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downloadLa Suprema Corte di Cassazione, a distanza di quasi quattro anni dalla sentenza n°24843 del 21 novembre 2014, è tornata a pronunciarsi sulla validità dei contratti di locazione ad uso non abitativo in caso di nullità della clausola di durata, a seguito della previsione da parte dei contraenti di un termine inferiore al sessennio.

Il fatto di cui è causa

Con ricorso ex art. 615 c.p.c., co. 2, i conduttori di un immobile commerciale proponevano opposizione all’esecuzione intrapresa in loro danno per il rilascio dello stesso, deducendo l’improcedibilità della predetta ex art. 34 della legge n°392/78 e chiedendo, pertanto, l’accertamento del loro diritto a ricevere un’indennità di avviamento.

I locatori, costituitisi, chiedevano il rigetto delle opposte doglianze eccependo, in particolare, la presenza di clausole contrattuali con cui:

  • le parti avevano espressamente convenuto la non applicabilità degli articoli 36, 30-40 della legge n°392/78 al contratto inter partes;
  • le parti avevano determinato in 2 anni, tacitamente rinnovabili, la durata del contratto locatizio;
  • i conduttori avevano rinunciato, alla scadenza contrattuale, a qualsiasi indennità a titolo di perdita di avviamento;
  • le parti avevano convenuto che la nullità delle predette clausole, ai sensi dell’art. 1419, co. 1 c.c., avrebbe comportato la nullità dell’intero contratto.

Il Tribunale di Taranto, investito della questione, dichiarava cessata la materia del contendere alla luce dell’avvenuto rilascio, medio tempore, del locale, rigettando la domanda degli opponenti in punto di indennità di avviamento. La decisione veniva confermata anche in sede di appello.

Gli opponenti decidevano tuttavia di ricorrere per cassazione eccependo l’erronea applicazione dell’art. 1419 c.c.

La decisione della Suprema Corte

Gli ermellini, investiti della questione, ritengono fondato detto motivo, cassando con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, alla luce della seguente condivisibile argomentazione:

  • il I^ comma dell’art. 1419 c.c. “…prevede che la nullità parziale o della singola clausola non comporti la nullità totale del contratto cui accede, salvo che non risulti che i contraenti non avrebbero concluso il regolamento negoziale senza quella parte colpita da nullità…”;
  • l’essenzialità della clausola, ai sensi del comma I^ deve essere valutata in senso oggettivo;
  • il II^ comma dell’art. 1419 c.c., disciplinante il fenomeno della conservazione del contratto tramite l’inserzione ex lege delle clausole nulle, costituisce “un’eccezione al campo di operatività del primo, limitato, appunto, dalla presenza di clausole contrattuali imposte ex lege e non derogabili nemmeno sotto l’habitus dell’essenzialità”, determinando un’automatica eterointegrazione del contratto, giustificante la limitazione dell’autonomia contrattuale alla luce “…di un’esigenza sociale ritenuta meritevole di tutela preferenziale”;
  • una giurisprudenza costante ha chiarito da tempo che il predetto comma 2 dell’art. 1419 c.c. si riferisce “…all’ipotesi in cui specifiche disposizioni, oltre a comminare la nullità di determinate clausole contrattuali, ne impongano anche la sostituzione con una normativa legale, mentre tale disposizione non si applica qualora il legislatore, nello statuire la nullità di una clausola o di una pattuizione, non ne abbia espressamente prevista la sostituzione con una specifica norma imperativa”;
  • a ciò consegue la piena operatività del comma 2 nel caso di specie atteso che a norma della L. n. 392 del 1978, art. 27, comma 4, ove in una locazione non abitativa sia convenuta una durata inferiore a quella legale, ‘la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti’”.
  • Cass. civ. Sez. III, ordinanza n. 20974 del 23 agosto 2018

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downloadLa Suprema Corte, con ordinanza n°30139 del 14 dicembre 2017 è ritornata sull’annosa questione della necessità o meno di indicare un domiciliazione fisica, a seguito dell’introduzione – ad opera dell’art. 16 sexies del D.L. n°170/12, convertito con L. n°114 dell’11 agosto 2014 –della c.d. domiciliazione “digitale”, ovvero dell’indirizzo pec comunicato dall’avvocato al proprio ordine di appartenenza.

