. n°154 del 28 dicembre 2013 e all’introduzione nel Titolo IX (“Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”) del Libro Primo, del capo II – rubricato “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimento relativi ai figli nati fuori del matrimonio” – è stato attribuito al giudice il potere di adottare, ai sensi dell’art. 337 ter c.c. “…ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di  temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare”.

In particolare, nei casi caratterizzati da una elevata conflittualità tra i coniugi e da un serio rischio di compromissione del rapporto tra il minore e il genitore con esso non convivente, sempre più frequentemente alcuni Tribunali stanno ricorrendo all’affido del minore presso i servizi sociali, riconoscendo a questi ultimi, come sottolineato dalla Suprema Corte, “…un ruolo di supplenza e di garanzia e intese a far iniziare ai genitori un percorso terapeutico finalizzato al superamento del conflitto e alla corretta instaurazione di una relazione basata sul rispetto reciproco nella relazione con il figlio”.

Di recente, La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°28998/18 del 12 novembre 2018, si è trovata a pronunciarsi sulla legittimità di un decreto con cui la Corte d’Appello di Venezia, in sede di reclamo, aveva disposto, al fine di precostituire “…le condizioni per il ripristino di una condivisa bigenitorialità tutelando da subito nel modo più penetrante il minore…”, l’affidamento dei minori ai servizi sociali, con collocamento presso la madre, nonché “…un progressivo incremento del diritto di visita del padre, secondo un calendario da predisporsi dai Servizi Sociali, con pernottamento del minore presso il padre ed introduzione di periodi alternati tra i genitori di permanenza del minore in occasione delle festività”, senza tuttavia determinarne modalità e durata.

La Corte, investita della questione, preliminarmente conferma l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto di Corte di Appello in quanto, citando alcuni precedenti “Il decreto della corte di appello, contenente provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio e le disposizioni relative al loro mantenimento, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché già nel vigore della L. 8 febbraio 2006, n. 54 – che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio – ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – che ha abolito ogni distinzione – al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile ‘rebus sic stantibus’ a quella del giudicato” (Cass. 6132 del 2015 cui è seguita 18194 del 2015; Cass. n. 3192/2017).

La Corte invece reputa infondata la censura operata dalla ricorrente relativa alla “…violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 4 commi 3 e 4, avendo la Corte confermato l’affidamento del minore ai Servizi Sociali senza determinare le modalità e la durata dell’incarico”. Ad avviso degli Ermellini, infatti, il provvedimento adottato dalla Corte veneziana risultava “…sufficientemente dettagliato e corretto” in quanto la necessaria indicazione della presumibile durata dell’affidamento e delle modalità di esercizio dei poteri degli affidatari, sono condizioni richieste solo per l’affidamento familiare previsto dall’art. 4, commi 3 e 4 della legge n°184/83, non già per il provvedimento di affidamento familiare di cui all’art. 337 ter c.c. bensì dell’affidamento.

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[:it]_86135137_polizeiA distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore del Regolamento 679/2016/UE del Parlamento e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, il Tribunale di Mantova si è pronunciato su un’interessante questione che coinvolge sempre più genitori e figli: privacy e social media.

La vicenda trae origine da un ricorso dinnanzi al Tribunale civile di Mantova da un padre per la revisione delle condizioni di affido e mantenimento di due figli minori in tenera età (rispettivamente tre anni e mezzo e due anni e mezzo), entrambi residenti con la madre. Nelle more del giudizio i genitori raggiungevano un accordo, inserendo tra le condizioni l’espresso l’obbligo a carico della madre di cancellare le innumerevoli fotografie dalla stessa “postate” sul suo profilo Facebook e di non pubblicarne di nuove. A seguito della mancata cancellazione delle foto il padre si rivolgeva al giudice chiedendo di inibire l’ex compagna dall’inserire altre foto dei figli sui social network e di rimuovere immediatamente quelle già presenti.

Il Tribunale dà ragione al marito, ordinando alla madre la pronta rimozione di ogni foto, con un’interessante motivazione basata non solo sulla violazione dell’espresso accordo raggiunto sul punto dai genitori ma soprattutto sull’interesse superiore dei bambini e sui pregiudizi che potrebbero derivare loro dalla circolazione di detto materiale in rete.

Osserva, infatti il Tribunale che:

  • dal momento che le fotografie dei minori devono considerarsi dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 (normativa in punto di privacy) e la loro diffusione integra un’illecita “…interferenza nella loro vita privata”;
  • le continue fotografie dei figli postate dalla madre sui social, in violazione degli accordi raggiunti con il padre e contro la volontà di quest’ultimo, integrano la violazione:
    1. dell’art. 10 c.c., che tutela il diritto all’immagine;
    2. del combinato disposto degli articoli 4,7,8 e 145 del d.lgs. 196/2003 nonché degli articoli 1 e 16, co. 1, della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo;
    3. l’art. 8 del neo- adottato regolamento 679/2016/UE, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio 2018.
  • la presenza di foto dei minori sui social media costituisce altresì un comportamento potenzialmente pregiudizievole per gli stessi dal momento che “…determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia”.

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[:it]download (1)La PAS (Sindrome da Alienazione Parentale)

Il fallimento della propria unione è difficile da accettare, ancor di più per i propri figli. È per questo che è importante fare capir loro che l’amore del papà e della mamma non verrà mai meno, perché padre e madre si resta anche dopo una separazione.

Aimè, tuttavia, nelle liti familiari che riempiono i tribunali italiani sta emergendo in modo sempre più preoccupante il fenomeno della c.d. alienazione parentale, definita dal celebre psichiatra americano Richard A. Gardner, come: «Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile».

Nella giurisprudenza degli ultimi anni il riferimento alla PAS sta divenendo sempre più recente, ancorché se l’esistenza e i connotati di questa patologia siano ancora discussi in ambito medico.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n°21215 del 13 settembre 2017, si è recentemente imbattuta in un caso di alienazione parentale degno di nota, anche per le misure assunte dai giudici nei primi gradi di giudizio al fine di porvi rimedio.

I primi gradi di giudizio.

La vicenda di cui ci si occupa trae origine da una delle tante cause di divorzio in cui, oltre alle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento per il coniuge e i figli, le parti hanno demandato al Tribunale di Napoli di pronunciarsi sul regime di affido e mantenimento di una figlia minore.

All’esito della CTU svoltasi in primo grado, da cui era emersa una forte manipolazione della bambina ad opera della madre –  tale da spingerla a provare risentimento nei confronti del padre sulla base di motivi artificiosi creati ad arte dalla madre e a rifiutarsi di incontrarlo – il Tribunale partenopeo aveva deciso:

  • di affidare la minore per un periodo di 6 mesi alla zia paterna, disciplinando puntualmente gli incontri dei genitori con la bambina
  • di porre a carico di ambedue i genitori un congruo assegno di mantenimento;
  • di rigettare la domanda di assegnazione della casa familiare e di assegno di mantenimento per il coniuge avanzata dalla madre.

La madre, tuttavia, propone ricorso avverso detta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Napoli, chiedendo di disporsi l’affido condiviso della figlia con collocamento prevalente presso la stessa.

La Corte di secondo grado, tuttavia non solo rigetta l’appello della madre ma decide – essendosi concluso il periodo di 6 mesi di affidamento della bambina alla zia paterna – di disporre l’affido esclusivo della piccola al padre, ponendo a carico dell’ex moglie un assegno di mantenimento di € 400,00 e disciplinando degli incontri protetti madre – figlia presso i Servizi Sociali.

Le risultanze della C.T.U.

Alla base della decisione, ancora una volta, gli esiti della C.T.U. svoltasi in primo grado che così ha descritto l’ex moglie, la quale:

  • “…mostra un tratto passivo aggressivo, alternando momenti in cui si percepisce vittima a momenti in cui perseguita lei stessa il C…. percepisce pericoli incombenti da cui difendersi e lottare ed è presente una spinta sadomasochistica con tendenza al vittimismo… tende a voler definire lei il ruolo paterno del sig. C., e durante i colloqui mostra un atteggiamento svalutante nei confronti del padre”;
  • “…non le [alla figlia] riconosce il diritto di amare il suo papà e, in maniera consapevole o inconsapevole, agisce con ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente…”;

Ancor più significative, poi, sono le risultanze con riferimento alla figlia, la quale:

  • “…in presenza della madre, si disperava dicendo di non voler andare con il padre ma, non appena la genitrice si allontanava, subito si rasserenava, confortata dall’affettuosità paterna”;
  • “…non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, nonché una coatta e forzosa ostilità verso il padre… si riscontra una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre…”.

Ad avviso dell’esperta nominata dal Tribunale, il condizionamento che aveva subito la minore era di tale entità da rendere insussistenti “…le condizioni per intraprendere un favorevole percorso terapeutico, al fine di agevole la ripresa dei contatti della bambina con il padre…” e da escludere altresì “…l’opportunità dell’affidamento della minore alla madre”.

Il giudizio in Cassazione

La madre decideva di ricorrere avverso detta sentenza sino alla Corte di Cassazione, eccependo che la decisione del giudice di secondo grado era fondata sulla diagnosi della sindrome d’alienazione parentale, senza che la Corte avesse provveduto “…alla verifica scientifica della teoria posta alla base della diagnosi”.