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato a seguito della valutazione, da parte di un Tribunale, della piena validità della notificazione di un atto di appello avvenuta presso la cancelleria del Giudice di pace, e non mediante invio di una pec al difensore domiciliatario patrocinante extra districtum ovvero alla società dallo stesso rappresentata, nonostante i suddetti indirizzi fossero reperibili rispettivamente dal REGINDE e dall’INIPEC.

La III^ sezione accoglie il ricorso del ricorrente alla luce della seguente condivisibile iter motivazionale.

Partendo dal dato normativo, i giudici transtiberini osservano che:

  • l’art. 16 sexies del D.L. n°179/12 prevede testualmente: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”;
  • “…tale norma, dunque, nell’ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., per il giudizio di cassazione), impone alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo PEC risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, (codice dell’amministrazione digitale) ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. n. 44 del 2011, gestito dal Ministero della giustizia, escludendo che tale notificazione possa avvenire presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo PEC, per causa da addebitarsi al destinatario della notificazione”;
  • che, tale prescrizione, in aggiunta, “…prescinde dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l’indirizzo PEC del difensore, stante l’obbligo in capo ad esso di comunicarlo al proprio ordine e dell’ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE”;
  • che, pertanto, la norma in esame “…svuota di efficacia prescrittiva anche il R.D. n. 37 del 1934, art. 82, posto che, stante l’obbligo di notificazione tramite PEC presso gli elenchi/registri normativamente indicati, potrà avere un rilievo unicamente in caso, per l’appunto, di mancata notificazione via PEC per causa imputabile al destinatario della stessa, quale localizzazione dell’ufficio giudiziario presso il quale operare la notificazione in cancelleria”.

A supporto di quanto sopraesposto, gli Ermellini richiamano quanto statuito con sentenza n°17048 del 11 luglio 2017: “In materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, (conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012), come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla L. n. 114 del 2014), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”.

La Suprema Corte, pertanto, conclude accogliendo il ricorso:

  • dichiarando che “…la notificazione dell’appello effettuata direttamente (ed esclusivamente) presso la cancelleria del Giudice di pace di Torre Annunziata è affetta da nullità, ma non già da inesistenza, essendo quest’ultima configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto quale notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale, tra cui, in particolare, i vizi relativi all’individuazione del luogo di esecuzione, nella categoria della nullità (cfr. Cass., S.U., n. 14916/2016 e Cass. n. 21865/2016)”;
  • cassando con rinvio al Tribunale, in funzione di giudice d’appello, al fine di provvedere alla rinnovazione della notificazione del gravame.

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[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°12477 del 31 gennaio 2017 e pubblicata il 18 maggio c.a., è recentemente ritornata sull’annosa questione della valenza probatoria della c.d. testimonianza de relato actoris, ovvero della deposizione resa da su fatti e circostanze di cui sono i testi siano stati informati dallo stesso soggetto che ha proposto il giudizio.

La vicenda trae origine da una richiesta di risarcimento danni tra condomini presentata a seguito degli atteggiamenti persecutori e ingiuriosi posti in essere da uno di essi durante dieci anni di assemblee condominiali. La domanda attorea veniva tuttavia rigettata tanto in primo grado quanto in appello per mancato assolvimento dell’onere probatorio con riferimento tanto ai comportamenti persecutori e alla loro durata decennale quanto all’asserita ed indimostrata qualità di vittima del ricorrente.

Il condomino, tuttavia, non demorde e ricorre in cassazione dolendosi, inter alia, della mancata considerazione di due testimonianze de relato ex parte e dirette, ritenute inutilizzabili a fini probatori per mancata di sostanziali riscontri.

La Corte transtiberina, esaminando congiuntamente i motivi di ricorso, dichiara gli stessi infondati, seppur emendando ex art. 384 c.p.c. il percorso motivazione, seppur condivisibile, in relazione alla questione della testimonianza de relato actoris.

A tal fine, la Corte:

  • preliminarmente fuga i dubbi attorei circa la natura delle testimonianze, da considerarsi de relato actoris in quanto “…aventi ad oggetto la dichiarazione della parte che ha proposto il giudizio, e non già il fatto oggetto di accertamento…”;
  • analizza i due orientamenti invalsi negli anni nella stessa Corte di legittimità, uno dei quali considera, attraverso un’interpretazione maggiormente rigorosa, detta deposizione affetta tout court da nullità, e l’altro, secondo il quale tale testimonianza “…può assurgere a valido elemento di prova quando sia suffragata da ulteriori risultanze probatorie, che concorrano a confermarne la credibilità”;
  • censura, infine, l’orientamento meno rigoroso, rilevando come lo stesso abbia l’inaccettabile conseguenza di attribuire “…una veste qualificata (quella di “elemento di prova”) ad una mera allegazione della parte circa un fatto costitutivo della domanda, per il solo fatto di essere stata confermata nella fase istruttoria mediante la deposizione di un teste, che quella allegazione si è invece limitato in ipotesi a riportare in quanto tale (ossia, per aver appreso il fatto dalla parte stessa, e non per cognizione diretta, o al limite per averlo appreso da terzi estranei al giudizio), come è avvenuto nella specie”.

La Corte pertanto conclude rigettando il ricorso ed emendando la motivazione nella parte in cui la Corte d’appello, al posto che dichiarare le testimonianze de relato actoris inutilizzabiliperché concernenti fatti, dichiarazioni, stati d’animo (specie, teste B.) riferiti ai testi…” dallo stesso attore, aveva ritenuto le stesse “…inutilizzabili a fini probatori per mancanza di sostanziali riscontri…”.[:]

[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°13870 del 1° giugno 2017 ritorna sull’annosa questione della validità delle notifiche effettuate mediante servizi postali privati.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una creditrice, la cui domanda di ammissione al passivo di un fallimento era stata rigettata in quanto ritenuta tardiva, essendo stata proposta oltre il termine di 30 giorni decorrenti dalla comunicazione del Curatore dell’esito del procedimento di accertamento al passivo.

In particolare, la ricorrente lamentava l’omessa considerazione, da parte del Tribunale di primo grado, della nullità e/o inesistenza della predetta comunicazione in quanto effettuata “…trasmessa per il tramite di organismo diverso dal “fornitore del servizio universale”, ovvero da Poste Italiane, che fornisce l’intero servizio postale universale su tutto il territorio nazionale a norma del D.Lgs. n. 261 del 1999, artt. 1 e 4”.

La Suprema Corte, investita della questione, condividendo la tesi della ricorrente, dichiara la nullità della predetta comunicazione sulla base dei seguenti condivisibili motivi:

  • l’art.97, comma 2 fall. (nel testo, qui da applicarsi, anteriore alle modifiche introdotte nel 2012), là dove prescrive che la comunicazione in questione “sia data tramite raccomandata con avviso ricevimento”, fa implicito riferimento al disposto del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, secondo cui “per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale: a) i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni; b) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 201)”;
  • l’unico fornitore del servizio universale (art. 1Lgs. n. 261cit.) è pertanto da ritenersi l’Ente Poste;
  • le comunicazioni, di contro, effettuate per il tramite di posta privata, devono ritenersi pertanto inidonee a fornire “…valida prova in ordine alla data di decorrenza iniziale -corrispondente a quella di consegna della comunicazione-, il termine per proporre l’opposizione non può considerarsi decorso al momento della proposizione”.

La Corte, pertanto, in accoglimento del ricorso, ha ritenuta pertanto nulla la comunicazione effettuata dal curatore a mezzo posta privata, “…atteso che le attestazioni redatte dagli incaricati di un servizio di posta privata non sono assistite dalla funzione probatoria che il già richiamato D.Lgs. n. 261 ricollega alla nozione di “invii raccomandati”, di talché la comunicazione effettuata mediante posta privata deve considerarsi inidonea.

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[:it]prenuptial-agreements

Dopo due anni, è giunta finalmente in discussione alla Camera la proposta di legge n°2669 del 2014, avente ad oggetto i c.d. “prenuptial agreements”, o accordi prematrimoniali, noti da tempo nel mondo anglosassone ma sino ad oggi banditi nel nostro ordinamento per nullità della causa.

Cosa sono gli accordi prematrimoniali?