La Suprema Corte, tuttavia, rigetta l’appello della donna sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • preliminarmente, “…l’allegazione, nel ricorso per cassazione, di un mero dissenso scientifico, che non attinga un vizio nel processo logico seguito dalla Corte territoriale, si traduce in una inammissibile domanda di revisione nel merito del convincimento del giudice” (tra le molte, cfr. Cass. sez. I^, sent. 9.1.2009, n. 282);
  • la decisione della Corte d’Appello si è basata non solo sulla C.T.U. espletata ma anche sulle risultanze di uno specialista che ha seguito la bambina nel corso del giudizio d’appello, esprimendo le medesime valutazioni della consulente tecnica e alla conclusione dell’inidoneità della madre all’esercizio della responsabilità genitoriale;
  • dirimente per la decisione della corte d’appello non è stata la ricorrenza di una patologia, quale la PAS, bensì ma “…l’adeguatezza di una madre a svolgere il proprio ruolo nei confronti di una figlia minore che si trova in grave difficoltà, avrebbe bisogno del sostegno di entrambi i genitori, ma non riceve la collaborazione di cui ha bisogno dalla madre, in base alle univoche risultanze di causa…”;
  • la Corte d’Appello, infatti, ha correttamente fatto proprie le risultanze della CTU svoltasi in primo grado, dalla quale è emerso che “la P. ha cercato di esautorare il C., padre della piccola A. e di sostituirlo, nello svolgimento del ruolo paterno, con la figura del suo attuale compagno convivente. Infatti la stessa P. dichiarava che la figlia chiamava “papà” il compagno della mamma”.

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imagesA distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di vigilare e risolvere le problematiche di gestione dei figli in una coppia separata, caratterizzata da un’elevata conflittualità tra coniugi.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge. In particolare, ad avviso del ricorrente, il fallimento del matrimonio sarebbe da addebitarsi all’anaffettività e agli atteggiamenti offensivi che la moglie aveva tenuto tanto nei suoi confronti quanto nei confronti della cerchia parentale. Il marito, inoltre, si lamentava dei comportamenti tenuti dalla moglie, dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli, chiedendo, nonostante l’affido condiviso con collocamento prevalente dei figli presso la madre, la condanna di quest’ultima ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.. La resistente, costituitasi in giudizio, chiedeva a sua volta l’addebito al marito, affermando che l’intollerabilità della convivenza era dipesa unicamente dall’esistenza di una relazione adulterina, nonché l’affido congiunto dei figli con collocamento prevalente presso di lei.

All’esito della fase istruttoria, il Tribunale accoglieva la richiesta di addebito della moglie ritenendo comprovata l’ascrivibilità del fallimento del matrimonio al tradimento del marito non solo dalla perizia investigativa depositata quanto dalla stessa ammissione da parte del ricorrente durante l’udienza presidenziale. Il Tribunale decideva, altresì, di accogliere la domanda di condanna della madre ex art. 709 ter c.p.c. “…atteso che dagli atti emerge come, in più occasioni, la resistente abbia ingiustificatamente frapposto ostacoli alla regolare frequentazione fra il padre e i figli…”.

Passando alla regolamentazione dell’affidamento dei figli, il Tribunale osserva preliminarmente come tanto i Servizi sociali quanto la C.T.U. esperita nel giudizio abbiano evidenziato “…che entrambi i genitori sono in grado di gestire singolarmente i figli e che le difficoltà nelle relazioni (in particolare del padre) dipendono esclusivamente dalla mai sopita conflittualità (presente anche durante la convivenza) fra gli adulti…”.

Il Tribunale decide, tuttavia, che la sola conflittualità tra i coniugi non sia sufficiente per disporre l’affido esclusivo degli stessi a l’uno o all’altro genitore – dando peraltro atto che ambedue i coniugi avevano richiesto l’affido condiviso dei figli – ritenendo non “…positivamente dimostrata l’inidoneità educativa ovvero la manifesta carenza del ricorrente…”, disponendo pertanto l’affido condiviso degli stessi con collocamento prevalente presso la madre “…avendo i figli instaurato un più solido legame affettivo con essa ed essendo costei in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica, come chiaramente emerge dalla consulenza tecnica”. D

A causa della comprovata ed elevata conflittualità tra i genitori e dei comportamenti posti in essere dalla madre e tesi ad ostacolare i rapporti dei ragazzi con il padre, il Tribunale decide, tuttavia, di nominare una figura esterna, il c.d. coordinatore genitoriale o educatore professionale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, incaricandolo all’uopo di:

  1. di monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. di coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • di redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

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dieta-vegana-cibi-vegetali-proteici-vegan-foodI motivi di conflitto tra genitori separati possono essere innumerevoli, dagli sport alla scuola da frequentare, dalle vacanze alle gite scolastica, sino ad arrivare al regime d’alimentazione da fare seguire ai figli. Tale ultimo motivo, di recente, è finito alla ribalta a seguito della diffusione di stili alternativi di alimentazione, quale la dieta vegetariana e vegana.

Proprio un conflitto tra due genitori circa il regime alimentare da fare seguire alla figlia è stato recentemente risolto dal Tribunale civile di Roma, sez. I^, con ordinanza del 19 ottobre 2016.

Il caso trae origine da un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. presentato da un padre separato, preoccupato dalla dieta vegana imposta unilateralmente dalla madre alla propria figlia non soltanto a casa ma anche a scuola. In particolare, ad avviso del padre, tale dieta, sarebbe stata assolutamente dannosa per la bambina tanto da un punto di vista salutistico, come confermato da una relazione del pediatra asseverante la ridotta crescita della stessa, quanto psicologico, a seguito della costrizione per la bambina di seguire una dieta diversa dagli altri compagni, nonostante l’assenza di malattie o allergie tali da renderla necessaria.

Si costituiva in giudizio la madre la quale tentava inutilmente di minimizzare sostenendo che la dieta seguita dalla stessa e fatta seguire alla figlia fosse in realtà vegetariana, comprensiva pertanto del consumo di uova e latticini, e che, in ogni caso, tale dieta sarebbe decisamente più salutare rispetto al consumo di carne, stante l’incertezza dei controlli sulla stessa, e la presenza in molti prodotti preconfezionati di sostanze nocive. Ad avviso della madre, inoltre, ben poteva la bambina seguire la “dieta paterna” durante i periodi trascorsi con il padre, ferma la dieta vegana tanto a casa quanto a scuola.

Di diverso avviso è, tuttavia, il Tribunale di Roma.

I giudici capitolini, investiti della questione, chiariscono preliminarmente che“…la decisione relativa al regime alimentare del figlio minore deve indubbiamente essere considerata di maggiore interesse” e pertanto, nel regime di affidamento condiviso vigente nel caso di specie, deve essere rimessa, in caso di disaccordo tra i genitori, al giudice.

Il Tribunale, pertanto, dopo aver analizzato la documentazione medica in atti e rilevato l’assenza di ragioni connesse alla salute della minore, quali allergie o intolleranze, tali da far prediligere la dieta vegana, ha ritenuto di dover “…applicare parametri di normalità statistica che impongono di far seguire alla figlia minore della parti un regime alimentare privo di restrizioni.”

Secondo la condivisibile motivazione del Tribunale, infatti, la scelta sul regime alimentare da far seguire alla bambina deve prescindere totalmente dalle convinzioni alimentari dei genitori, dovendosi compiere facendo riferimento “…alle condotte normalmente tenute dai genitori nella generalità dei casi per la cura e l’educazione dei figli”. E tale è il regime alimentare, privo di restrizioni ad alcun alimento, normalmente seguito dalle scuole italiane, le cui mense sono (o meglio dovrebbero) essere sottoposte all’attento controllo pubblico.

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Risultati immagini per immagine father sonAllorché sussista conflitto genitoriale in ordine al prevalente collocamento dei figli, il criterio “guida” che deve guidare il Giudice, secondo il Tribunale Civile di Milano – sentenza 13 ottobre 2016, G.I. dott. Buffone –  è il superiore interesse del minore, non potendo al contrario trovare applicazione quello che alcuni definiscono come “principio della maternal preference” (nella letteratura di settore: Maternal Preference in Child Custody Decisions), poiché criterio interpretativo non previsto dagli articoli 337-ter e ss del codice civile ed in vero in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della legge n°54 del 2006 sull’affidamento condiviso.

Invero, il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore. In altri termini, per individuare il genitore di prevalente collocamento non può essere attribuita alcuna preferenza all’uno o all’altro ramo genitoriale.

Normative del genere sono univocamente anche quelle da ultimo introdotte in Italia dal Legislatore (in particolare la legge n°219 del 2012 e il decreto legislativo n°154 del 2013).

Peraltro, non è argomento valido quello ricavabile dalla recente sentenza della Cassazione n. 18087 del 14 settembre 2016: in quel caso, come si legge nella decisione di legittimità de qua, il criterio della c.d. Maternal preference non era stato “tempestivamente contestato” ed era divenuto, dunque, elemento passato in giudicato; comunque, la Suprema Corte ha fondato la sua decisione non certo sul solo criterio sopra indicato, ma su altri numerosi argomenti, specificamente indicati in parte motiva.

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