Gli accordi prematrimoniali sono dei contratti sottoscritti dai coniugi con cui gli stessi disciplinano i loro rapporti patrimoniali in vista di un’eventuale separazione o divorzio. Funzione di tali accordi è quello di predeterminare le conseguenze patrimoniali della separazione o del divorzio in un momento antecedente, scongiurando altresì anni di costose battaglie giudiziarie.

Perché erano banditi in Italia?

In Italia, la Suprema Corte di Cassazione già da diversi decenni orsono aveva dichiarato la nullità di tali accordi, per illiceità della loro causa, incompatibili con l’indisponibilità dello status di coniuge e di alcuni diritti spettanti a seguito della separazione o del divorzio, in primis il diritto all’assegno divorzile, attesa la sua natura assistenziale. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, tali accordi erano reputandoli “rischiosi” in quanto idonei a limitare tanto la libera disponibilità dello status di coniuge nonché a pregiudicare la funzione alimentare dell’assegno divorzile.

Riportiamo di seguito un passaggio della nota sentenza n°3777 dell’11 giugno 1981, una delle prime ad affrontare la questione degli accordi prematrimoniali e a dichiararne la nullità nel nostro ordinamento, anche per ragioni di ordine pubblico: “ In tema di divorzio, il preventivo accordo con cui gli interessati stabiliscono, in costanza di matrimonio, il relativo regime giuridico, anche in riferimento ai figli minori, convenendone l’immodificabilità per un dato periodo di tempo, è invalido, nella parte riguardante i figli, per l’indisponibilità dell’assegno dovuto ai sensi dell’art. 6 l. 1dicembre 1970, n. 898, nella parte riflettente l’assegno spettante all’ex coniuge a norma del precedente art. 5, per contrasto sia con l’art. 9 della stessa legge, che non consente limitazioni di ordine temporale alla possibilità di revisione del suindicato regime, sia con l’art. 5 cit., che, fissando i criteri per il riconoscimento e la determinazione di un assegno all’ex coniuge, configura un diritto insuscettibile, anteriormente al giudizio, di rinunzia o di transazione, attesa l’illiceità della causa di un negozio siffatto, perché sempre connessa, esplicitamente o implicitamente, all’intento di viziare, o quanto meno di circoscrivere, la libertà di difendersi in detto giudizio, con irreparabile compromissione di un obiettivo d’ordine pubblico come la tutela dell’istituto della famiglia. Pertanto, in tale giudizio, non può una delle parti impedire all’altra di provare la verità delle condizioni di fatto alle quali la legge subordina e commisura l’assegno di divorzio e quello di mantenimento dei figli, eccependo l’intangibilità dell’accordo intervenuto in merito prima dell’inizio del giudizio medesimo”.

In epoca più recente, la Suprema Corte, in una serie di pronunce (ex multis nn°8109/2000 e 5302/2006), ha affermato che i suddetti patti, qualora volti a quantificare preventivamente l’assegno di divorzio, non erano affetti da nullità assoluta bensì relativa, precludendo così al solo coniuge economicamente più forte di invocarne la nullità.

Di fondo, dietro le declaratorie di nullità di tali accordi, si cela anche un pregiudizio evidente nei confronti dell’autonomia privata dei coniugi, ai quali non era concesso di predeterminare contrattualmente le sorti, anche economiche, del naufragio del loro matrimonio. A partire dal 2012, tuttavia, si sono segnalate alcune pronunce volte a riconoscere una pur limitata valenza all’autonomia delle parti. È il caso della sentenza n°23713 del 21 dicembre 2012, con cui la Suprema Corte ha dichiarato la validità di un contratto con cui la futura moglie si era obbligata, in caso di fallimento del proprio matrimonio, a trasferire gratuitamente al marito un immobile, quale indennizzo per le somme dallo stesso sborsate per ristrutturare la loro casa familiare.

Perché ora questa nuova apertura del Parlamento?

Recentemente, tanto in ambito internazional-privatistico, a livello europeo, tanto nel diritto interno, si sta progressivamente assistendo ad una valorizzazione dell’autonomia privata, come mai successo in precedenza, anche nel settore del diritto di famiglia.

In particolare, il regolamento n°1259/2010 UE, in punto di giurisdizione e legge applicabile alla separazione e divorzio, ha introdotto la facoltà per i coniugi di scegliere, attraverso appositi accordi, ancor prima della separazione/divorzio, la legge applicabile alla stessa, proprio al fine di garantire la certezza del diritto, da un lato, e una deflazione del contenzioso giudiziario dall’altro.

Nel diritto interno, invece, l’autonomia privata è stata presa in considerazione dalla recente legge “Cirinnà” n°76/16, attraverso l’introduzione nel nostro ordinamento dei c.d. “contratti di convivenza”, con cui le coppie non sposate possono regolamentare la propria vita comune.

Qual è la proposta attualmente in discussione alla Commissione della Camera?

Il D.D.L., datato 2014, attualmente in discussione, si pone l’obiettivo di “riconoscere ai futuri coniugi nel momento che precede il matrimonio una più ampia autonomia al fine di disciplinare i loro rapporti patrimoniali e personali anche relativamente all’eventuale fase di separazione e di divorzio, attraverso accordi contenuti in un’apposita convenzione”.

Il D.D.L., in particolare, mira ad introdurre nel codice civile l’art. 162-bis c.c., rubricato “accordi prematrimoniali”, attraverso cui sarà permesso, salvo probabili modifiche all’attuale testo del D.D.L., di sottoscrivere, ricorrendo alternativamente alle convenzioni matrimoniali ex art. 162 c.c. ovvero alla negoziazione assistita tra avvocati, a contratti prematrimoniali, attraverso cui regolamentare gli aspetti patrimoniali del fallimento della loro unione.

Andiamoli ad analizzare.

Nell’accordo i coniugi possono regolamentare gli aspetti patrimoniali:

  • attribuendo ad uno di essi, alternativamente una somma di denaro periodica ovvero una somma di denaro una tantum (in unica soluzione);
  • attribuendo ad uno di essi, un diritto reale su uno o più immobili “anche con il vincolo di destinare, ai sensi dell’articolo 2645-ter, i proventi al mantenimento dell’altro coniuge o al mantenimento dei figli fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica degli stessi”;
  • rinunciando al mantenimento, fatto salvo in questo caso il diritto agli alimenti, ex articoli 433 e ss. c.c.;
  • trasferendo all’altro ovvero ad un terzo “beni o diritti destinati al mantenimento, alla cura o al sostegno di figli disabili per la durata della loro vita o fino a quando permane lo stato di bisogno, la menomazione o la disabilità”.

Ad ogni modo, le predette attribuzioni, specifica il disegno, non possono superare “più della metà del proprio patrimonio”.

In oltre, al fine di “adattare” le attribuzioni al momento in cui l’accordo produrrà effetti, il legislatore ha previsto altresì la possibilità per le stesse di “stabilire un criterio di adeguamento automatico del valore delle attribuzioni patrimoniali predisposte con gli accordi prematrimoniali”.

Qualora poi gli accordi abbiano ad oggetto il mantenimento anche dei figli minori o non ancora economicamente autosufficienti, il testo prevede la necessaria autorizzazione del procuratore della Repubblica, il quale, qualora non la conceda, dovrà indicarne i motivi, invitando le parti ad una riformulazione. In caso di bocciatura anche della proposta riformulata, poi, il diniego sarà definitivo.

Il disegno di legge prevede anche una deroga rispetto al divieto di patti successori, consentendo, nei limiti del rispetto dei diritti dei legittimari, di regolamentare anche quanto ricevuto dagli stessi coniugi per successione.

Per quanto attiene alla dimensione temporale, è importante evidenziare come tali patti possono essere stipulati e anche modificati sia prima che durante il matrimonio, purché prima del deposito del ricorso per separazione personale/la sottoscrizione della convenzione assistita o dell’accordo ex art. 6 e 12 D.lgs. n°132/14.

Ma ad oggi sono validi questi patti?

Che tali patti siano tuttora nulli è tuttavia da considerarsi pacifico alla luce anche della recente sentenza n°2224 del 30 gennaio 2017 della Suprema Corte di Cassazione. Non ci resta, pertanto, che aspettare fiduciosi nell’approvazione del D.D.L.

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